11 febbraio 2015

IL RITORNO DI A. DUMAS




Ritorna in una nuova traduzione quello che è stato definito “il romanzo del divertimento”. Amori, avventure, intrighi come solo Dumas sapeva raccontare.

Paolo Di Stefano

Zac! I tre moschettieri riaffilano le lame

Quando entra in circolo — nella circolazione sanguigna editoriale — la nuova traduzione di un classico, non si può che respirare a pieni polmoni. Vera boccata d’ossigeno: ogni rilettura di un classico, diceva Italo Calvino, è una lettura di scoperta come la prima. Non proprio, a dire il vero. Calvino liquidò Dumas come un mestierante dell’avventura, «troppo generoso», un romantico esagerato.

Ma metti l’incanto irripetibile del primo incontro con I tre moschettieri, da ragazzo, quando aprendo la prima pagina hai visto apparire sul suo pulcioso ronzino quel giovinastro lungagnone di cui non sapevi niente, una specie di don Chisciotte dal viso bruno e dagli zigomi sporgenti, naso adunco e occhi vispi; quando sentivi nell’aria della pagina una tensione strana senza immaginare che cosa sarebbe successo nel paragrafo dopo, ma intuendo però che qualcosa sarebbe accaduto forse di irreparabile, che qualcuno sarebbe morto e qualcuno sarebbe sopravvissuto a quella incredibile frenesia picaresca aleggiante tra Francia e Inghilterra; quando non sapevi ancora se davvero il guascone d’Artagnan e i suoi compagni sarebbero riusciti a salvare l’onore della regina recuperando i puntali di diamanti che aveva ricevuto in regalo dal marito donandoli inopinatamente al suo amante; quando per la prima volta hai sentito il nome del duca di Buckingham e del conte di Rochefort, nomi i cui suoni bastano a creare un’atmosfera romanzesca; quando non conoscevi ancora tutti i capricci, le virtù e le viltà di Athos l’ubriacone cupo ed eroico, di Aramis il dandy con la vocazione del monaco e di Porthos il vanitoso smargiasso; quando ancora non immaginavi neanche lontanamente fino a che punto si potessero spingere la diabolicità truculenta di Milady, spia di Richelieu, e la scaltrezza ignobile di d’Artagnan.

Eppure, nonostante tutto, la lettura adulta riesce ancora ad aggiungere colore ai fatti risaputi. Mai visti tanti morti come nei Tre moschettieri, per di più spesso morti innocenti. Una specie di spensierato cimitero narrativo. Decine di personaggi che mu0iono in un potente climax di angoscia, pur senza troppi indugi patetici. Persino la decapitazione di Milady, dopo la brevissima fuga fallita, viene vista da lontano, dall’altra riva del fiume, fulmineamente riassunta in due braccia che cadono impugnando una lama sibilante.

Ora che abbiamo, dopo la recente riproposta del Conte di Montecristo (Einaudi), un’edizione (Donzelli) con una nuova traduzione, molto piana, di Camilla Diez, che ha il pregio di non porre ostacoli alla corsa del racconto (il che per Dumas è dire tutto) e con un piccolo dizionario dei personaggi, compresi quelli storici, possiamo facilmente verificarlo, quante uccisioni, forse gratuite in assoluto ma necessarie alla narrazione, si susseguono in questo romanzo che riesce sempre a stare in equilibrio tra cupore e divertimento.

Sì, perché fu Giorgio Manganelli a definire I tre moschettieri un romanzo del divertimento, come neppure Pinocchio, che invece per lo stesso Manganelli era tutt’altro che divertimento puro quale poteva sembrare. Anche se l’arrivo di Milady, in avanti nel romanzo, cambia il tono, gettando una tetra luce notturna su personaggi sempre disegnati in trasparenza.

E proprio la trasparenza notturna, una leggerezza tenebrosa e grottesca, con le sue infinite sfumature di nero e di blu, è il timbro delle immagini a china e penna realizzate da Federico Maggioni, quasi a orientare una lettura finalmente più matura.

Complicità con il lettore, ma anche oltraggio, sfida continua di trame impensabili, duelli insensati, galanterie, furbizie e furbate, passioni inattese, magnifici gesti di generosità e tradimenti feroci, giochi di prestigio, cedimenti tenuti sul filo dell’artificio per evitare (è sempre Manganelli a ricordarcelo) «il pericolo della identificazione». Picaresco allo stato puro, dove lo stile non deve vedersi (depurare la lingua è lo sforzo titanico che spetta al traduttore). Invece c’è, uno stile: semplice, baciato da una divina e scalcagnata naturalezza, una «scrittura gaglioffa ma non corriva», l’ha definita Franco Cordelli. Giovanni Macchia ha scritto che i critici farebbero bene a lasciarlo stare, Dumas, perché la sua spaccona invincibilità li costringerebbe comunque all’impotenza. Anche i lettori più velenosi, al suo cospetto, vengono presi da «uno snervante bisogno di inattività».

Seguendo il consiglio di Macchia, sarebbe dunque più opportuno limitarsi alla filologia. Nella puntuale introduzione dell’edizione Donzelli, Claude Schopp, il massimo studioso dumasiano, ricostruisce la genesi dei Moschettieri, terza esperienza romanzesca della coppia Maquet-Dumas. Non tutto si sa della collaborazione con Auguste Maquet, iniziata nel luglio 1842 con ricerche e confronti serrati.

Quando, verso la fine del 1843, Dumas comincia a scrivere I tre moschettieri, sta già dedicandosi da tempo, con il suo giovane collaboratore, allo studio del Seicento per un’opera storica. Risale alla lettura di un documento pubblicato nel 1828 (i Mémoires inediti del conte di Brienne, segretario di Stato di Luigi XIV) la scoperta delle azioni storiche che andranno a comporre la trama del romanzo: la lettura dei Mémoires apocrifi di d’Artagnan (autore Courtilz de Sandras) aggiungerà all’intreccio portante dei diamanti della regina l’invenzione dei personaggi. È probabile che Dumas si sia (furtivamente) impossessato degli apocrifi nella biblioteca di Marsiglia, alla fine di giugno 1843, trovandovi una miniera di idee per volgarizzare la storia in chiave romanzesca. Su quelle basi il suo collaboratore approntò un primo progetto narrativo.

È da lì che si sviluppa il romanzo che, non ancora portato a termine, diventerà un feuilleton per il giornale «Le Siècle» a partire dalla prima puntata del 14 marzo 1844. Il titolo originario pensato dall’autore, Athos, Porthos e Aramis, sarebbe diventato I tre moschettieri (anche se in realtà è la storia del quarto, come ha scritto Umberto Eco) per volontà del redattore capo Desnoyers, che non gradì molto l’opera («la storia non promette grandi follie»), ritenendola poco adatta a un pubblico popolare. Il successo fu straordinario e immediato. Lo storico Jules Michelet avrebbe detto che il suo contemporaneo Dumas sapeva insegnare ai francesi, con i romanzi, più storia di quanta ne sapesse insegnare lui con tutti i suoi studi.

http://lettura.corriere.it/zac-i-tre-moschettieri-riaffilano-le-lame/

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