18 novembre 2014

GRAMSCI: Vivere vuol dire essere partigiani!

Antonio Gramsci 







Una pagina attualissima del giovane Gramsci.

Giorgio Amico

Gramsci ai giovani: “Vivere vuol dire essere partigiani”


Il giorno 11 febbraio 1917 su "Il Grido del Popolo", organo della sezione socialista torinese usciva un breve comunicato ripreso poi il giorno successivo nelle cronache torinesi de L'Avanti!.

L'articolo, anonimo, ma scritto da Antonio Gramsci, pubblicizzava l'uscita di “La città futura”, numero unico pubblicato a cura della Federazione giovanile piemontese.

L'intento è chiaro: entrare in contatto con chi, troppo giovane ancora per essere mobilitato in trincea, subiva comunque anche a "casa", nelle fabbriche e nelle scuole, il peso terribile di una guerra che pareva non finire mai e che, nonostante la censura militare e la martellante propaganda governativa, appariva ogni giorno di più come una serie continua di inutili massacri.

Il tono è enfatico, più da volantino che da giornale e ha le caratteristiche di un appello, di una chiamata ai giovani perchè si uniscano alle forze organizzate del movimento socialista impegnate in una lotta che ha per scopo non tanto la fine delle ostilità, ma il cambiamento radicale della società e l'abbattimento di tutte quelle forze che la guerra avevano voluto e che da essa traevano enormi profitti. Quegli ambienti economici, politici e giornalistici che solo pochi anni dopo avrebbero sostenuto e armato in funzione antioperaia e normalizzatrice il nascente movimento fascista:

L'avvenire è dei giovani. La storia è dei giovani. Ma dei giovani che, pensosi del compito che la vita impone a ciascuno, si preoccupano di armarsi adeguatamente per risolverlo nel modo che più si confà alle loro intime convinzioni, si preoccupano di crearsi quell'ambiente in cui la loro energia, la loro intelligenza, la loro attività trovino il massimo svolgimento, la più perfetta e fruttuosa affermazione. (...) Il fatto della guerra ha scosso come una ventata gli indifferenti, i giovani che fino a ieri si infischiavano di tutto ciò che era solidarietà e disciplina politica. Ma non basta, non basterà mai. Occorre ingrossare sempre più le file e serrarle. L'organizzazione ha specialmente fine educativo e formativo. E' la preparazione alla vita più intensa e piena di responsabilità del partito. Ma ne è anche l'avanguardia, l'audacia piena di ardore”.



Una giovinezza segnata dal dolore

Chi scriveva era un giovane di 26 anni, di origini sarde, trasferitosi a Torino per motivi di studio e diventato in quella che era già allora la città della FIAT un militante socialista.

Antonio Gramsci era nato a Ales, un paese in provincia di Cagliari, il 22 gennaio 1891, quarto figlio di Francesco (piccolo impiegato statale originario di Gaeta) e di Giuseppina Marcias. Dopo di lui vennero altri tre bambini ad appesantire una situazione economica non certo rosea.

A tre anni, a causa di una caduta, il piccolo Antonio subì una deformazione della colonna vertebrale che ne limitò lo sviluppo. L'incidente (una caduta da una scala) gli procurò una disabilità permanente e fu il prologo di una malattia, il morbo di Pott (una forma di tubercolosi ossea degenerativa), che condizionò l'intera sua vita e lo portò alla morte a soli 46 anni.

Come se non bastasse nel 1897, quando Antonio aveva 6 anni e aveva appena iniziato la scuola elementare, il padre fu accusato di peculato e concussione, arrestato e condannato tre anni più tardi (già allora la Giustizia italiana era lenta) a quasi 6 anni di carcere.

Fu un colpo terribile per la famiglia che passò anni in una miseria estrema, solo parzialmente alleviata dalla successiva assoluzione in appello e totale riabilitazione del padre che nel 1904 potè riprendere il suo lavoro.

Gramsci mantenne per tutta la vita un ricordo vivissimo di quegli anni, della miseria patita, dellle umiliazioni subite (lui studente tanto povero di un Regio Liceo frequentato dai figli dei notabili, da dover chiedere in prestito ai compagni e ai professori i libri di testo), del dolore della madre, donna comunque forte che seppe farsi carico con estremo coraggio di una famiglia tanto numerosa.

La militanza come scelta di vita

Torino era all'inizio del secolo scorso una città all'avanguardia, sede di quotidiani importanti (La Stampa), di una Università prestigiosa, capitale italiana della nascente industria dell'automobile e del cinema. Una città ricca e colta, ma dalle profondissime contraddizioni sociali, già visibili nei pressi della Mole, in quei quartieri popolari del centro abitati da una classe operaia combattiva e organizzata da decenni di mutualismo e propaganda socialista iniziati già nel Risorgimento con le Società di Mutuo Soccorso mazziniane.

Gramsci arriva a Torino nel 1911, al termine degli studi liceali, vincitore di una borsa di studio che il Collegio Albertino riservava agli studenti poveri delle ex-province del Regno di Sardegna.

Si iscrive alla facoltà di Filosofia e Lettere e dopo circa un anno aderisce alla sezione torinese del Partito Socialista dove incontra e si lega a altri giovani fra cui spiccano Palmiro Togliatti e Umberto Terracini (studenti a Giurisprudenza) e Angelo Tasca (studente di Lettere). Con loro formerà il nucleo originario de L'Ordine nuovo e poi nel 1921 del Partito Comunista torinese.

Sono anche questi anni di miseria. La borsa di studio garantisce il minimo indispensabile per la sopravvivenza, ma niente di più e solo per 11 mesi all'anno. Eppure il giovane sardo è uno studente straordinario che unisce il massimo di impegno scolastico a un crescente impegno politico. Palmiro Togliatti lo ricorda come punto di riferimento per gli studenti torinesi, ben oltre i limiti della sua Facoltà. Lo si incontrava dappertutto- scrive- dove ci fossero professori capaci di interessare gli studenti e problemi da discutere.

Dal 1914 il problema più importante da dibattere è quello della guerra. Il Paese è diviso, da un lato liberali e nazionalisti schierati per l'intervento, dall'altro socialisti e cattolici a favore della pace e della neutralità.

Dopo un iniziale momento di smarrimento, il giovane Gramsci è in prima fila nella battaglia contro la guerra, tanto che nel 1915, dopo aver sostenuto un ultimo esame di letteratura italiana, decide di non laurearsi e di abbandonare definitivamente gli studi per dedicarsi interamente a una militanza politica che ha assunto ormai carattere rivoluzionario.

E' una scelta di vita a cui resterà fedele fino alla fine dei suoi giorni, nonostante la persecuzione, l'arresto, il carcere. A 24 anni Gramsci rinuncia a un tranquillo avvenire piccolo borghese (gli era stato offerto un posto di Direttore didattico) per assumere la direzione del settimane socialista torinese “Il Grido Del Popolo”.

Da giornalista militante, Gramsci ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi contro i grandi giornali cittadini (La Stampa, La Gazzetta del Popolo, Il Momento) espressione degli ambienti liberali e cattolici.

E' “Il Momento”, quotidiano cattolico allora importante, a essere il suo principale bersaglio. Ai cattolici Gramsci rimprovera l'incoerenza, il moralismo, l'ipocrisia, il dichiararsi per la pace e poi nella pratica quotidiana sostenere la guerra per interesse o anche solo per quieto vivere.

Contro gli indifferenti

Quella di Gramsci è prima di tutto una battaglia culturale, mirata alla costruzione di una società più libera e umana, quell'Ordine Nuovo senza più guerre e sfruttamento che solo il socialismo può garantire. Da qui l'interesse costante per i giovani, per quelle giovani generazioni mandate a morire in trincea nelle cui mani sta l'avvenire d'Italia.

Questo è il senso di “La Città Futura” , numero unico venduto a 2 soldi. Gli articoli non sono firmati, ma sono tutti di Gramsci a partire da una paginetta, bellissima e recentemente ristampata da un piccolo editore, contro il peccato dell'indifferenza, del non sentirsi coinvolti, del tirarsi fuori. Un articolo attualissimo che inizia così:

“Odio gli indifferenti. Credo (...) che vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.


Niente, nella pura vastissima e ancora valida elaborazione gramsciana, si può considerare più attuale. 

ANPI Resistenti, n,4, 2014

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