Torna in libreria il
capolavoro di Andrej Belyj. Negli anni dieci del ’900
intravvide dietro lo splendore architettonico di Pietroburgo una
città di morti. Una visione notturna di un campo di macerie. Poi
nel 1917 sarebbero arrivate le guardie rosse....
Enzo Di Mauro
Andrej Belyj,
Pietroburgo a precipizio nel romanzo spietato
Nel 2003, quando si
svolsero i festeggiamenti per i trecento
anni della fondazione di Pietroburgo, il romanzo
di Andrej Belyj a quella città intitolato fu riletto,
misurato e discusso come il resoconto postremo di un
mito che corroborò il grande, irripetibile
Ottocento russo di linfe fantastiche, di
geometrie screziate e insidiose, di
immagini e di visioni anamorfiche, di umori
corrosivi, velenosi, malsani.
Parve e si disse
insomma, in sede di bilancio critico, storico
e letterario insieme, che la Palmira del
Nord fosse stata eretta non a caso sopra un terreno
torbido e paludoso e che la strabiliante
impresa architettonica, meraviglia delle
meraviglie, contenesse in sé una patologia
necessaria, preziosa e perfettamente
incistata a un destino, a una condizione
spirituale tormentata e tormentosa
su cui non poteva che regnare senza soluzione di continuità
un mai risolto dissidio tra la luce e la forza della
ragione e l’altrettanto potente, irrefrenabile
impulso a precipitare (artigliati, stretti
e attratti dal ghigno sonoro di oscene sirene) in una
cafarnao popolata di ombre indistinte e di
fantasmi dal volto cangiante e pur sempre
minaccioso e ferale.
Andrej Belyj |
Nulla come quelle
larghe prospettive, quei ponti, quel lungofiume,
quei canali, quelle cattedrali altissime che paiono
voler trapanare il cielo, quei palazzi dorati, quei teatri
sgargianti – ma non di meno le fumose osterie, le luride
stamberghe, le miserabili pensioni,
i maleodoranti e umidi sottoscala, gli
antri e i sotterranei segreti –, nulla come
quello spazio sospeso, insicuro e malfermo si
è lasciato decifrare al pari di un arduo geroglifico
senza tuttavia rivelare il fondo opaco del proprio
scrigno, poco o nulla concedendo persino ai
dioscuri suoi, vale a dire ai titanici creatori
e circumnavigatori del mito stesso, da
Puškin a Gogol’, da Dostoevskij a Belyj,
in un percorso durato pressappoco un secolo.
Di un simile scarto hanno dovuto in qualche modo prendere atto, in sede di ricognizione, gli studiosi che vi si sono dedicati, a partire dal valoroso e pionieristico Ettore Lo Gatto nel suo Il mito di Pietroburgo (Feltrinelli, 1960) per poi arrivare, molto più avanti, ad esempio a Solomon Volkov (San Pietroburgo, 1995, tradotto per Mondadori nel 1998) o al ponderoso volume curato da Sergeij Androsov (San Pietroburgo, Corbo e Fiore, 2002).
Il moscovita Belyj (al secolo Boris Nikolajevic Bugàev, 1880–1934) pubblicò il suo romanzo più importante e più celebre dapprima a puntate su un almanacco letterario, tra il 1912 e il 1913, e a seguire, in volume, nel 1916, quasi a simbolicamente voler indicare un tramonto e un annuncio. Perché Pietroburgo – appena tornato in libreria, riproposto nella «Biblioteca» Adelphi (pp. 384, euro 22,00), nella meravigliosa versione approntata nel 1961 da Angelo Maria Ripellino per Einaudi accompagnata da un saggio che ancora toglie il respiro – porta in sé i colori di un tramonto che viene definito spesso, qui, «spietato» e ciò malgrado ineluttabile.
È naturale
e giusto pensare come questo splendore che
dura pochi attimi prima di virare in tenebra attenga alla forma
del romanzo, alla sua compattezza, al suo ottocentesco
mostrare i muscoli e, insomma, alla sua formidabile
tradizione. In Pietroburgoanche
i personaggi perdono peso e consistenza,
si muovono leggeri e guizzanti come creature
di fumo, come Perelà slavi. Il domino in raso rosso che di
continuo appare e scompare nel buio degli androni
e sui ponti segna il tempo di una velocità nuova
e spaventevole. La mascherina che indossa
forse non nasconde nulla, neppure l’impotente nostalgia
di un centro, di un punto fermo verso il quale fissare lo
sguardo.
Nel romanzo, è come
se gli specchi – questo, e pour cause,interessò
e affascinò Vladimir Nabokov –
riflettessero figure ormai disossate, impalpabili,
gassose, solo uno scabro contorno del niente. Pure, va
subito precisato, Belyj non dimentica la cornice
storica: Pietroburgo è infatti
ambientato nel 1905, nei giorni e nei mesi successivi
alla guerra russo-nipponica vinta dai giapponesi, e nel
mentre in città si levano venti tempestosi che
annunciano l’imminente rivoluzione («le fabbriche
erano tutte in terribile fermento; gli operai si
erano trasformati in individui loquaci;
circolava tra loro la browning; e qualcosa
d’altro»).
«Scaturita
come un miraggio dal fango degli acquitrini per il
caparbio volere di un despota», scrive Ripellino,
Pietroburgo a quell’altezza «nasconde misere
spoglie sofferenti, un querulo mondo di pena»,
«una rassegna di spettri, un teatro d’ombre»
che furtive s’avvicendano in un clima «vaneggiante»
e persecutorio – silhouette paranoiche
che si braccano a vicenda. La città sa di losco, di
verminaio. In giro sciami di «ragazzacci
antigovernativi». E quella di Belyj, come
spiega il traduttore, è «una scrittura amorfa,
sconnessa, traboccante, tutta sgocciolature
e incrostazioni, una matassa di impulsi caotici,
di ghirigori, di ingorghi limacciosi, di
garbugli inestricabili» che si fa
strumento plasmabile, perfetto per quella
condizione di frattura, di rottura epocale.
È in un simile scenario – affollato di cospiratori, doppiogiochisti, infiltrati, provocatori, polizia segreta – che Belyj suppone l’atto del parricidio. Nikolàj Apollònovic – il protagonista del romanzo che possiede peraltro qualche tratto autobiografico: ad esempio, sua madre abbandona la famiglia per seguire un artista italiano – è o sarebbe un tipico personaggio da «romanzo russo», così come il Senatore Apollòn (il padre, simbolo del potere zarista), il fanatico nichilista Dudkin, Sòf’ja Petròvna (la donna fatale di cui Nikolàj è innamorato) o il sottotenente Sergéj Sergéevic, il marito di lei.
Soltanto che qui
ogni situazione e ogni gesto virano di volta in volta verso
il grottesco, la parodia, l’arlecchinata, il buffo,
il comico, la vera e propria farsa. Quasi tutto – e si
prenda in proposito il terzo capitolo – si
trasforma, mentre si compie, in pochade. Sòf’ja
Petròvna vorrebbe essere (ma non può, non riesce) la
puškiniana Donna di Picche, l’uomo di Stato
e rappresentante del vecchio ordine soffre
di emorroidi e le sue ampie conoscenze filosofiche
nulla possono contro le apocalittiche
allucinazioni che lo estenuano durante
i dormiveglia, il terrorista
deflagra nelle proprie nevrosi e così via. Di fatto
coloro che avvicinano Nikolàj per indurlo a compiere
l’attentato contro suo padre non sono che i messi della
sua coscienza.
Ricorda Vadislav Chodasevic, nelle sue memorie, che il «delitto contro il padre» (un celebre matematico) fu l’ossessione ricorrente di Belyj. Laureato in scienze naturali e in filologia, seguace di Max Stirner, appassionato di musica, di filosofia, di metrica, di buddismo e di bramanesimo, di discipline esatte, di alcool e di fox-trot, nei due anni (dal 1921 al 1923) visse in un sobborgo di Berlino nella casa di un becchino sita al confine di un camposanto. Aveva aderito alla Rivoluzione d’Ottobre e, una volta tornato in Russia dalla Germania, continuò a scrivere poesie, romanzi, prose ritmiche, saggi (uno anche su Gogol’), libri di viaggio (visitò, tra l’altro, l’Italia) e di memoria. Subì e sopportò, verso la fine della vita, l’accusa di «formalismo».
Giusto l’autore di
un libro «notturno» come Pietroburgo poteva
morire in seguito ai postumi di un’insolazione, forse guardando
anche lui verso l’alto proprio dove passa una «macchia
di fosforo ardente» che addita un tempo incomprensibile
e tutto fatto di scintille.
Il Manifesto – 19
ottobre 2014
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