24 febbraio 2015

L'ARTE ALL'ALBA DEL SECOLO BREVE


Gli incubi dell’Europa di fronte ai cambiamenti della modernità tra Ottocento e Novecento raccontati da una mostra a Rovigo. Da non perdere.

Melisa Garzonio

Il diavolo probabilmente


Paris brûle-t-il? Parigi brucia? Le truppe di Hitler non hanno ancora invaso la Ville Lumière, eppure. Siamo nel ventennio fin de siècle, la Belle Époque si sta avviando al tramonto, si spengono le luci dei boulevard, finita la magia, basta champagne. È la modernità che avanza, ma non ci sono istruzioni per l’uso. Bella la scienza, apre nuovi orizzonti ma insieme porta tensioni e crea grossi scompensi. Forse il passato era più seducente?

Il vento del cambiamento (e dello spaesamento) si coglie non solo nella Parigi bella e corrotta di Baudelaire, ma soffia impetuoso in tutta Europa, a Berlino, Vienna, Venezia, Dresda, Monaco, nella Londra noir di Edgar Allan Poe. La guerra del ‘14 è alle porte, e nel ‘29 arriverà la grande depressione che metterà in ginocchio l’economia del pianeta. Ma torniamo a Parigi. C’è un pittore, apparentemente incurante dei venti avversi, che si fa cronista dei fatti in chiave seducente, ambienta le sue tele in luoghi eclettici, esotici e fiabeschi, fa di ogni derelitto l’emblema di condizioni, caratteri, di destini e maledizioni: si chiama Gustave Moreau.

I suoi quadri, scriveva Zola, «sono enigmi... fantasticherie sottili, complicate, enigmatiche, di cui non si riesce subito a svelare il senso». Insensatezze che però interpretano stati d’animo e inquietudini collettive. È da Moreau, dal suo luciferino armamentario di sfingi, chimere, rapaci, mostri e incubi che prenderà le mosse la corrente del Simbolismo europeo. Ed è con due tra le tele più citate e dissacranti del pittore francese, Edipo e la sfinge e Salomè danzante che si apre il percorso della mostra «Il demone della modernità» al Palazzo Roverella di Rovigo (fino al 14 giugno).

L’eroe antico e la danzatrice lasciva, due temi che Moreau ha replicato ossessivamente, fin quasi alla morte. Scaldata l’atmosfera, si dà la parola ai pittori che sulla scia del maestro visionario hanno interpretato il nuovo con gusto nero e interventi audaci.

Una trentina di nomi, con tante celebrità: Marc Chagall, Paul Klee, Max Klinger, Odilon Redon, Félicien Rops, Leo Putz, Alberto Martini. Ma la mossa vincente del curatore, Giandomenico Romanelli, è aver portato a Rovigo artisti magnifici e quasi sconosciuti, come Sascha Schneider, Oskar Zwintscher, Mirko Racki.

Dipingono donne, diavoli e metropoli impossibili. Come quelle di Mikalojus Konstantinas Ciurlionis, una pittura intrisa di nebbie colorate, un vedo non vedo di acropoli con torri immaginarie e cieli rarefatti.

Fu un «mistico veggente», come lo definiva Bernard Berenson, colto fino alla ricercatezza e dotato, anche, di poteri taumaturgici. «Un’arte magica — come osservava lo scrittore Romain Rolland ammirando le riproduzioni dei suoi quadri sulla rivista russa Apollon — di fronte alla quale si prova la stessa sensazione di quando, addormentandoci all’improvviso, ci sembra di volare».

E in questa sorta di sogno a occhi socchiusi, ecco apparire gli angeli, custodi meditabondi di paesaggi che adombrano una modernità addirittura industriale. «Quegli angeli sembrano vegliare su città antiche ma anche futuribili, sono Babilonia e Gerusalemme, metropoli celesti e città-macchine silenziose come cimiteri arcaici», spiega Romanelli, indicando l’incredibile tela notturna con creatura alata intitolata Demonio: una cornice di cipressi böckliniani alternati a colonne doriche e torri di Babele che custodisce una figura oscura con grandi ali da pipistrello.

Sarà il demonio, ma a noi pare una prefigurazione di Batman, il Cavaliere oscuro. E come non accostare a Gotham City, teatro delle imprese del supereroe della DC Comics, la New York livida e saettante dall’acqua nera della baia, dipinta nel 1930 da Gennaro Favai dal ponte del piroscafo Conte Rosso? La mostra arriva in porto con questo quadro omaggio al film Metropolis (1927) di Fritz Lang, che a sua volta ebbe la visione del capolavoro mentre stava sbarcando a New York per la prima dei Nibelunghi .

«La mostra — conclude Giandomenico Romanelli — vuole cogliere e percorrere lo spazio di mezzo , il tempo contrastato e irripetibile in cui la modernità si mostra come in visioni e illuminazioni che ciascuno interpreta sotto la specie di rivelazioni di forme e colori, di temi e soggetti dominati da una travolgente forza visionaria». 



Il Corriere della sera - 19 febbraio 2015

Nessun commento:

Posta un commento