Il filosofo Remo Bodei interroga le radici profonde del pensiero del grande tedesco.
E spiega come ha agito. La «civetta» non basta più
Remo Bodei
Da "Il Sole 24 Ore - Domenica", 2 novembre 2014
Per comprendere il pensiero di Hegel nel suo sviluppo sistematico sono
partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune
metafore e dalla cascata di luoghi comuni, pregiudizi ed errori che sono
derivati dalla loro interpretazione. Mi sono soffermato, in
particolare, sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa
come emblema della filosofia al suo crepuscolo, quando il processo di
formazione della realtà appare ormai concluso. La civetta ha, tuttavia,
un antagonista-collaboratore nella «talpa», che testimonia come la
storia non finisca con il tramonto di un'epoca e come la filosofia non
concluda affatto il suo cammino. L'immagine dominante di un sistema
chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario
nello Hegel della maturità, poggia, appunto, anche sul fascino di queste
fortunate metafore. Ma quale è il rapporto fra la "civetta" della
filosofia, che interpreta in maniera vigile e cosciente le modificazioni
prodotte dall'epoca, e la "talpa" dello "spirito", che trasforma
inconsciamente l'epoca stessa mediante un lavorio cieco ma rivolto a un
fine sconosciuto ai contemporanei? Fra la filosofia, che sembra vedere e
non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere?
Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di essere
l'ultimo filosofo o che si fosse di fronte alla «fine della storia».
Riteneva, invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed
esperienze, un filosofo che non inventa niente, ma che è chiamato a dare
forma intelligibile a un'intera fase storica ormai al tramonto, agli
anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto». In questo senso
si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la sua summa
alla fine dell'Atene classica. A sua volta, la storia del mondo per lui
ovviamente continuerà, ma – soprattutto quella europea – dovrà superare
una fase critica i cui esiti imprevedibili sono provocati dal
sotterraneo scavare della "talpa".
Lo mostrano con abbondanza di documentazione i corsi di Heidelberg e di
Berlino che continuano a essere pubblicati da alcuni decenni. In essi si
descrive, ad esempio, la mutata funzione dello Stato e della società
civile in un periodo storico in cui i processi di globalizzazione non
avevano ancora raggiunto le proporzioni attuali, ma in cui le crisi
economiche avevano già mostrato un altro volto nei loro contraccolpi
sulla precarizzazione dell'esistenza di individui e popoli. Interessato
fin dalla gioventù all'economia politica, lettore di giornali e riviste
inglesi, scozzesi e francesi, legato alle discussioni sui sansimoniani,
egli analizza le idee di lavoro, disoccupazione e miseria in una civiltà
dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si
sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento. Osserva come la
ricchezza si concentri sempre più in poche mani, con la conseguente
creazione di una enorme massa di «lavoratori disoccupati», di esseri
umani sospinti nella miseria più spaventosa e umiliante che li
abbrutisce e alla quale si cerca inutilmente di porre rimedio con dei
"palliativi", come l'emigrazione nelle colonie. Giunge a dire che tale
estrema miseria rende lecito a chi la subisce anche il furto per la
propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto
considerarla come un furto comune. Sì, l'uomo ha diritto a tale azione
illegale». Il tramonto di un'epoca è per lui sostanzialmente legato
all'insolubilità di conflitti come questi.
Ho posto inoltre una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire
dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo
appreso col pensiero»: Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si
configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in
concetti, mediati da una approfondita conoscenza dell'analisi
infinitesimale e delle scienze naturali (fisiologia, zoologia, chimica,
geologia), frutto del serrato confronto con gli scienziati del tempo, da
Lagrange a Bichat, da Lamarck a Cuvier o da Wener a Hutton? Qual è il
senso dell'isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e
il campo dei mutamenti storici? Perché, in polemica con i romantici,
Hegel disprezza il mondo della natura a favore di un patriottismo
dell'umanità e della civiltà, fino al punto da definire il cielo
stellato una «eruzione cutanea luminosa» e «il pensiero criminale di un
malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché
il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come
scienza rigorosa?
Se Hegel si fosse limitato ad attribuire alla filosofia la natura di
filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato
«metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a
Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di un'epoca, in fondo non
avrebbe compiuto alcuna mossa teorica particolarmente scandalosa.
Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold
aveva scritto nel 1801 un'opera intitolata Lo spirito dell'epoca come spirito della filosofia.
Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell'epoca presente a
caratterizzare la propria età come un fronte che avanza dall'oscuro
dominio dell'«istinto della ragione» al trasparente autogoverno della
«scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e
si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel
medesimo «tempo cronologico», possono «incrociarsi e scorrere l'una
accanto all'altra, in diversi individui, epoche differenti»; soltanto il
«tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere
questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.
Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e
consapevolmente lo svolgimento del proprio tempo sul piano di un
organico sviluppo di forme del pensiero, di un sistema che avesse
l'ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l'immagine
virtuale dell'epoca. Nessuno aveva dato tanta importanza alla storia e
costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare
l'orizzonte massimo di intellegibilità di un'epoca che pretende di
includere in sé, telescopicamente, i principi delle epoche antecedenti;
nessuno, tranne – a suo modo – Montaigne, aveva svuotato il preconcetto
che attribuiva alla «natura umana» un'essenza metastorica, mostrando
come «la natura vivente è eternamente altro che il suo concetto, per cui
quello che per il concetto era semplice modificazione, pura
accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse
ciò che unicamente è naturale e bello». In un appunto che aveva
preparato poco prima di morire per l'introduzione al corso di filosofia
del diritto del 1831-1832, al posto tenuto dalla civetta nella
Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che
l'avvenire è segnato dalle oscure forze dell'istinto e che l'unica cosa
che gli occhi della civetta sembrano ora cogliere è proprio l'incertezza
del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio,
costringendo la filosofia a portare i propri "lumi" in un crepuscolo su
cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente».
Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero
non può, dunque, giungere a compimento.
Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell'universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento o, qualsiasi aspetto assuma, la coscienza soggettiva riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto; e, poiché soltanto nel presente v'è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l'idea passa per essere soltanto un'idea, una rappresentazione in un'opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l'idea. Si tratta allora di riconoscere, nell'apparenza del temporaneo, e del transitorio, la sostanza che è immanente e l'eterno che è attuale. Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell'esistenza esterna, si presenta in un'infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l'apparire dell'essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è oggetto della filosofia [...].Cosí, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev'essere null'altro, se non il tentativo d'intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev'essere; l'ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo etico.Del resto, per quel che si riferisce all'individuo, ciascuno è, senz'altro, figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero [...].Questo, anche, costituisce il significato concreto di quel che sopra è stato designato astrattamente come unità di forma e di contenuto; poiché la forma, nella sua piú concreta significazione, è la ragione, quale conoscenza che intende, e il contenuto è la ragione, quale essenza sostanziale della realtà etica, come della realtà naturale; l'identità cosciente delle due è l'idea filosofica. È una grande ostinatezza (ostinatezza che fa onore all'uomo) non voler riconoscere nei sentimenti nulla che non sia giustificato col pensiero: e questa ostinatezza è la caratteristica dei tempi moderni, oltre che il principio proprio del Protestantesimo. Ciò che Lutero iniziò come credenza nel sentimento e nella testimonianza dello spirito, è la cosa stessa che lo spirito, ulteriormente maturato, s'è sforzato di comprendere nel concetto, e cosí di emanciparsi nel presente e quindi di ritrovarsi in esso. Come è divenuto detto celebre quello che una mezza filosofia allontana da Dio - la medesima superficialità ripone la conoscenza in un'approssimazione alla verità è ma che la vera filosofia conduce a Dio; cosí è lo stesso con lo Stato [...].Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pagg. 14-17
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