L'ingresso nella vita
adulta che coincide con la fine degli studi, il lavoro, una famiglia,
si è spostato dieci anni in avanti. E l'Italia batte tutti con il 40
per cento dei trentenni che vive in una perenne condizione di figli.
Quando Renzi pontifica compiaciuto, lui figlio di industriali, sempre
vissuto di politica, che l'epoca del posto fisso è finito, è di
questo in realtà che parla. Altro che jobs act, è della vita delle persone che
si tratta. Vite azzerate perchè i profitti crescano.
Maria Novella De Luca
L'età della maturità
Bisogna aggiungere un
cinque, ma più spesso un dieci. Numeri, cioè anni, che d'ora in poi
dovremo sommare ai compleanni dei ventenni attuali e futuri, per
calcolare quando e come la nuova e complicata generazione X diventerà
finalmente "grande". Perché la rivoluzione della clessidra
della vita non riguarda più soltanto gli anni grigi, e cioè la
longevità della terza e quarta età, ma sempre di più l'accesso dei
giovani all'età adulta, categoria ormai quasi del tutto "scissa"
dai propri dati anagrafici. Se infatti nel secolo scorso si diventava
"grandi" a 20 anni, adesso nel rimescolamento di crisi
sociali e stili di vita, quel traguardo si è spostato di cinque anni
in avanti nei paesi anglosassoni, e quasi di dieci nei paesi latini.
E l'Italia nella
"posticipazione" batte tutti, con il record del 40 per
cento di giovani adulti tra i 30 e i 34 anni che continuano a vivere,
e non sempre felicemente, nella casa dei genitori, in una perenne
condizione di figli. A calcolare quanto si fosse spostato l'ingresso
dei giovani nell'età adulta, ci aveva provato Lancet già nel 2012,
pubblicando una serie di ricerche che dimostravano come i
ventiquattro anni di oggi fossero i ventuno di ieri. Adesso con un
saggio sul magazine americano The Atlantic, demografi e sociologi
dimostrano che quel limite va fatto salire ancora, perché
l'autonomia di un ventenne di ieri (lavoro, denaro, famiglia, figli)
oggi si riesce a conquistare non prima dei venticinque, ma spesso
ancor più tardi.
Sono le tappe della vita
autonoma ad essere diventate sempre più incerte, come spiega
Alessandro Rosina, docente di demografia all'università Cattolica di
Milano. «Esistono cinque fasi che tradizionalmente segnano il
passaggio dalla giovinezza all'età adulta. La fine del percorso di
studio, l'andare a vivere da soli, l'ottenimento di un lavoro, la
costruzione di una vita di coppia e l'arrivo del primo figlio. Tutto
questo un tempo avveniva effettivamente intorno ai 25 anni... Oggi
invece — aggiunge Rosina — assistiamo ad una "regressione":
l'impossibilità di avere un reddito e dunque di uscire dalla casa di
famiglia, obbliga i giovani ad una permanenza sempre più lunga nella
condizione di figli, magari continuando a studiare, senza però
potersi sperimentare nella condizione adulta».
Una dimensione sospesa e
contraddittoria. Perché invece, da bambini, questi stessi
giovani-adulti nati alla fine del secolo scorso, l'infanzia l'hanno
bruciata in fretta. È quello che sottolinea Gustavo Pietropolli
Charmet, psichiatra, conoscitore attento delle vite di ragazzini e
adolescenti. «I bambini vengono spinti a crescere velocemente, si
cerca in tutti i modi di renderli autonomi, basta entrare in una
quinta classe elementare per rendersene conto. Hanno le chiavi di
casa, il cellulare, i soldi in tasca, c'è una anticipazione della
pubertà, una precocità, una sessualità che arriva sempre prima.
Una corsa che dura anche negli anni del liceo, come se si dovessero
bruciare le tappe. E poi, invece, tutto si ferma ».
Infatti. Accade tra i
venti e i trent'anni. Perché già all'università ci si rende conto
che il futuro è buio. O quantomeno fragile, incerto, povero. Il
lavoro è un miraggio, l'indipendenza ancora di più. «È come se la
rincorsa finisse — dice con amarezza Charmet — e i giovani si
ritrovassero a sopravvivere in un eterno posteggio. Magari
accumulando titoli su titoli. In case aperte dove è possibile vivere
i propri amori, avere un po' di soldi in tasca, ma in un eterno
presente, perché le risorse per diventare grandi, e andarsene,
essere autonomi, non ci sono. Così accade che si smetta di pensare
al futuro, mentre gli anni passano, e in agguato ci sono depressione
e scoraggiamento ».
Un immenso spreco del
capitale umano. Del resto i numeri italiani sui "Neet" sono
la radiografia di una vera emergenza sociale. Tre milioni di
venti-trentenni che non studiano né lavorano, né cercano più una
strada per il domani. Non la maggioranza per fortuna, come
testimoniano i dati del "Rapporto Giovani" curato da
Alessandro Rosina, dove l'85 per cento degli intervistati afferma che
«vorrebbe maggiore autonomia per mettersi alla prova con se stesso
»», il 57 per cento «non vorrebbe più sentirsi un peso per la
famiglia ». Mentre ciò che accade nella realtà, è che il 67 per
cento dei giovani dopo essere riusciti ad uscire per un periodo dalla
famiglia, «sono costretti a fare marcia indietro e tornare dai
genitori».
Rosina: «Alle spalle di
questa posticipazione infinita, che fa slittare anche a trent'anni
l'età della maturità, il dato materiale si somma a quello
psicologico. Se da una parte infatti c'è il desiderio
dell'autonomia, per questa generazione è invece cambiato il concetto
di responsabilità. Non c'è la voglia di vincolarsi troppo con una
famiglia, un figlio, ma piuttosto di sperimentarsi. Un rinvio dunque,
che però con l'avvento della crisi è diventato molto spesso una
rinuncia ».
E se la condizione
sospesa dei ventenni è ormai un dato comune a tutti i paesi
occidentali, c'è però un "ingrediente" che da noi
contribuisce a complicare le cose. «La famiglia italiana —
racconta infatti Elisabetta Ruspini, docente di Sociologia
all'università Bicocca di Milano — è tradizionalmente protettiva,
e restia a far uscire di casa i figli, fino a che questi non possano
contare su qualcosa di certo e sicuro. Del resto, viste le
circostanze, finché restano in casa il loro tenore di vita è di
certo più alto».
E se è vero, purtroppo,
che questo modello di posticipazione dell'età adulta si sta
diffondendo, aggiunge Ruspini «è anche vero che altrove, penso alla
Germania, penso alla Francia, esistono reti di welfare che seppure
minime permettono ai ragazzi maggiori spinte di autonomia». Ma tra
sospensione e incertezza, in una sorta di letargo generazionale, i
cui effetti sono evidenti ad esempio nella catastrofe della natalità,
ad avere più spinte di indipendenza sono le donne. Se infatti il 40
per cento dei 30-34enni italiani vive ancora in famiglia, così
dimostra l'Istat, la statistica femminile non supera invece il 20-25
per cento della stessa fascia d'età.
Si diventa grandi dunque
sempre più avanti. Tanto quanto da bambini si è corso per
diventare, in fretta, ragazzini e poi adolescenti, magari perdendo
qualcosa di fondamentale e prezioso. Un ritardo frutto di un
intricato mix di responsabilità sociali e materiali, che si
riverberano però nell'anima e nella mente. Dice Pietropolli Charmet:
«Molti abusi di alcol e di sostanze nascono in questa dimensione di
noia, incertezza e mancanza di futuro».
E Elisabetta Ruspini
avverte: «Fino ad ora, ma sempre più alle strette, la famiglia è
stato l'ultimo ammortizzatore sociale. Sostegno e rifugio per questa
generazione che non riesce a diventare autonoma. Ma non potrà durare
a lungo. Perché i risparmi non ci sono più, perché la struttura
stessa è cambiata, e soprattutto perché oltre ai giovani senza
lavoro, c'è la pressione fortissima degli anziani. E tutto questo
nell'assoluto letargo delle politiche di welfare».
Una specie di bomba
sociale composta da trentenni senza lavoro, genitori sessantenni in
uscita dai cicli produttivi e anziani sempre più longevi, ma con
pensioni all'osso e bisognosi di tutto. «I dati sulla emigrazione
dei giovani sono evidenti», conclude Alessandro Rosina, «e ci
dicono che chi può se ne va, cerca fortuna altrove, partono tutti,
con titoli o senza titoli, pur di trovare un lavoro che garantisca un
po' di autonomia, che è il vero desiderio negato di questa
generazione ».
La Repubblica – 23
ottobre 2014
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