La
lettura di Cesare Pavese è fonte di continue illuminazioni. Leggerlo
(e ancor più rileggerlo) è un percorso verso la comprensione di sé
e del mondo. Per questo è un classico.
Pasquale Briscolini
“Pieretto”
Ovvero sulla
creatività, la coscienza di classe, l’amore per la libertà …
A ciascuno di noi è
sicuramente capitato di farsi qualche domanda sulla creatività e sul
suo significato. Domande del tipo: ma le persone si dividono davvero
in due grandi categorie, quelle che hanno fantasia, sono creative e
si dedicano prevalentemente all’arte; e poi tutte le altre, che si
dedicano alle normali attività di tutti i giorni? O piuttosto ognuno
di noi ha la sua parte di creatività, chi più chi meno, ovviamente,
e la esercita nei modi più svariati anche nelle attività generiche,
senza che per questo debba dipingere un quadro di colline o modellare
una forma con l’argilla? Forse anche Guccini è un po’ di questa
(seconda) idea quando dice, nella canzone “Artisti” dell’ultimo
CD: “Gli artisti non nascono artisti, non sembrano strani
animali ma nascono un po' come tutti, come individui
normali.”.
Pavese è ancora più
esplicito sulla questione: per lui Pieretto è come chi scrive un
romanzo o, meglio ancora, è chi scrive un romanzo che in realtà fa
la stessa cosa di Pieretto. Sentiamo: (1)
“Eravamo all’osteria
in parecchi, e c’era anche Masino. Si parlò di Pieretto che la
ragazza era venuta a prendere, e mancava da un’ora.
- Domani ci racconta quel che ha fatto e che ha detto, - borbottò Masino, e ridevamo. – Lui si diverte a raccontarle più che a farle.
- Come quelli che scrivono, - dissi. – Tu, Masino, volevi sapere come si scrivono i romanzi. Così. Ci si ritira e si va a spasso. Si fa finta di niente. Poi si torna e si racconta qualcosa. Non quello che è stato. Qualcosa di meno e qualcosa di più. Così si scrivono i romanzi.
- Sta a vedere che Pieretto è un grand’uomo, - disse un altro di noi, di punto in bianco. – Se ti sentisse, non lo tieni più.
Lasciai che Masino gli
facesse gli occhiacci. Poi dissi che non tutti volendo sanno scrivere
un libro, ma che il primo requisito è di saperlo inventare, come
Pieretto quando inventa i fatti suoi. Spiegai che un libro è tutto
fatto di quel che l’autore vorrebbe e non è, di quel che lo
diverte, che lui pensa di notte. Pieretto – dissi – si diverte
anche quando racconta che Marì gli ha dato un cane. Poi t’inventa
che è stato con lei chissà dove, che hanno fatto baldoria, che ha
rotto le costole a un tale che voleva portargliela via. Cosa c’è
di diverso da questo a un romanzo?
Il punto, anzi il primo
requisito – dice Pavese – è di sapere inventare. Per farlo, è
necessario muoversi su un filo di rasoio tra quello che uno vorrebbe
essere e non è, su quello che lo diverte o che ha nei suoi pensieri
più profondi, di notte….
Ma Pavese lascia
intravvedere in profondità uno dei problemi che gli stanno a cuore –
e con lui stanno a cuore a tutta una classe di scrittori e di
intellettuali di quel periodo – e cioè il loro “ruolo politico”.
E’ a Masino che fa porre la questione:
“Masino disse: - Ma un
romanzo deve solo divertirti o essere ben scritto? Raccontarti le
fandonie di Pieretto o la vita che fa il popolo?
- Chi è il popolo, Masino? Popolo sei tu, sono io, è Pieretto. Se le racconta troppo grosse gli puoi dire di piantarla, e parli d’altro. Non ti diverti più. Neanche lui si diverte se si mette a parlare di quel che non sa. Ma quando racconta dei trucchi che Marì gli combina e si vanta di averla portata nei prati, sta’ tranquillo che sa quel che dice. Se la gode così. Scrivere bene vuol dire questo. Raccontare qualcosa che vorresti e non hai. Quello che hai già non lo racconti. Te lo tieni.
Ecco definirsi quello
che, secondo lui, è il ruolo autentico della scrittore: deve in
sostanza essere credibile, raccontare di quello che sa, che sente,
che ama, che non ha ma vorrebbe. Se bara e parla di quel che non sa,
“tu te ne accorgi subito e non ti diverti più, ma anche lui non si
diverte più”. Ma se non bara, se è autentico, quello che racconta
va tutto bene, perché ognuno di cui parla è popolo: il popolo è
ognuno di noi, ogni persona. Ma questo non è proprio facile da
capire e poi, naturalmente, Pavese nel racconto mantiene un livello
di leggerezza e di sottile ironia con i vari personaggi. Ecco allora
che:
“Masino si mise a
gridare.
- Tu sei matto, - diceva. – Mi hai sempre spiegato che si parla soltanto di quello che esiste. Esiste il popolo, esiste una coscienza di classe. Di che cos’altro vuoi parlare?
- Masino, Masino, tu dove la tieni la coscienza di classe?
- Pochi ce l’hanno, - disse uno.
- Tocca a quelli che l’hanno svegliarla negli altri.
E allora, - dissi, - vedi
bene che quello che esiste non c’è. E se si deve, com’è giusto,
parlarne, capisci che il bello anche qui è di supporlo. Quando
tutti l’avranno, si parlerà d’altro. La coscienza di classe è
l’esigenza, la mancanza di qualcosa che si cerca di avere lavorando
e parlandone. Anche tu, non l’hai mica dal mattino alla sera. Il
difficile è questo: bisogna averla e non averla, per saperne
parlare.
Masino è concreto e gli
dice – anzi gli ricorda di essere stato lui a dirlo – che bisogna
parlare solo di ciò che esiste. Allora, siccome esiste il popolo ed
esiste la coscienza di classe, è di questo che occorre parlare e
raccontare! Però il discorso si complica perché di coscienza di
classe – che pure esiste – in giro ce n’è poca o non c’è
affatto. Succede allora che se ne debba parlare proprio per fare in
modo che ci sia, e che quando tutti l’avranno non ci sarà più
questo bisogno. Masino è perplesso:
- “Eh?”
Si tocca qui, con qualche
rapido cenno evocativo di cui Pavese è maestro, un aspetto molto
importante dell’animo umano che condiziona tutti i nostri
comportamenti: ognuno di noi è particolarmente attratto da quello
che non ha e che vorrebbe avere; soprattutto se è qualcosa che altri
hanno. Ma ognuno di noi ha certamente sperimentato, in qualche
occasione, la caduta dell’interesse una volta raggiunto
quell’obiettivo. Si potrebbe parlare di “abitudine”, come se ci
succedesse, “abituandoci” a qualcosa che pure avevamo molto
desiderato o bramato di avere, quasi di non sentirne più il valore o
di sentirlo in un modo molto attenuato.
Il consumismo ha poi
certamente esasperato questo nostro atteggiamento innato, rendendo
più labile e di più breve durata il legame affettivo che abbiamo
con le cose e anche con le persone. Il consumismo si basa infatti sul
“potere ipnotico-seduttivo dell’oggetto di godimento offerto
illimitatamente dal mercato” (2)
La sensazione
dell’abitudine, che provoca la caduta dell’interesse e del legame
affettivo, può riguardare cose poco importanti – un oggetto,
un’automobile ad esempio – ma anche altre di importanza ben
superiore e anche non confrontabile:
- “Prendi la libertà. Chi vive libero, non sa più cosa sia. Vive libero e basta. Ma per averci la passione, per saperne parlare, bisogna che te l’abbiano tolta, e che tu la desideri. Così ce l’hai, ti esiste dentro, ma intanto ti manca e lavori per lei.”
Quasi settant’anni
dopo, nel 2014, Massimo Recalcati nel libro appena ricordato sviluppa
in modo approfondito il legame inscindibile fra il limite (la legge,
l’ostacolo) e il desiderio, che “sono necessariamente presi in
un’articolazione simbolica: senza il desiderio la legge si
insterilisce e diviene una mummia in difesa di un sapere morto, ma
senza la Legge il desiderio si frammenta e diventa puro caos” (3).
In quel caso il discorso riguarda la Scuola e l’educazione, ma è
evidente il suo significato generale, così come è evidente la
profondità dell’accenno di Pavese e il suo guardare molto, ma
molto, avanti con i tempi.
- Sta’ a vedere che dobbiamo dir grazie a quei porci.
- Ringrazia il digiuno che ti mette appetito. Ma, parlando di scrivere, non è mica che tu deva star apposta digiuno per avere uno stile più intonato. Pensa un poco a Pieretto: che cosa non darebbe per andarci davvero nei prati, e fare tutte quelle cose che racconta. Così è degli argomenti dei libri: lo scrittore, se è un uomo genuino, deve volere a tutti i costi che la vita sia più bella, più felice, più giusta. Deve fare quanto può da parte sua per non fermarsi all’esigenza, ma lavorare con gli altri e prender parte alla lotta. Che apprezzi la libertà soltanto chi ne è senza, non vuol dire che non si deva far di tutto per conquistarla. E si va di conquista in conquista. Ma, ti dico, un bel libro è sempre pieno di voglie rientrate, di sforzi, di delusioni, di cose che ti mancano. Uno gode soltanto a immaginarsi quel che non ha. E scrive bene, ti dà gusto, solamente chi ha scritto godendo.
Questa frase, relativa a
“chi ha scritto godendo”, fa correre il pensiero a quello che
Pavese scriverà tre anni e mezzo dopo, alla fine del 1949, e cioè
“La luna e i falò”. In quel “racconto poetico” – di cui
un critico dirà: “Pavese ha lavorato con spaventosa felicità sui
personaggi e lo stile” – ci sono parti nelle quali “si sente
forte” il godimento dell’autore nello scrivere. In quelle parti è
anche più forte il legame fra l’autore e il lettore, a conferma
dell’idea che in una comunicazione tra due persone quello che
“passa” veramente, il vero collante della comunicazione/comunione
è proprio il legame affettivo tra chi parla (o scrive) e la cosa di
cui parla. Infatti Pavese dirà tra un momento che, se di una cosa
non t’importa, “farai meglio a parlare di quel che t’importa”:
“Qui ci calmammo, e ci
bevemmo sopra.
- Lo sapesse Pieretto, - disse Milio, - che gli dai tanto credito e che un compagno come te lo prende ad esempio.
- Lui non parla davvero di coscienza di classe, - disse un altro-
Masino taceva. Io sapevo
che cosa pensava.
Dissi: - E’ per questo
che per scrivere bisogna conoscersi bene e cavarsi le idee dal
midollo. Bisogna raccogliersi e lasciare che quello che sei venga a
galla, i tuoi gusti, le tue voglie, i tuoi bisogni. Non puoi mica
parlare del primo capriccio. Se non hai la coscienza di classe, se
non t’importa d’averla, farai meglio a parlare di quel che
t’importa. Tutti abbiamo qualcosa nel sangue, che salta su solo a
pensarci. E tutto quello che è sincero, che è la voce di un uomo,
val la pena di starlo a sentire…
Masino alzò la testa- -
Hai anche ragione, - disse. – Ma se scrive bene solamente chi
scrive godendo, l’hai detto tu, come va che son famosi certi
scrittori che non fanno che lamentarsi? Per esempio il Leopardi,
Giacomo, o i tisici, i disgraziati. Ce n’è un mucchio. Anche
Pieretto si lamenta alle volte.
Qualcuno rideva. Ridemmo
tutti.
- Prendi la musica, - dissi. – Perché è la stessa cosa fare un bel libro o fare un’opera. Prendi la Traviata o la Bohème. O anche soltanto una canzone malinconica. Ebbene, è qui l’abilità. Credi che il musicista fosse disperato quando lavorava? Neanche per idea. Aveva e non aveva anche lui. Siamo al punto di prima. Si metteva nei panni di chi è disperato – gli mancava la donna, l’appetito, la pace – desiderava le cose, le voleva, e quel che trovava era la soddisfazione di dir questo, di dirlo bene, di farne venir voglia a tutti quanti. Se gli avessi chiesto mentre componeva: - Vuoi la donna, vuoi la pace, vuoi la salute? – ti avrebbe risposto: - Prima lascia finire. Mi piace troppo così.”.
“Avere e non avere”:
Pavese insiste spesso su questa “sospensione”. In una pagina del
Diario (4) dice “Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra
due opposti”, esprimendo così il concetto in una forma più
generale, astratta, che poi esplicita spesso con esempi concreti.
Un altro aspetto comune a
tutti gli interventi pubblici di Pavese in questo inizio del 1946 è
il suo atteggiamento insolitamente positivo, un clima comunicativo e
di fiducia. E’ un momento nel quale tenta, in tutti i modi, di
“inserirsi concretamente nella società” e sembra aver fiducia di
poterci riuscire. Così, in questi articoli per l’Unità, crea
sempre un clima positivo nel quale dialogano persone che hanno
fiducia una dell’altra, e che si vogliono bene. Nel fluire di
questi dialoghi inserisce poi gli aspetti della società, e delle
relazioni tra gli uomini, che più gli stanno a cuore e che vuol dire
in qualche modo, di solito attraverso la voce di qualcuno dei
personaggi che dialogano.
Perché - dice Calvino
(a proposito dei romanzi di Pavese, ma lo si può intendere in
generale) -“Ogni romanzo di Pavese ruota intorno a un tema
nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire
e che si può dire solo tacendola”.(5)
Negli interventi pubblici
di questo periodo possiamo dire che Pavese è un po’ meno ellittico
e più esplicito. Non rinuncia a dire quello che sente di dover dire
in questo momento di rinascita del paese dopo la tragedia, rinascita
in cui cerca di giocare anche le proprie possibilità, ma prevale la
leggerezza e il clima goliardico, tra compagni:
- A me, - disse Milio, - sentirvi discorrere leva la voglia di leggere. Però la Traviata mi piace. Mi piace anche la Bohème. E sono d’accordo che scriverla dev’essere stato un piacere. Ma leggere è diverso. Si legge per capire le cose. Cos’ha scritto quel Giacomo che dicevi?
In quel momento entrò
Pieretto, aggiustandosi la cravatta. Tutti gridarono. Io dissi a
Milio: - Chiediamolo a lui. Vedrai che qualcosa ci dice.
Masino alzò le spalle.
Pieretto rideva già.
1. C. Pavese, Pieretto,
pubblicato su “L’Unità” di Torino, 19 maggio 1946
2. M. Recalcati, L’ora
di lezione, Einaudi, Torino, 2014, pg. 12
3. Ibidem, pg. 23
4. Il mestiere di vivere,
14 dicembre 1939
5. Perché leggere i
classici, Mondadori, MI, 1995, pg. 288
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