Todo modo: Rosaria Capacchione
La nota stonata
di
Rosaria Capacchione
Siamo
gente strana, noi giornalisti. Parliamo, discutiamo, prevediamo
catastrofi che gli altri non riescono neppure a immaginare; puntiamo
l’indice, noi illuminati, contro la retorica del mafioso buono che non
c’è più, perché in effetti il mafioso buono è una categoria esistente
solo nella vulgata, nel racconto delle gesta dei Beati Paoli che nessuno
legge più da almeno cent’anni. Denunciamo, noi cantori del divenire
della realtà, l’avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i
vecchi boss con la coppola storta e la lupara; e poi, quando ci
scontriamo con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato
alla mafia (o, se vi pare, con un mafioso prestato alle professioni),
non lo riconosciamo.
Lo abbiamo lì,
davanti a noi, seduto in un’aula di tribunale, che osserva con un mezzo
sorriso stampato sulle labbra strette e sottili le fasi finali del
processo, ma per tributargli la patente di mafiosità vorremmo che fosse
armato e che parlasse lo slang casalese. Scriviamo e diciamo che le
mafie hanno cambiato veste ma in realtà ci piacerebbe che indossassero
quella vecchia, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo
visibile potere di minaccia. E quando una sentenza condanna l’avvocato
Michele Santonastaso e assolve due capiclan come Francesco Bidognetti e
Antonio Iovine, ecco che la stessa appare distonica, stravagante,
addirittura donabbondiesca se non proprio omissiva. E ci straccia le
vesti per la giustizia negata.
Non so
cosa il tribunale scriverà per motivare l’insolito dispositivo, che ha
chiuso una vicenda giudiziaria iniziata quasi sette anni fa, alla
vigilia della più tragica stagione dell’epopea casalese. Non lo so e
sono molto curiosa di saperlo, se non altro perché quel processo
riguarda anche me, giornalista e parte offesa, giornalista (ora prestata
al Parlamento) e testimone di quei fatti terribili, diciotto morti e
diciotto feriti in una manciata di mesi: tutti innocenti, tutti
funzionali a una disperata strategia di sopravvivenza e a una visibile e
rumorosa rivalsa contro gli ergastoli, il carcere duro, le confische
che avevano affamato il clan e le famiglie degli affiliati. Dovevo
esserci anche io nell’elenco delle vittime? Non lo so, so che non ci
sono, probabilmente perché lo Stato decise di proteggermi. Lo fece
all’indomani di quello stranissimo episodio che è stato oggetto del
processo, chiuso il 10 novembre del 2014 nell’aula 116 del Tribunale di
Napoli. Cioè, 2433 giorni dopo la lettura di una istantanea di
remissione degli atti, una ricusazione fatta, durante un’udienza del
processo al clan dei Casalesi che va sotto il nome di Spartacus,
dall’avvocato Michele Santonastaso. Che, subito dopo, annunciò la
rinuncia alla difesa del suo cliente più importante, Francesco
Bidognetti. Lesse ottantuno pagine di veleno sfuso, poca tecnica e molte
insinuazioni, accuse, calunnie. Fango, insomma, mascherato da atto
processuale.
Un capitolo era dedicato alle mie gesta di giornalista prezzolata dalla
Procura: bontà sua, sempre meglio che essere prezzolati da una banda di
assassini. Oggettivamente, un capitolo diffamante. Ma io, da
giornalista, mi impressiono assai poco dinanzi a una diffamazione. Il
fatto è che in quelle righe era raccontata un’altra storia, quella
dell’indagine abortita (nel 2004) su un giudice della Corte di Assise di
Appello di Napoli che aveva venduto un suo terreno a un camorrista di
Casapesenna, che non si era astenuto dal giudicarlo, che lo aveva
assolto ribaltando la sentenza di primo grado. La storia era proseguita
due anni dopo, con lo stesso giudice che un’altra volta stava
processando lo stesso imputato e che aveva dovuto rinunciare in seguito a
una interrogazione parlamentare che ricapitolava l’intera vicenda.
L’atto di sindacato ispettivo aveva come fondamento un articolo che
avevo scritto, in beata solitudine, quando la prima vicenda era stata
oggetto di una ispezione ministeriale. Neppure l’arrivo a Napoli della
delegazione dei supervisori di via Arenula aveva convinto i miei
prudentissimi colleghi della necessità di prestare un po’ di attenzione
alle vicende e ai processi del clan dei Casalesi.
Il
processo Spartacus, concluso in primo grado nel 2005, era destinato
alla stessa sezione del giudice ispezionato, Pietro Lignola. La IV
sezione. Proprio quella che poi l’ha trattato. Ma fu deciso, forse anche
a causa delle polemiche, che venisse assegnato a un altro collegio.
Anni dopo, a maggio del 2014 (sei mesi fa), un altro dei capi del
cartello casalese, Antonio Iovine, ha iniziato a collaborare con la
giustizia e ha raccontato di aver pagato l’avvocato Michele Santonastaso
perché comprasse due sentenze favorevoli in altrettanti processi di
omicidi da lui effettivamente commessi e per i quali era stato già
condannato in primo grado. Le due sentenze di assoluzione effettivamente
ci sono state e portano entrambe la firma del giudice Lignola. Che sia
stato corrotto oppure no non è ancora cosa nota.
Quando
lessi i riferimenti al giudice Lignola nelle righe della ricusazione
ebbi davvero paura. Compresi che l’avvocato Santonastaso aveva scelto
quella strada per indicare al mondo delle carceri i responsabili del
mancato aggiustamento del processo Spartacus: Roberto Saviano aveva dato
notorietà internazionale a un clan che prima era quasi sconosciuto;
Federico Cafiero de Raho aveva tenacemente sostenuto la pubblica accusa e
dato voce ai pentiti; Raffaele Cantone, che di Spartacus non si era mai
occupato, aveva colpito al cuore alcune ramificazioni che sembravano
invincibili e, soprattutto, aveva lavorato con successo nelle indagini
sui consorzi di bacino dei rifiuti e sulle società miste infiltrate dal
clan. Io ero quella che aveva costretto il garantista giudice Lignola a
non occuparsi del processo più importante.
Mi aveva messo al muro, chiunque avrebbe potuto sparare.
Mi aveva messo al muro, chiunque avrebbe potuto sparare.
Lo
pensai quel giorno, il 13 marzo del 2008. Lo pensai per qualche
settimana. Ma siccome non accadeva nulla iniziai a rassicurarmi. Certo,
mi avevano dato la scorta, ma io rivolevo la libertà, che è un’altra
cosa. Poi, a maggio, iniziò la stagione delle stragi.
Non mi chiesi, allora, se l’istanza di ricusazione fosse stata concordata con Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, che l’avevano firmata. L’ho sempre considerata qualcosa di molto diverso da una minaccia: cioè, una sentenza irrevocabile Un’istanza utile al clan ma anche all’avvocato Michele Santonastaso, che magari aveva promesso molto più di quanto avrebbe potuto mantenere. E che lavorava in sinergia con i suoi clienti – nell’altro processo in cui è imputato di associazione mafiosa sono ricostruite decine di episodi che lo vedono nella veste di stratega del clan ma in funzione quasi autonoma, come se fosse il capo dell’ufficio legale del clan – ma senza svelare i trucchi del mestiere. Ha raccontato Antonio Iovine di non avergli mai chiesto a chi andassero i soldi necessari a comprare le sentenze di assoluzione perché non era affar suo: lui pagava un servizio acquistato da un professionista efficiente.
Non mi chiesi, allora, se l’istanza di ricusazione fosse stata concordata con Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, che l’avevano firmata. L’ho sempre considerata qualcosa di molto diverso da una minaccia: cioè, una sentenza irrevocabile Un’istanza utile al clan ma anche all’avvocato Michele Santonastaso, che magari aveva promesso molto più di quanto avrebbe potuto mantenere. E che lavorava in sinergia con i suoi clienti – nell’altro processo in cui è imputato di associazione mafiosa sono ricostruite decine di episodi che lo vedono nella veste di stratega del clan ma in funzione quasi autonoma, come se fosse il capo dell’ufficio legale del clan – ma senza svelare i trucchi del mestiere. Ha raccontato Antonio Iovine di non avergli mai chiesto a chi andassero i soldi necessari a comprare le sentenze di assoluzione perché non era affar suo: lui pagava un servizio acquistato da un professionista efficiente.
Ecco,
il punto è questo. Non so se la sentenza di lunedì sia giusta o
sbagliata, riduttiva o soltanto rigida. So, invece, che nel dispositivo
ha centrato un obiettivo nuovo punendo solo e soltanto il colletto
bianco, il professionista compartecipe delle finalità mafiose del clan
ma non vincolato dall’obbligo di rendicontazione preventiva. Se così
fosse, la decisione del giudice Aldo Esposito avrebbe una straordinaria
portata innovativa, specchio reale degli strumenti delle nuove mafie. Se
così fosse, come io l’ho vissuta.
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