08 febbraio 2015

GIULIO ANGIONI. identità sfuggenti

Salvatore Fiume, identità.

     Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare, spesso in modo superficiale ed approssimativo, di IDENTITA'. Nella regione siciliana si è arrivati ad aggiungere  all'antica denominazione dell' Assessorato ai Beni Culturali l'espressione "identità siciliana" che tante polemiche e discussioni ha suscitato.
      L'antropologo Giulio Angioni, in questo articolo pubblicato qualche giorno fa su http://www.manifestosardo.org/, spiega in modo chiaro quanto controverso e problematico sia oggi l'uso di questo scivoloso concetto.





Giulio Angioni
Contorni. Identità


Le identità si potrebbero un po’ paragonare al vino, buono quando è buono: ma non sempre, tanto che è meglio un astemio che un alcolista. Migliore ancora sarebbe paragonarle a misture plurime ben dosate, per dire che, dovendo scegliere, come spesso accade, si può rivelare migliore la commistione della differenziazione, l’omologazione meglio del radicamento, il globale meglio del locale, il meticciato meglio della genuinità, il bastardume meglio del più rigido pedigree. Ma la storicizzazione a posteriori e più ancora l’uso attuale dei sentimenti elementari come quelli identitari sono cose difficili, che però non possono restare nell’ovvio indisturbato. Cinquant’anni fa, anticipando lo “sguardo cosmopolita” alla Ulrich Beck (2004), Antonio Pigliaru, pensando all’identità sarda, ha scritto che bisogna evitare sia l’etnicismo ristretto (lui scriveva regionalismo chiuso) sia il cosmopolitismo di maniera, cioè sradicato e quindi inservibile come supporto al comprendere e all’agire pratico-politico (Pigliaru.
Scegliere, come suggerisce Amartya Sen, una sorta di ragionata via di mezzo è difficile, ma è anche ovvio e necessario almeno allo studioso, anche quando la via di mezzo esponga al rischio di essere malvisto sia dagli entusiasti che dagli scettici delle varie identità. Come probabilmente accadeva, per esempio, negli ambienti risorgimentali dell’Italia del secolo scorso, guai a proclamarsi prima di tutto lombardi o siciliani piuttosto che italiani. Oggi in Italia siamo avanti sulla via del sentire al contrario, nel bene e nel male. Chi ricerca su questo tema si sporca le mani, o meglio ci impegna il cuore e altri organi interni e spesso rischia di venire alle mani, perché spesso si è implicati esistenzialmente anche quando si cerca solo di capire, di studiare, di distinguere e di unificare, mentre intorno si levano vessilli e si proclamano slogan che invocano certezze su questo terreno che diciamo dell’identità, territorio quanto mai incerto, mutevole, problematico, ma più congeniale allo scontro e all’affronto piuttosto che al confronto, alla pretesa di certezza piuttosto che al dubbio e all’ipotesi, all’esame, all’analisi, alla raccolta e alla discussione di dati intersoggettivi di ricerca.
Nella foresta intricata di discorsi anche solo italiani recenti intorno all’identità ci sono ampie radure e vie che vi conducono. C’è soprattutto una convergenza su due idee importanti: il carattere processuale dell’identità, sempre in flusso e in riaggiustamento più o meno rapido; e il carattere di solito plurale delle identità in cui si è implicati sia individualmente sia collettivamente; con la complicazione che invece è bisogno o pretesa di molte forme di identità la rivendicazione di unicità e di contenuti immutabili e perenni, la proclamazione dell’irrinunciabilità a essere sempre stati quel si vuole continuare a essere per sempre. Sono molti gli scritti che mettono in guardia contro i pericoli o i mali dell’identità – uno per tutti in Italia, il provocatorio Contro l’identità di Francesco Remotti (2001) – discorsi innescati soprattutto da fenomeni gravissimi come i genocidi jugoslavi o africani, passando per i fondamentalismi religiosi o di altro genere fino ai leghismi padani.
Anche l’economista Amartya K. Sen ha più volte trattato del problema dei risvolti negativi dell’identità, preoccupandosi di individuare le modalità per intendere, sentire e quindi vivere razionalmente in nuovo modo l’identità, che e gli sottopone alla ragione, in un periodo della storia del mondo in cui i conflitti identitari sono numerosi, massicci e violenti e innescano dibattiti dove le vedute di Sen si inseriscono in presa diretta con vicende in corso. Sen non può non impegnarsi in una critica dura di certi comportamenti, ma anche non prendere sul serio vedute come quelle notorie di Samuel Huntington, che da subito dopo la fine della divisione del mondo nei due blocchi contrapposti, ragionando forse meglio del Francis Fukuyama che riproponeva il mito de La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sosteneva allora che “sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si sta ristrutturando secondo linee culturali. I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano. Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà. I confini politici vengono ridisegnati affinché coincidano con quelli culturali… Le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale”.
Criticando questa visione di scontro di civiltà, Sen si preoccupa di individuare i caratteri culturali, e quindi anche geopolitici mondiali, in particolare della cultura occidentale rispetto a quella islamica, ma rifiutando il metodo di classificazione per civiltà, come fa l’approccio similare di altri studiosi che “dividono le popolazioni locali in gruppi conflittuali, con culture diverse e storie distinte, che tendono, in modo quasi ‘naturale’, a produrre inimicizia reciproca”.
Nel saggio Identità e violenza, Amartya Sen esamina le teorie sull’identità e il loro rapporto con la violenza nel mondo e introduce anche la questione del multiculturalismo, un atteggiamento forse troppo genericamente ‘progressista’, in uso in America e in Europa nell’elaborazione di politiche socio-culturali per la convivenza di culture differenti, emersa con l’incremento delle interazioni globali e dei movimenti migratori di massa nel mondo contemporaneo. Ma al multiculturalismo, avverte Sen, esistono sostanzialmente due approcci nettamente distinti: l’uno “si concentra sulla promozione della diversità come un valore in sé”, l’altro “sulla libertà di ragionamento e di decisione, e celebra la diversità culturale nella misura in cui essa è liberamente scelta (per quanto possibile) dalle persone coinvolte”.
I presupposti teorici di questi due approcci sono da ricercare soprattutto nel “modo di vedere gli esseri umani”. Ci sono coloro, come i cosiddetti comunitaristi, che classificano gli esseri umani in base alle tradizioni, più spesso in base alla religione, “ereditate” dalla comunità in cui si è nati, perché ritiene che queste formino una sorta di identità se non innata, più forte di qualsiasi altra. Nella teoria comunitarista le scelte e le preferenze razionali sono ritenute secondarie rispetto all’inculturazione, alle dinamiche di incorporazione dei tratti culturali, delle tradizioni socialmente apprese dal e nel gruppo di appartenenza, dell’identificazione con i valori e i modi di vita assunti tramite una ‘consapevolezza spontanea’, non dipendente da riflessione esplicita e che trascende la consapevolezza. Ci sono coloro, invece, come gli universalisti, che, secondo Amartya Sen, considerano gli esseri umani come “individui dalle tante affiliazioni e associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover prendere una decisione (e ad assumersi le responsabilità che derivano da una scelta ragionata)”. Per gli universalisti quindi la scelta razionale individuale è preliminare e prioritaria rispetto a qualunque influenza socio-culturale.
Come i presupposti teorici, anche le pratiche multiculturaliste nei paesi occidentali sono differenti: ci sono coloro che praticano un multiculturalismo esclusivo o escludente, cioè ‘lasciando in pace’ gli individui di origine culturale differente, e coloro invece che praticano un multiculturalismo inclusivo cercando di coinvolgere nel progresso socio-politico ed economico del paese coloro che appartengono a culture diverse o minoritarie. Vede bene Sen quando considera la prima pratica solo una pseudo-forma di multiculturalismo, molto diffusa in questi tempi, che egli preferirebbe definire “monoculturalismo plurale”, perché legata ad una concezione delle culture come “compartimenti stagni” che debbono rimanere separati, senza tenere in conto la “libertà culturale” dei suoi componenti. Si tratta quindi di una teoria sostanzialmente riduzionista, che tende a ignorare o a non tenere in debito conto che tutti abbiamo più identità, più affiliazioni o appartenenze, che riguardano non solo la religione o l’etnia, ma anche la classe sociale, il genere, la lingua, la professione e così via.
La questione del multiculturalismo, che sembrò inizialmente la soluzione alla convivenza stretta nel mondo ormai globalizzato, in realtà nasconde, ma non più di tanto, un’idea di cultura stereotipa, cristallizzata. In questo libro si è utilizzato spesso il concetto di cultura antropologico ormai parte del linguaggio quotidiano, notando varie definizioni, e qui notiamo ancora che la cultura così connessa all’identità (individuale e sociale insieme) privilegia un’immagine sostanzialista di dinamiche e pratiche sociali più o meno complesse, fluide e messe in discussione. Non si ha infatti una sola cultura di appartenenza, ma si è partecipi di più collettività e contesti culturali, dalla famiglia all’ecumene, con confini fluidi e labili che paiono addensarsi in una unica e continua linea d’ombra solo in momenti di eccessi identitari.
Gli ‘eccessi’ il più delle volte nascondono e sono il prodotto di conflitti di potere per il controllo delle risorse. La distinzione stessa fra Occidente e il resto del mondo, costruita retoricamente in buona parte sul primato delle democrazie occidentali, nasconde agli occhi delle masse non una concezione banalmente etnocentrica, ma la legittimazione delle azioni di guerra e di pace per il controllo e lo sfruttamento economico delle risorse globali e locali a beneficio di pochi e a detrimento dei più, che a livello mondiale ha portato alla divisione gerarchica fra paesi ricchi (consumatori del 78% delle risorse della Terra) e paesi poveri (nei quali si trova circa l’80% della popolazione mondiale), fra ‘primo mondo’ e ‘terzo mondo’, fra paesi sviluppati o industrializzati e paesi sottosviluppati, con il gradino di passaggio dei cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’.
Per tornare infine al tema, caro a Sen, della “necessità di dare il giusto riconoscimento al ruolo della scelta razionale nel pensiero identitario”, e quindi dell’importanza della scelta razionale nelle nostre affiliazioni, va adeguatamente rilevato che le nostre scelte individuali possono essere non di rado in parte o del tutto confliggenti con le identità e affiliazioni che nolenti o volenti ci vengono proiettate dagli altri, che siano singoli o gruppi più o meno dominanti. L’identità è non di rado l’immagine più o meno stereotipata che le istituzioni oggettivano in carte di soggiorno, di riconoscimento o di identità, quando pure questo accade e non si è relegati nel limbo sempre più popolato delle non-persone, un ambito subumano e disumano in cui sono gettati razionalmente esseri umani di ogni età e sesso, ‘clandestini’ e lavoratori ‘in nero’, una volta varcati i confini di quella parte del mondo che detiene i mezzi di produzione nel vasto mondo globalizzato odierno, una volta varcati i confini venuti meno quasi solo per merci e capitali.
Giulio Angioni


Giulio Angioni
Le identità si potrebbero un po’ paragonare al vino, buono quando è buono: ma non sempre, tanto che è meglio un astemio che un alcolista. Migliore ancora sarebbe paragonarle a misture plurime ben dosate, per dire che, dovendo scegliere, come spesso accade, si può rivelare migliore la commistione della differenziazione, l’omologazione meglio del radicamento, il globale meglio del locale, il meticciato meglio della genuinità, il bastardume meglio del più rigido pedigree. Ma la storicizzazione a posteriori e più ancora l’uso attuale dei sentimenti elementari come quelli identitari sono cose difficili, che però non possono restare nell’ovvio indisturbato. Cinquant’anni fa, anticipando lo “sguardo cosmopolita” alla Ulrich Beck (2004), Antonio Pigliaru, pensando all’identità sarda, ha scritto che bisogna evitare sia l’etnicismo ristretto (lui scriveva regionalismo chiuso) sia il cosmopolitismo di maniera, cioè sradicato e quindi inservibile come supporto al comprendere e all’agire pratico-politico (Pigliaru.
Scegliere, come suggerisce Amartya Sen, una sorta di ragionata via di mezzo è difficile, ma è anche ovvio e necessario almeno allo studioso, anche quando la via di mezzo esponga al rischio di essere malvisto sia dagli entusiasti che dagli scettici delle varie identità. Come probabilmente accadeva, per esempio, negli ambienti risorgimentali dell’Italia del secolo scorso, guai a proclamarsi prima di tutto lombardi o siciliani piuttosto che italiani. Oggi in Italia siamo avanti sulla via del sentire al contrario, nel bene e nel male. Chi ricerca su questo tema si sporca le mani, o meglio ci impegna il cuore e altri organi interni e spesso rischia di venire alle mani, perché spesso si è implicati esistenzialmente anche quando si cerca solo di capire, di studiare, di distinguere e di unificare, mentre intorno si levano vessilli e si proclamano slogan che invocano certezze su questo terreno che diciamo dell’identità, territorio quanto mai incerto, mutevole, problematico, ma più congeniale allo scontro e all’affronto piuttosto che al confronto, alla pretesa di certezza piuttosto che al dubbio e all’ipotesi, all’esame, all’analisi, alla raccolta e alla discussione di dati intersoggettivi di ricerca.
Nella foresta intricata di discorsi anche solo italiani recenti intorno all’identità ci sono ampie radure e vie che vi conducono. C’è soprattutto una convergenza su due idee importanti: il carattere processuale dell’identità, sempre in flusso e in riaggiustamento più o meno rapido; e il carattere di solito plurale delle identità in cui si è implicati sia individualmente sia collettivamente; con la complicazione che invece è bisogno o pretesa di molte forme di identità la rivendicazione di unicità e di contenuti immutabili e perenni, la proclamazione dell’irrinunciabilità a essere sempre stati quel si vuole continuare a essere per sempre. Sono molti gli scritti che mettono in guardia contro i pericoli o i mali dell’identità – uno per tutti in Italia, il provocatorio Contro l’identità di Francesco Remotti (2001) – discorsi innescati soprattutto da fenomeni gravissimi come i genocidi jugoslavi o africani, passando per i fondamentalismi religiosi o di altro genere fino ai leghismi padani.
Anche l’economista Amartya K. Sen ha più volte trattato del problema dei risvolti negativi dell’identità, preoccupandosi di individuare le modalità per intendere, sentire e quindi vivere razionalmente in nuovo modo l’identità, che e gli sottopone alla ragione, in un periodo della storia del mondo in cui i conflitti identitari sono numerosi, massicci e violenti e innescano dibattiti dove le vedute di Sen si inseriscono in presa diretta con vicende in corso. Sen non può non impegnarsi in una critica dura di certi comportamenti, ma anche non prendere sul serio vedute come quelle notorie di Samuel Huntington, che da subito dopo la fine della divisione del mondo nei due blocchi contrapposti, ragionando forse meglio del Francis Fukuyama che riproponeva il mito de La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sosteneva allora che “sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si sta ristrutturando secondo linee culturali. I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano. Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà. I confini politici vengono ridisegnati affinché coincidano con quelli culturali… Le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale”.
Criticando questa visione di scontro di civiltà, Sen si preoccupa di individuare i caratteri culturali, e quindi anche geopolitici mondiali, in particolare della cultura occidentale rispetto a quella islamica, ma rifiutando il metodo di classificazione per civiltà, come fa l’approccio similare di altri studiosi che “dividono le popolazioni locali in gruppi conflittuali, con culture diverse e storie distinte, che tendono, in modo quasi ‘naturale’, a produrre inimicizia reciproca”.
Nel saggio Identità e violenza, Amartya Sen esamina le teorie sull’identità e il loro rapporto con la violenza nel mondo e introduce anche la questione del multiculturalismo, un atteggiamento forse troppo genericamente ‘progressista’, in uso in America e in Europa nell’elaborazione di politiche socio-culturali per la convivenza di culture differenti, emersa con l’incremento delle interazioni globali e dei movimenti migratori di massa nel mondo contemporaneo. Ma al multiculturalismo, avverte Sen, esistono sostanzialmente due approcci nettamente distinti: l’uno “si concentra sulla promozione della diversità come un valore in sé”, l’altro “sulla libertà di ragionamento e di decisione, e celebra la diversità culturale nella misura in cui essa è liberamente scelta (per quanto possibile) dalle persone coinvolte”.
I presupposti teorici di questi due approcci sono da ricercare soprattutto nel “modo di vedere gli esseri umani”. Ci sono coloro, come i cosiddetti comunitaristi, che classificano gli esseri umani in base alle tradizioni, più spesso in base alla religione, “ereditate” dalla comunità in cui si è nati, perché ritiene che queste formino una sorta di identità se non innata, più forte di qualsiasi altra. Nella teoria comunitarista le scelte e le preferenze razionali sono ritenute secondarie rispetto all’inculturazione, alle dinamiche di incorporazione dei tratti culturali, delle tradizioni socialmente apprese dal e nel gruppo di appartenenza, dell’identificazione con i valori e i modi di vita assunti tramite una ‘consapevolezza spontanea’, non dipendente da riflessione esplicita e che trascende la consapevolezza. Ci sono coloro, invece, come gli universalisti, che, secondo Amartya Sen, considerano gli esseri umani come “individui dalle tante affiliazioni e associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover prendere una decisione (e ad assumersi le responsabilità che derivano da una scelta ragionata)”. Per gli universalisti quindi la scelta razionale individuale è preliminare e prioritaria rispetto a qualunque influenza socio-culturale.
Come i presupposti teorici, anche le pratiche multiculturaliste nei paesi occidentali sono differenti: ci sono coloro che praticano un multiculturalismo esclusivo o escludente, cioè ‘lasciando in pace’ gli individui di origine culturale differente, e coloro invece che praticano un multiculturalismo inclusivo cercando di coinvolgere nel progresso socio-politico ed economico del paese coloro che appartengono a culture diverse o minoritarie. Vede bene Sen quando considera la prima pratica solo una pseudo-forma di multiculturalismo, molto diffusa in questi tempi, che egli preferirebbe definire “monoculturalismo plurale”, perché legata ad una concezione delle culture come “compartimenti stagni” che debbono rimanere separati, senza tenere in conto la “libertà culturale” dei suoi componenti. Si tratta quindi di una teoria sostanzialmente riduzionista, che tende a ignorare o a non tenere in debito conto che tutti abbiamo più identità, più affiliazioni o appartenenze, che riguardano non solo la religione o l’etnia, ma anche la classe sociale, il genere, la lingua, la professione e così via.
La questione del multiculturalismo, che sembrò inizialmente la soluzione alla convivenza stretta nel mondo ormai globalizzato, in realtà nasconde, ma non più di tanto, un’idea di cultura stereotipa, cristallizzata. In questo libro si è utilizzato spesso il concetto di cultura antropologico ormai parte del linguaggio quotidiano, notando varie definizioni, e qui notiamo ancora che la cultura così connessa all’identità (individuale e sociale insieme) privilegia un’immagine sostanzialista di dinamiche e pratiche sociali più o meno complesse, fluide e messe in discussione. Non si ha infatti una sola cultura di appartenenza, ma si è partecipi di più collettività e contesti culturali, dalla famiglia all’ecumene, con confini fluidi e labili che paiono addensarsi in una unica e continua linea d’ombra solo in momenti di eccessi identitari.
Gli ‘eccessi’ il più delle volte nascondono e sono il prodotto di conflitti di potere per il controllo delle risorse. La distinzione stessa fra Occidente e il resto del mondo, costruita retoricamente in buona parte sul primato delle democrazie occidentali, nasconde agli occhi delle masse non una concezione banalmente etnocentrica, ma la legittimazione delle azioni di guerra e di pace per il controllo e lo sfruttamento economico delle risorse globali e locali a beneficio di pochi e a detrimento dei più, che a livello mondiale ha portato alla divisione gerarchica fra paesi ricchi (consumatori del 78% delle risorse della Terra) e paesi poveri (nei quali si trova circa l’80% della popolazione mondiale), fra ‘primo mondo’ e ‘terzo mondo’, fra paesi sviluppati o industrializzati e paesi sottosviluppati, con il gradino di passaggio dei cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’.
Per tornare infine al tema, caro a Sen, della “necessità di dare il giusto riconoscimento al ruolo della scelta razionale nel pensiero identitario”, e quindi dell’importanza della scelta razionale nelle nostre affiliazioni, va adeguatamente rilevato che le nostre scelte individuali possono essere non di rado in parte o del tutto confliggenti con le identità e affiliazioni che nolenti o volenti ci vengono proiettate dagli altri, che siano singoli o gruppi più o meno dominanti. L’identità è non di rado l’immagine più o meno stereotipata che le istituzioni oggettivano in carte di soggiorno, di riconoscimento o di identità, quando pure questo accade e non si è relegati nel limbo sempre più popolato delle non-persone, un ambito subumano e disumano in cui sono gettati razionalmente esseri umani di ogni età e sesso, ‘clandestini’ e lavoratori ‘in nero’, una volta varcati i confini di quella parte del mondo che detiene i mezzi di produzione nel vasto mondo globalizzato odierno, una volta varcati i confini venuti meno quasi solo per merci e capitali.
Nell’immagine: Salvatore Fiume, identità.
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Giulio Angioni
Le identità si potrebbero un po’ paragonare al vino, buono quando è buono: ma non sempre, tanto che è meglio un astemio che un alcolista. Migliore ancora sarebbe paragonarle a misture plurime ben dosate, per dire che, dovendo scegliere, come spesso accade, si può rivelare migliore la commistione della differenziazione, l’omologazione meglio del radicamento, il globale meglio del locale, il meticciato meglio della genuinità, il bastardume meglio del più rigido pedigree. Ma la storicizzazione a posteriori e più ancora l’uso attuale dei sentimenti elementari come quelli identitari sono cose difficili, che però non possono restare nell’ovvio indisturbato. Cinquant’anni fa, anticipando lo “sguardo cosmopolita” alla Ulrich Beck (2004), Antonio Pigliaru, pensando all’identità sarda, ha scritto che bisogna evitare sia l’etnicismo ristretto (lui scriveva regionalismo chiuso) sia il cosmopolitismo di maniera, cioè sradicato e quindi inservibile come supporto al comprendere e all’agire pratico-politico (Pigliaru.
Scegliere, come suggerisce Amartya Sen, una sorta di ragionata via di mezzo è difficile, ma è anche ovvio e necessario almeno allo studioso, anche quando la via di mezzo esponga al rischio di essere malvisto sia dagli entusiasti che dagli scettici delle varie identità. Come probabilmente accadeva, per esempio, negli ambienti risorgimentali dell’Italia del secolo scorso, guai a proclamarsi prima di tutto lombardi o siciliani piuttosto che italiani. Oggi in Italia siamo avanti sulla via del sentire al contrario, nel bene e nel male. Chi ricerca su questo tema si sporca le mani, o meglio ci impegna il cuore e altri organi interni e spesso rischia di venire alle mani, perché spesso si è implicati esistenzialmente anche quando si cerca solo di capire, di studiare, di distinguere e di unificare, mentre intorno si levano vessilli e si proclamano slogan che invocano certezze su questo terreno che diciamo dell’identità, territorio quanto mai incerto, mutevole, problematico, ma più congeniale allo scontro e all’affronto piuttosto che al confronto, alla pretesa di certezza piuttosto che al dubbio e all’ipotesi, all’esame, all’analisi, alla raccolta e alla discussione di dati intersoggettivi di ricerca.
Nella foresta intricata di discorsi anche solo italiani recenti intorno all’identità ci sono ampie radure e vie che vi conducono. C’è soprattutto una convergenza su due idee importanti: il carattere processuale dell’identità, sempre in flusso e in riaggiustamento più o meno rapido; e il carattere di solito plurale delle identità in cui si è implicati sia individualmente sia collettivamente; con la complicazione che invece è bisogno o pretesa di molte forme di identità la rivendicazione di unicità e di contenuti immutabili e perenni, la proclamazione dell’irrinunciabilità a essere sempre stati quel si vuole continuare a essere per sempre. Sono molti gli scritti che mettono in guardia contro i pericoli o i mali dell’identità – uno per tutti in Italia, il provocatorio Contro l’identità di Francesco Remotti (2001) – discorsi innescati soprattutto da fenomeni gravissimi come i genocidi jugoslavi o africani, passando per i fondamentalismi religiosi o di altro genere fino ai leghismi padani.
Anche l’economista Amartya K. Sen ha più volte trattato del problema dei risvolti negativi dell’identità, preoccupandosi di individuare le modalità per intendere, sentire e quindi vivere razionalmente in nuovo modo l’identità, che e gli sottopone alla ragione, in un periodo della storia del mondo in cui i conflitti identitari sono numerosi, massicci e violenti e innescano dibattiti dove le vedute di Sen si inseriscono in presa diretta con vicende in corso. Sen non può non impegnarsi in una critica dura di certi comportamenti, ma anche non prendere sul serio vedute come quelle notorie di Samuel Huntington, che da subito dopo la fine della divisione del mondo nei due blocchi contrapposti, ragionando forse meglio del Francis Fukuyama che riproponeva il mito de La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sosteneva allora che “sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si sta ristrutturando secondo linee culturali. I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano. Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà. I confini politici vengono ridisegnati affinché coincidano con quelli culturali… Le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale”.
Criticando questa visione di scontro di civiltà, Sen si preoccupa di individuare i caratteri culturali, e quindi anche geopolitici mondiali, in particolare della cultura occidentale rispetto a quella islamica, ma rifiutando il metodo di classificazione per civiltà, come fa l’approccio similare di altri studiosi che “dividono le popolazioni locali in gruppi conflittuali, con culture diverse e storie distinte, che tendono, in modo quasi ‘naturale’, a produrre inimicizia reciproca”.
Nel saggio Identità e violenza, Amartya Sen esamina le teorie sull’identità e il loro rapporto con la violenza nel mondo e introduce anche la questione del multiculturalismo, un atteggiamento forse troppo genericamente ‘progressista’, in uso in America e in Europa nell’elaborazione di politiche socio-culturali per la convivenza di culture differenti, emersa con l’incremento delle interazioni globali e dei movimenti migratori di massa nel mondo contemporaneo. Ma al multiculturalismo, avverte Sen, esistono sostanzialmente due approcci nettamente distinti: l’uno “si concentra sulla promozione della diversità come un valore in sé”, l’altro “sulla libertà di ragionamento e di decisione, e celebra la diversità culturale nella misura in cui essa è liberamente scelta (per quanto possibile) dalle persone coinvolte”.
I presupposti teorici di questi due approcci sono da ricercare soprattutto nel “modo di vedere gli esseri umani”. Ci sono coloro, come i cosiddetti comunitaristi, che classificano gli esseri umani in base alle tradizioni, più spesso in base alla religione, “ereditate” dalla comunità in cui si è nati, perché ritiene che queste formino una sorta di identità se non innata, più forte di qualsiasi altra. Nella teoria comunitarista le scelte e le preferenze razionali sono ritenute secondarie rispetto all’inculturazione, alle dinamiche di incorporazione dei tratti culturali, delle tradizioni socialmente apprese dal e nel gruppo di appartenenza, dell’identificazione con i valori e i modi di vita assunti tramite una ‘consapevolezza spontanea’, non dipendente da riflessione esplicita e che trascende la consapevolezza. Ci sono coloro, invece, come gli universalisti, che, secondo Amartya Sen, considerano gli esseri umani come “individui dalle tante affiliazioni e associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover prendere una decisione (e ad assumersi le responsabilità che derivano da una scelta ragionata)”. Per gli universalisti quindi la scelta razionale individuale è preliminare e prioritaria rispetto a qualunque influenza socio-culturale.
Come i presupposti teorici, anche le pratiche multiculturaliste nei paesi occidentali sono differenti: ci sono coloro che praticano un multiculturalismo esclusivo o escludente, cioè ‘lasciando in pace’ gli individui di origine culturale differente, e coloro invece che praticano un multiculturalismo inclusivo cercando di coinvolgere nel progresso socio-politico ed economico del paese coloro che appartengono a culture diverse o minoritarie. Vede bene Sen quando considera la prima pratica solo una pseudo-forma di multiculturalismo, molto diffusa in questi tempi, che egli preferirebbe definire “monoculturalismo plurale”, perché legata ad una concezione delle culture come “compartimenti stagni” che debbono rimanere separati, senza tenere in conto la “libertà culturale” dei suoi componenti. Si tratta quindi di una teoria sostanzialmente riduzionista, che tende a ignorare o a non tenere in debito conto che tutti abbiamo più identità, più affiliazioni o appartenenze, che riguardano non solo la religione o l’etnia, ma anche la classe sociale, il genere, la lingua, la professione e così via.
La questione del multiculturalismo, che sembrò inizialmente la soluzione alla convivenza stretta nel mondo ormai globalizzato, in realtà nasconde, ma non più di tanto, un’idea di cultura stereotipa, cristallizzata. In questo libro si è utilizzato spesso il concetto di cultura antropologico ormai parte del linguaggio quotidiano, notando varie definizioni, e qui notiamo ancora che la cultura così connessa all’identità (individuale e sociale insieme) privilegia un’immagine sostanzialista di dinamiche e pratiche sociali più o meno complesse, fluide e messe in discussione. Non si ha infatti una sola cultura di appartenenza, ma si è partecipi di più collettività e contesti culturali, dalla famiglia all’ecumene, con confini fluidi e labili che paiono addensarsi in una unica e continua linea d’ombra solo in momenti di eccessi identitari.
Gli ‘eccessi’ il più delle volte nascondono e sono il prodotto di conflitti di potere per il controllo delle risorse. La distinzione stessa fra Occidente e il resto del mondo, costruita retoricamente in buona parte sul primato delle democrazie occidentali, nasconde agli occhi delle masse non una concezione banalmente etnocentrica, ma la legittimazione delle azioni di guerra e di pace per il controllo e lo sfruttamento economico delle risorse globali e locali a beneficio di pochi e a detrimento dei più, che a livello mondiale ha portato alla divisione gerarchica fra paesi ricchi (consumatori del 78% delle risorse della Terra) e paesi poveri (nei quali si trova circa l’80% della popolazione mondiale), fra ‘primo mondo’ e ‘terzo mondo’, fra paesi sviluppati o industrializzati e paesi sottosviluppati, con il gradino di passaggio dei cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’.
Per tornare infine al tema, caro a Sen, della “necessità di dare il giusto riconoscimento al ruolo della scelta razionale nel pensiero identitario”, e quindi dell’importanza della scelta razionale nelle nostre affiliazioni, va adeguatamente rilevato che le nostre scelte individuali possono essere non di rado in parte o del tutto confliggenti con le identità e affiliazioni che nolenti o volenti ci vengono proiettate dagli altri, che siano singoli o gruppi più o meno dominanti. L’identità è non di rado l’immagine più o meno stereotipata che le istituzioni oggettivano in carte di soggiorno, di riconoscimento o di identità, quando pure questo accade e non si è relegati nel limbo sempre più popolato delle non-persone, un ambito subumano e disumano in cui sono gettati razionalmente esseri umani di ogni età e sesso, ‘clandestini’ e lavoratori ‘in nero’, una volta varcati i confini di quella parte del mondo che detiene i mezzi di produzione nel vasto mondo globalizzato odierno, una volta varcati i confini venuti meno quasi solo per merci e capitali.
Nell’immagine: Salvatore Fiume, identità.
- See more at: http://www.manifestosardo.org/contorni-identita-4/#more-19679
Giulio Angioni
Le identità si potrebbero un po’ paragonare al vino, buono quando è buono: ma non sempre, tanto che è meglio un astemio che un alcolista. Migliore ancora sarebbe paragonarle a misture plurime ben dosate, per dire che, dovendo scegliere, come spesso accade, si può rivelare migliore la commistione della differenziazione, l’omologazione meglio del radicamento, il globale meglio del locale, il meticciato meglio della genuinità, il bastardume meglio del più rigido pedigree. Ma la storicizzazione a posteriori e più ancora l’uso attuale dei sentimenti elementari come quelli identitari sono cose difficili, che però non possono restare nell’ovvio indisturbato. Cinquant’anni fa, anticipando lo “sguardo cosmopolita” alla Ulrich Beck (2004), Antonio Pigliaru, pensando all’identità sarda, ha scritto che bisogna evitare sia l’etnicismo ristretto (lui scriveva regionalismo chiuso) sia il cosmopolitismo di maniera, cioè sradicato e quindi inservibile come supporto al comprendere e all’agire pratico-politico (Pigliaru.
Scegliere, come suggerisce Amartya Sen, una sorta di ragionata via di mezzo è difficile, ma è anche ovvio e necessario almeno allo studioso, anche quando la via di mezzo esponga al rischio di essere malvisto sia dagli entusiasti che dagli scettici delle varie identità. Come probabilmente accadeva, per esempio, negli ambienti risorgimentali dell’Italia del secolo scorso, guai a proclamarsi prima di tutto lombardi o siciliani piuttosto che italiani. Oggi in Italia siamo avanti sulla via del sentire al contrario, nel bene e nel male. Chi ricerca su questo tema si sporca le mani, o meglio ci impegna il cuore e altri organi interni e spesso rischia di venire alle mani, perché spesso si è implicati esistenzialmente anche quando si cerca solo di capire, di studiare, di distinguere e di unificare, mentre intorno si levano vessilli e si proclamano slogan che invocano certezze su questo terreno che diciamo dell’identità, territorio quanto mai incerto, mutevole, problematico, ma più congeniale allo scontro e all’affronto piuttosto che al confronto, alla pretesa di certezza piuttosto che al dubbio e all’ipotesi, all’esame, all’analisi, alla raccolta e alla discussione di dati intersoggettivi di ricerca.
Nella foresta intricata di discorsi anche solo italiani recenti intorno all’identità ci sono ampie radure e vie che vi conducono. C’è soprattutto una convergenza su due idee importanti: il carattere processuale dell’identità, sempre in flusso e in riaggiustamento più o meno rapido; e il carattere di solito plurale delle identità in cui si è implicati sia individualmente sia collettivamente; con la complicazione che invece è bisogno o pretesa di molte forme di identità la rivendicazione di unicità e di contenuti immutabili e perenni, la proclamazione dell’irrinunciabilità a essere sempre stati quel si vuole continuare a essere per sempre. Sono molti gli scritti che mettono in guardia contro i pericoli o i mali dell’identità – uno per tutti in Italia, il provocatorio Contro l’identità di Francesco Remotti (2001) – discorsi innescati soprattutto da fenomeni gravissimi come i genocidi jugoslavi o africani, passando per i fondamentalismi religiosi o di altro genere fino ai leghismi padani.
Anche l’economista Amartya K. Sen ha più volte trattato del problema dei risvolti negativi dell’identità, preoccupandosi di individuare le modalità per intendere, sentire e quindi vivere razionalmente in nuovo modo l’identità, che e gli sottopone alla ragione, in un periodo della storia del mondo in cui i conflitti identitari sono numerosi, massicci e violenti e innescano dibattiti dove le vedute di Sen si inseriscono in presa diretta con vicende in corso. Sen non può non impegnarsi in una critica dura di certi comportamenti, ma anche non prendere sul serio vedute come quelle notorie di Samuel Huntington, che da subito dopo la fine della divisione del mondo nei due blocchi contrapposti, ragionando forse meglio del Francis Fukuyama che riproponeva il mito de La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sosteneva allora che “sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si sta ristrutturando secondo linee culturali. I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano. Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà. I confini politici vengono ridisegnati affinché coincidano con quelli culturali… Le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale”.
Criticando questa visione di scontro di civiltà, Sen si preoccupa di individuare i caratteri culturali, e quindi anche geopolitici mondiali, in particolare della cultura occidentale rispetto a quella islamica, ma rifiutando il metodo di classificazione per civiltà, come fa l’approccio similare di altri studiosi che “dividono le popolazioni locali in gruppi conflittuali, con culture diverse e storie distinte, che tendono, in modo quasi ‘naturale’, a produrre inimicizia reciproca”.
Nel saggio Identità e violenza, Amartya Sen esamina le teorie sull’identità e il loro rapporto con la violenza nel mondo e introduce anche la questione del multiculturalismo, un atteggiamento forse troppo genericamente ‘progressista’, in uso in America e in Europa nell’elaborazione di politiche socio-culturali per la convivenza di culture differenti, emersa con l’incremento delle interazioni globali e dei movimenti migratori di massa nel mondo contemporaneo. Ma al multiculturalismo, avverte Sen, esistono sostanzialmente due approcci nettamente distinti: l’uno “si concentra sulla promozione della diversità come un valore in sé”, l’altro “sulla libertà di ragionamento e di decisione, e celebra la diversità culturale nella misura in cui essa è liberamente scelta (per quanto possibile) dalle persone coinvolte”.
I presupposti teorici di questi due approcci sono da ricercare soprattutto nel “modo di vedere gli esseri umani”. Ci sono coloro, come i cosiddetti comunitaristi, che classificano gli esseri umani in base alle tradizioni, più spesso in base alla religione, “ereditate” dalla comunità in cui si è nati, perché ritiene che queste formino una sorta di identità se non innata, più forte di qualsiasi altra. Nella teoria comunitarista le scelte e le preferenze razionali sono ritenute secondarie rispetto all’inculturazione, alle dinamiche di incorporazione dei tratti culturali, delle tradizioni socialmente apprese dal e nel gruppo di appartenenza, dell’identificazione con i valori e i modi di vita assunti tramite una ‘consapevolezza spontanea’, non dipendente da riflessione esplicita e che trascende la consapevolezza. Ci sono coloro, invece, come gli universalisti, che, secondo Amartya Sen, considerano gli esseri umani come “individui dalle tante affiliazioni e associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover prendere una decisione (e ad assumersi le responsabilità che derivano da una scelta ragionata)”. Per gli universalisti quindi la scelta razionale individuale è preliminare e prioritaria rispetto a qualunque influenza socio-culturale.
Come i presupposti teorici, anche le pratiche multiculturaliste nei paesi occidentali sono differenti: ci sono coloro che praticano un multiculturalismo esclusivo o escludente, cioè ‘lasciando in pace’ gli individui di origine culturale differente, e coloro invece che praticano un multiculturalismo inclusivo cercando di coinvolgere nel progresso socio-politico ed economico del paese coloro che appartengono a culture diverse o minoritarie. Vede bene Sen quando considera la prima pratica solo una pseudo-forma di multiculturalismo, molto diffusa in questi tempi, che egli preferirebbe definire “monoculturalismo plurale”, perché legata ad una concezione delle culture come “compartimenti stagni” che debbono rimanere separati, senza tenere in conto la “libertà culturale” dei suoi componenti. Si tratta quindi di una teoria sostanzialmente riduzionista, che tende a ignorare o a non tenere in debito conto che tutti abbiamo più identità, più affiliazioni o appartenenze, che riguardano non solo la religione o l’etnia, ma anche la classe sociale, il genere, la lingua, la professione e così via.
La questione del multiculturalismo, che sembrò inizialmente la soluzione alla convivenza stretta nel mondo ormai globalizzato, in realtà nasconde, ma non più di tanto, un’idea di cultura stereotipa, cristallizzata. In questo libro si è utilizzato spesso il concetto di cultura antropologico ormai parte del linguaggio quotidiano, notando varie definizioni, e qui notiamo ancora che la cultura così connessa all’identità (individuale e sociale insieme) privilegia un’immagine sostanzialista di dinamiche e pratiche sociali più o meno complesse, fluide e messe in discussione. Non si ha infatti una sola cultura di appartenenza, ma si è partecipi di più collettività e contesti culturali, dalla famiglia all’ecumene, con confini fluidi e labili che paiono addensarsi in una unica e continua linea d’ombra solo in momenti di eccessi identitari.
Gli ‘eccessi’ il più delle volte nascondono e sono il prodotto di conflitti di potere per il controllo delle risorse. La distinzione stessa fra Occidente e il resto del mondo, costruita retoricamente in buona parte sul primato delle democrazie occidentali, nasconde agli occhi delle masse non una concezione banalmente etnocentrica, ma la legittimazione delle azioni di guerra e di pace per il controllo e lo sfruttamento economico delle risorse globali e locali a beneficio di pochi e a detrimento dei più, che a livello mondiale ha portato alla divisione gerarchica fra paesi ricchi (consumatori del 78% delle risorse della Terra) e paesi poveri (nei quali si trova circa l’80% della popolazione mondiale), fra ‘primo mondo’ e ‘terzo mondo’, fra paesi sviluppati o industrializzati e paesi sottosviluppati, con il gradino di passaggio dei cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’.
Per tornare infine al tema, caro a Sen, della “necessità di dare il giusto riconoscimento al ruolo della scelta razionale nel pensiero identitario”, e quindi dell’importanza della scelta razionale nelle nostre affiliazioni, va adeguatamente rilevato che le nostre scelte individuali possono essere non di rado in parte o del tutto confliggenti con le identità e affiliazioni che nolenti o volenti ci vengono proiettate dagli altri, che siano singoli o gruppi più o meno dominanti. L’identità è non di rado l’immagine più o meno stereotipata che le istituzioni oggettivano in carte di soggiorno, di riconoscimento o di identità, quando pure questo accade e non si è relegati nel limbo sempre più popolato delle non-persone, un ambito subumano e disumano in cui sono gettati razionalmente esseri umani di ogni età e sesso, ‘clandestini’ e lavoratori ‘in nero’, una volta varcati i confini di quella parte del mondo che detiene i mezzi di produzione nel vasto mondo globalizzato odierno, una volta varcati i confini venuti meno quasi solo per merci e capitali.
Nell’immagine: Salvatore Fiume, identità.
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