Ritorna in una nuova
traduzione quello che è stato definito “il romanzo del
divertimento”. Amori, avventure, intrighi come solo Dumas sapeva
raccontare.
Paolo Di Stefano
Zac! I tre
moschettieri riaffilano le lame
Quando entra in circolo —
nella circolazione sanguigna editoriale — la nuova traduzione di un
classico, non si può che respirare a pieni polmoni. Vera boccata
d’ossigeno: ogni rilettura di un classico, diceva Italo Calvino, è
una lettura di scoperta come la prima. Non proprio, a dire il vero.
Calvino liquidò Dumas come un mestierante dell’avventura, «troppo
generoso», un romantico esagerato.
Ma metti l’incanto
irripetibile del primo incontro con I tre moschettieri, da
ragazzo, quando aprendo la prima pagina hai visto apparire sul suo
pulcioso ronzino quel giovinastro lungagnone di cui non sapevi
niente, una specie di don Chisciotte dal viso bruno e dagli zigomi
sporgenti, naso adunco e occhi vispi; quando sentivi nell’aria
della pagina una tensione strana senza immaginare che cosa sarebbe
successo nel paragrafo dopo, ma intuendo però che qualcosa sarebbe
accaduto forse di irreparabile, che qualcuno sarebbe morto e qualcuno
sarebbe sopravvissuto a quella incredibile frenesia picaresca
aleggiante tra Francia e Inghilterra; quando non sapevi ancora se
davvero il guascone d’Artagnan e i suoi compagni sarebbero riusciti
a salvare l’onore della regina recuperando i puntali di diamanti
che aveva ricevuto in regalo dal marito donandoli inopinatamente al
suo amante; quando per la prima volta hai sentito il nome del duca di
Buckingham e del conte di Rochefort, nomi i cui suoni bastano a
creare un’atmosfera romanzesca; quando non conoscevi ancora tutti i
capricci, le virtù e le viltà di Athos l’ubriacone cupo ed
eroico, di Aramis il dandy con la vocazione del monaco e di Porthos
il vanitoso smargiasso; quando ancora non immaginavi neanche
lontanamente fino a che punto si potessero spingere la diabolicità
truculenta di Milady, spia di Richelieu, e la scaltrezza ignobile di
d’Artagnan.
Eppure, nonostante tutto,
la lettura adulta riesce ancora ad aggiungere colore ai fatti
risaputi. Mai visti tanti morti come nei Tre moschettieri, per
di più spesso morti innocenti. Una specie di spensierato cimitero
narrativo. Decine di personaggi che mu0iono in un potente climax di
angoscia, pur senza troppi indugi patetici. Persino la decapitazione
di Milady, dopo la brevissima fuga fallita, viene vista da lontano,
dall’altra riva del fiume, fulmineamente riassunta in due braccia
che cadono impugnando una lama sibilante.
Ora che abbiamo, dopo la
recente riproposta del Conte di Montecristo (Einaudi),
un’edizione (Donzelli) con una nuova traduzione, molto piana, di
Camilla Diez, che ha il pregio di non porre ostacoli alla corsa del
racconto (il che per Dumas è dire tutto) e con un piccolo dizionario
dei personaggi, compresi quelli storici, possiamo facilmente
verificarlo, quante uccisioni, forse gratuite in assoluto ma
necessarie alla narrazione, si susseguono in questo romanzo che
riesce sempre a stare in equilibrio tra cupore e divertimento.
Sì, perché fu Giorgio
Manganelli a definire I tre moschettieri un romanzo del
divertimento, come neppure Pinocchio, che invece per lo stesso
Manganelli era tutt’altro che divertimento puro quale poteva
sembrare. Anche se l’arrivo di Milady, in avanti nel romanzo,
cambia il tono, gettando una tetra luce notturna su personaggi sempre
disegnati in trasparenza.
E proprio la trasparenza
notturna, una leggerezza tenebrosa e grottesca, con le sue infinite
sfumature di nero e di blu, è il timbro delle immagini a china e
penna realizzate da Federico Maggioni, quasi a orientare una lettura
finalmente più matura.
Complicità con il
lettore, ma anche oltraggio, sfida continua di trame impensabili,
duelli insensati, galanterie, furbizie e furbate, passioni inattese,
magnifici gesti di generosità e tradimenti feroci, giochi di
prestigio, cedimenti tenuti sul filo dell’artificio per evitare (è
sempre Manganelli a ricordarcelo) «il pericolo della
identificazione». Picaresco allo stato puro, dove lo stile non deve
vedersi (depurare la lingua è lo sforzo titanico che spetta al
traduttore). Invece c’è, uno stile: semplice, baciato da una
divina e scalcagnata naturalezza, una «scrittura gaglioffa ma non
corriva», l’ha definita Franco Cordelli. Giovanni Macchia ha
scritto che i critici farebbero bene a lasciarlo stare, Dumas, perché
la sua spaccona invincibilità li costringerebbe comunque
all’impotenza. Anche i lettori più velenosi, al suo cospetto,
vengono presi da «uno snervante bisogno di inattività».
Seguendo il consiglio di
Macchia, sarebbe dunque più opportuno limitarsi alla filologia.
Nella puntuale introduzione dell’edizione Donzelli, Claude Schopp,
il massimo studioso dumasiano, ricostruisce la genesi
dei Moschettieri, terza esperienza romanzesca della coppia
Maquet-Dumas. Non tutto si sa della collaborazione con Auguste
Maquet, iniziata nel luglio 1842 con ricerche e confronti serrati.
Quando, verso la fine del
1843, Dumas comincia a scrivere I tre moschettieri, sta già
dedicandosi da tempo, con il suo giovane collaboratore, allo studio
del Seicento per un’opera storica. Risale alla lettura di un
documento pubblicato nel 1828 (i Mémoires inediti del
conte di Brienne, segretario di Stato di Luigi XIV) la scoperta delle
azioni storiche che andranno a comporre la trama del romanzo: la
lettura dei Mémoires apocrifi di d’Artagnan (autore
Courtilz de Sandras) aggiungerà all’intreccio portante dei
diamanti della regina l’invenzione dei personaggi. È probabile che
Dumas si sia (furtivamente) impossessato degli apocrifi nella
biblioteca di Marsiglia, alla fine di giugno 1843, trovandovi una
miniera di idee per volgarizzare la storia in chiave romanzesca. Su
quelle basi il suo collaboratore approntò un primo progetto
narrativo.
È da lì che si sviluppa
il romanzo che, non ancora portato a termine, diventerà
un feuilleton per il giornale «Le Siècle» a partire
dalla prima puntata del 14 marzo 1844. Il titolo originario pensato
dall’autore, Athos, Porthos e Aramis, sarebbe diventato I
tre moschettieri (anche se in realtà è la storia del quarto,
come ha scritto Umberto Eco) per volontà del redattore capo
Desnoyers, che non gradì molto l’opera («la storia non promette
grandi follie»), ritenendola poco adatta a un pubblico popolare. Il
successo fu straordinario e immediato. Lo storico Jules Michelet
avrebbe detto che il suo contemporaneo Dumas sapeva insegnare ai
francesi, con i romanzi, più storia di quanta ne sapesse insegnare
lui con tutti i suoi studi.
http://lettura.corriere.it/zac-i-tre-moschettieri-riaffilano-le-lame/
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