Ineguaglianza sociale, razzismo, neofascismo: sui fatti di Tor Sapienza
di Andrea Inglese
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1.“Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.” Così recita un passo del Vangelo si San Matteo. Nella sociologia statunitense si parla di Matthew effect, per designare quella legge sociale, verificata nell’ambito della ricerca scientifica o dell’apprendimento, per cui chi parte con un vantaggio non farà che cumularlo rispetto a dei soggetti concorrenti, che muovono invece da una posizione iniziale di svantaggio. Sociologi marxisti come Immanuel Wallerstein hanno mostrato la pertinenza dell’effetto di San Matteo anche nel campo della ripartizione delle ricchezze, ossia la tendenza, nelle società capitalistiche, a una polarizzazione accresciuta tra ricchi e poveri, sia all’interno di una stessa nazione, sia nel sistema dell’economia-mondo, in virtù dello scambio ineguale tra Nord e Sud del pianeta. Non è difficile applicare questo paradigma alle condizioni di vita di una popolazione metropolitana, come il caso di Tor Sapienza illustra.
Se avete un quartiere periferico, dove si concentra l’edilizia popolare, allora avrete anche uno scarso collegamento, da parte dei trasporti pubblici, con il centro della capitale. E questo non accresce l’insediamento e la prosperità dei commerci di quartiere, ma al contrario la desertifica. Se i palazzoni popolari pongono non semplici problemi di gestione degli spazi comuni, allora ci sarà anche una diminuzione della qualità del servizio raccolta rifiuti, e un territorio poco curato e sporco non sollecita nessuna cura e attenzione individuale. Dove c’è sporco sarà ancora più sporco. Se la popolazione del quartiere è tagliata fuori da un collegamento facile con il centro città, anche saranno assenti quelle forze dell’ordine che vegliano quotidianamente, invece, sui quartieri più ricchi, e di conseguenza, nel quartiere povero, l’illuminazione sarà scarsa, alimentando così sentimenti d’insicurezza e favorendo l’eventuale radicamento di fenomeni di micro-criminalità. Un quartiere scollegato, sporco, non frequentato dalle forze di polizia, poco illuminato, in cui già vi è una concentrazione di ceti popolari, con relativi disagi dati dalla scarsità di risorse economiche e culturali, funziona da magnete per tutti quei gruppi sociali marginali, che hanno bisogno, per sopravvivere, d’insediarsi in zone invisibili e abbandonate dall’autorità. E avremo, allora, nelle pieghe dei palazzoni popolari, gli insediamenti abusivi, e negli spazi comuni o abbandonati la prostituzione. Poiché, sull’onda neoliberista, nata negli Stati Uniti, e oggi in via di diffusione in Europa, lo Stato sociale si è trasformato in uno Stato penale , dove i poveri vanno non aiutati ma puniti, allora i più poveri, invece di cercare appoggi presso lo Stato, rifuggono dalle sue maglie, e si concentrano laddove esso è più assente, ossia là dove già esistono altri poveri. Ad accentuare la condizione di ghetto, la costruzione ad anello degli edifici, che sono serviti dall’unico accesso viario di Viale Morandi. Su di un terreno sociale e urbano di questo tipo, gli interventi più visibili dell’istituzione sono l’insediamento di uno Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e un Centro di prima accoglienza per minori. A ciò va aggiunta, poco lontano, la presenza di un campo nomadi (via Salviati).
Di fronte a un tale scenario, è del tutto comprensibile che i residenti del quartiere dicano: perché lo Sprar e il Centro di accoglienza non li piazzate nei quartieri del centro? E perché da noi non avviate un progetto di riqualificazione urbana, ossia non investite dei soldi per migliorare le nostre condizioni di vita? Ciò che risulta, invece, incomprensibile, è perché, muovendo da tali premesse, gruppi di residenti abbiano deciso che la responsabilità del cumulo di svantaggi sociali che il loro quartiere totalizza sia attribuibile a dei rifugiati stranieri, e non si capisce, quindi, perché invece di organizzare manifestazioni davanti al comune, indirizzate ai responsabili politici dell’amministrazione della città, essi si siano diretti contro il Centro di accoglienza con l’intenzione di spopolarlo con la violenza fisica e scandendo slogan razzisti.
2.
I fatti di Tor Sapienza hanno scoperchiato un inferno urbano e sociale. L’inferno delle condizioni di vita degli abitanti che vivono in quel quartiere popolare e periferico di Roma, l’inferno delle reazioni violente e razziste che quelle condizioni hanno in parte alimentato, l’inferno della strategia d’intervento neofascista su quei territori e su quelle situazioni di sofferenza e rabbia. Uno scenario in grado di pietrificare chiunque. Ma la stupefazione raggelata non è utile a nessuno. Eppure, anche sulla stampa che una volta si sarebbe detta progressista, e che oggi è sempre più cautamente progressista, ho notato un generale agnosticismo, una tendenza a sospendere il giudizio, di fronte all’inquietante intreccio di questioni sollevate dai fatti di Tor Sapienza. Anche se poi, più che prudente scetticismo, abbiamo a che fare con un consapevole e preventivo diniego: l’editoriale dell’ultimo numero dell’”Espresso” a firma di Luigi Vicinanza s’intitola “Attenti a chiamarlo razzismo”. Nello stesso numero, anche il sociologo Marzio Barbagli, nell’intervista che ha concesso al settimanale, ci tiene a precisare: “Gli italiani non sono razzisti. Dai dati che abbiamo raccolto sappiamo che la maggioranza è favorevole a regole più semplici per fare ottenere la cittadinanza agli immigrati”. Sul blog dell’“Espresso”, già il 12 novembre, un altro opinionista, Alessandro Gilioli, si era mostrato particolarmente scrupoloso nell’intervenire a caldo su un contesto da lui poco conosciuto, e aveva scritto: “Anche se forse qualcuno se ne stupirà, non è nelle intenzioni di questo post prendere le difese degli uni o degli altri, né al momento accusare i primi di razzismo: non conosco infatti le condizioni sociologiche in cui si vive in via Giorgio Morandi, e mi rifiuto di emettere giudizi su cose che al momento apprendo solo per superficiali letture”. Magnifiche parole, che vorremmo leggere in esergo al 90% degli editoriali che ogni giorni si stampano a milioni di esemplari. Strano, però, che il così tanto consapevole Gilioli sospenda il giudizio sul “razzismo”, per titolare disinvoltamente il suo pezzo “Prove di guerra civile”. Tutti si sono premurati di catalogare l’assalto armato al Centro per rifugiati di Viale Morandi come un episodio della guerra tra poveri, sperando in questo modo di esorcizzare il fantasma del razzismo. Il problema è che, molto spesso, ciò che trasforma una guerra tra poveri e ricchi – un episodio della lotta di classe – in una semplice guerra tra poveri è proprio una visione razzista della società. Quindi nei fatti di Tor Sapienza il razzismo è un elemento centrale, e che varrebbe la pena di analizzare e non semplicemente in un’ottica morale, bensì politica. Ripetere che, se la gente grida “negri maiali” o “negri di merda”, e aggiunge “bruciamoli”, ciò non ha niente a che vedere con il colore della pelle, ma con il disagio sociale, significa dimenticare che anche i pogrom, storicamente, sono stati favoriti da forme di disagio sociale. Cito da “L’Enciclopedia dell’Olocausto”: “In Germania e nell’Europa dell’est, durante il periodo dell’Olocausto, così come già durante l’epoca zarista, al tradizionale risentimento verso gli Ebrei dovuto all’antisemitismo religioso, si aggiunsero ragioni economiche, sociali e politiche che vennero usate come pretesto per i pogrom”. Oggi non credo che nessuno, salvo qualche audace revisionista, si permetterebbe di dire, che l’antisemitismo è un aspetto non pertinente nell’analisi dei pogrom.
Non solo il razzismo è un elemento centrale nella vicenda di Tor Sapienza, ma lo è in stretta relazione con l’intervento neofascista, che ha giocato senz’altro un ruolo nell’orientamento “razzista” imboccato dalla protesta. La questione non è quindi riducibile a una semplice aggressione razzista inconsulta. Proprio il carattere razzista di quella reazione è la spia di un probabile lavoro a monte, che non sarà stato determinante in assoluto, ma che è un fattore importante da considerare, soprattutto per il futuro. In anni come questi di crescente polarizzazione sociale, i minoritari neofascisti hanno mostrato più volte di sapere trasformare il disagio diffuso e un retroterra culturale fragile e permeato da stereotipi razzisti, in un tipo di azione collettiva, che essi sono in grado di nutrire di contenuti e di coordinare nella sua realizzazione violenta.
3.
Riporto qui un passo di Furio Jesi sul razzismo, che faceva parte di uno studio mai completato. Il brano è tratto dal primo capitolo intitolato Lo sporco selvaggio e incluso in Cultura di destra apparso per Nottetempo nel 2011. Jesi propone due esempi di razzismo, che nel caso specifico si traducono nell’associare “sporcizia” e “diverso”. Nel primo esempio, una signora torinese parla della sporcizia che i meridionali portano nei quartieri popolari, che un tempo abitavano i torinesi poveri, però con decoro e pulizia. L’altro riguarda Edmondo De Amicis, che vede una “sporcizia” inevitabile ma sana, nel povero laborioso, e una “sporcizia” disgustosa e connessa alle origini etniche, che s’incontra nel quartiere ebreo di Amsterdam. Scrive Jesi:
“La sporcizia degli ebrei poveri di Amsterdam ripugna a De Amicis perché non è dovuta al lavoro. Altrettanto si può dire dell’autrice della lettera alla “Stampa”: la sporcizia degli immigrati meridionali poveri e delle loro case non è dovuta al lavoro. Nell’uno e nell’altro caso, la sporcizia è dovuta alla miseria che l’ordinamento della società impone a quei poveri. Ma tanto De Amicis quanto l’autrice della lettera si rifiutano di indagare le vere cause di quella sporcizia, e dimostrano così di non volere rivolgere accuse contro ordinamenti della società che evidentemente sono per loro giusti e graditi. L’unico modo di evitare di accusare l’ordinamento sociale e di riconoscergli la responsabilità di quella sporcizia consiste nell’adottare convinzioni razziste e dichiarare: quella gente, gli ebrei poveri di Amsterdam e gli immigrati meridionali e poveri di Torino, è sporca perché per “razza”, per “sangue”, non possiede il senso della pulizia; ed è misera perché per “razza”, per “sangue”, non ha voglia di dedicarsi al lavoro (…).”
Ho citato Jesi qui per due motivi. Uno per mostrare come il “razzismo” sia un discorso “magico”, perfettamente autoreferenziale, che scivola sulla varietà delle circostanze storiche come un liquido su di una superficie impermeabile. Gli aspetti odiosi che il razzista attribuisce fatalmente a delle razze o a delle culture di popolazioni determinate, si ripetono come una litania uguale a se stessa nel corso del tempo e nel mutare dei luoghi e dei contesti. “Sporco” è stato l’ebreo in Europa, è stato il meridionale a Torino, è il rifugiato d’origine asiatica o africana a Tor Sapienza. Il discorso razzista – e qui vengo al secondo motivo della citazione – funge quindi da schermo opaco nei confronti della realtà sociale e storica, annichilisce ogni determinazione e nella sua plasticità infinita si presta, invece, ad ogni abuso. Il discorso razzista è sempre vero, perché non esige prove, ragionamenti, analisi. Esso quindi offre un’immediata e sempre identica soluzione, ancor prima che si siano analizzati i termini sociali del problema che viene posto. La soluzione alla sofferenza sociale di Tor Sapienza è l’allontanamento dei rifugiati stranieri perché essi sono portatori di “sporcizia”, di “violenza sessuale sulle donne”, di “ladreria”. La sofferenza sociale non nasce, quindi, al cuore del nostro sistema sociale, all’ombra delle istituzioni statali rispetto a cui, dalla nascita e alla morte, siamo quotidianamente confrontati. La sofferenza è causata da un piccolo gruppo di “dannati della terra”, alcuni minorenni, spesso di origini geografiche diverse, in fuga da guerre e persecuzioni, isolati in un paese che non conoscono. Questo gruppo di persone, catapultati dalle istituzioni italiane in un edificio di periferia, diventano d’un tratto il motore di tutte le ineguaglianze sociali. Non c’è bisogno più che l’analisi risalga la catena delle responsabilità, che si individuino i multiformi nemici di un sistema sociale, e che si debba così far fronte alla lucida considerazione di un’inesistente soluzione magica e istantanea, tutta concentrata in uno sfogo di violenza indiscriminata.
Leggo in una testimonianza importante , pubblicata sul sito Hurriya, queste righe: “Parlando della famosa guerra tra poveri [con i residenti del quartiere], abbiamo chiesto come si potesse prendersela con dei ragazzini e non con i veri responsabili del disagio che non sono certo difficili da individuare. Qualcuno ci ha risposto – parole letterali – che il centro è solo un capro espiatorio, insomma il posto giusto per fare casino, attirare l’attenzione, farsi dare qualcosa e probabilmente, aggiungiamo noi, fare un piacere a qualcuno che poi si ricorderà”.
Emerge qui una ancora diversa ipotesi. Il discorso razzista sarebbe usato in modo consapevolmente strumentale, sarebbe un discorso fatto senza crederci. Passiamo qui dall’uso incantatorio, obnubilante, del discorso razzista, al suo uso cinico e deliberato: attacco chi è vulnerabile e innocente, sapendo che è innocente, per ricattare chi è responsabile e chi è forte. Siamo qui nei dintorni della guerra asimmetrica, che ben conosciamo attraverso tutte le forme storiche e contemporanee di terrorismo. Faccio saltare in aria dei civili, per colpire i vertici politici e militari dell’esercito che non posso affrontare sul campo.
Per parte mia, non ho minimamente la pretesa di imporre una lettura definitiva di questi eventi. E questo non perché credo che sia impossibile parlare di questi eventi se non siano stati vissuti direttamente. Credo che, con un minimo lavoro di incrocio delle fonti, alcune linee di forza si disegnino all’interno di eventi sociali come quello di Tor Sapienza, pur nella lacunosità delle testimonianze e nell’ambiguità semantica connaturata a tali dinamiche sociali. Mi sembra, però, ancora una volta, che il razzismo, come discorso circolante, non come vizio caratteriale delle persone, sia uno dei fattori determinanti degli accadimenti, un fattore la cui portata resta da analizzare e comprendere, ma che negare con disinvoltura e in apertura di analisi mi sembra assurdo e irresponsabile.
Il discorso razzista è sempre disponibile. Nel ventennio berlusconiano, questo discorso in Italia è stato diffuso, nutrito, ribadito dalla destra al potere, con la Lega nel ruolo di centro propagandistico, e ha avuto mille sponde in diverse realtà politiche, sociali e culturali. Il grado di razzismo degli italiani, dipende, secondo le circostanze, dalla loro disponibilità a fare uso di questo discorso, a crederci, nel momento in cui forze politiche, come i neofascisti a Roma, glielo scodellano sul piatto. Le istituzioni, tanto quanto gli organi d’informazione, hanno poi una responsabilità enorme, nel permettere e favorire la costituzione di discorsi alternativi, costruiti attraverso pratiche associative e militanti, o attraverso saperi e analisi, capaci di far presa sulla complessità del reale. L’ondata neoliberista, però, che condiziona tutti i piani alti delle istituzioni oggi in Europa, predica di abbandonare non solo economicamente gli strati sociali più deboli, ma invita anche a ridurre la circolazione di strumenti culturali che possano essere utili nell’analisi critica della realtà. La cultura serve a chi già ce l’ha, e gli serve quindi come strumento per incrementare quei privilegi sociali che già possiede. A chi quei privilegi sociali non ha, verranno tolti e delegittimati anche tutti gli strumenti di conflitto e d’emancipazione che più di un secolo di lotte sociali e operaie hanno sedimentato. Secondo la legge di San Matteo, a chi non ha prospettive e vocabolario politico per difendersi, verrà reso disponibile il magico e inefficace discorso razzista, e per chi ha più stomaco la pratica del linciaggio.
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