Francesco De Sanctis (1817 - 1883)
Si stenta ancora a riconoscere una verità intuita fin dal V sec. A.C.da Socrate: più si sa, più si sa di non sapere. Non c'è campo del sapere umano che possa smentire l'antica affermazione socratica.
Per quanto riguarda le origini della nostra letteratura l'articolo seguente dà conto di alcune recenti scoperte. Ma, naturalmente, la questione rimane aperta. (fv)
«Il più antico documento della nostra letteratura»
di Claudio Giunta
«Il più antico documento della nostra
letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di
Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di
Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana.
Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe
subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della
nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva
De Sanctis.
Sappiamo intanto che la cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente creduta»
ai tempi di De Sanctis, e che non ci sono ragioni per attribuire a
Cielo (non Ciullo) d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero da Siena, il
ruolo dell’iniziatore. Sappiamo che esistono testi in versi di argomento
religioso-devozionale che risalgono all’ultimo quarto del dodicesimo
secolo o al primo quarto del tredicesimo (e uno di questi testi, per
quanto atipico, è poi il Cantico delle creature di san
Francesco). Ma sappiamo anche che le strade della poesia profana furono
meno lineari di quanto s’immaginasse non solo sino a De Sanctis ma sino a
una quindicina d’anni fa, perché i filologi hanno trovato, frattanto,
testi poetici databili agli ultimi decenni del secolo XII o ai primi del
XIII in aree eccentriche rispetto a quelle in cui nasce e si sviluppa,
nel secondo quarto del Duecento, la tradizione cosiddetta ‘siciliana’:
si tratta, precisamente, della canzone Quando eu stava scoperta da Alfredo Stussi in un’antica pergamena ravennate, e del frammento piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela (2005).
Ora il quadro cambia di nuovo, e non per
un dettaglio, perché Nello Bertoletti ha scoperto (non in un archivio
ma tra le carte di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana) e
pubblicato un nuovo testo poetico delle origini che comincia così:
Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
ch’a mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po’ la note fox veiota.
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
ch’a mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po’ la note fox veiota.
Ovvero, nella traduzione offerta dallo
stesso Bertoletti: «Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso,
signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non
l’ho visto, da quando si è vista la notte». Il testo prosegue per altre
quattro stanze, nelle quali l’io poetico, dopo aver invocato Dio, si
rivolge a un «Bè conpagnó», cioè a un «Bel compagno», invitandolo a
svegliarsi, perché l’alba si avvicina.
Alba è appunto il nome del
genere poetico a cui questo testo appartiene, genere (o piuttosto
motivo) diffuso in molte letterature, ma da un lato poco o nulla
presente in quella italiana (giusto qualche traccia nel Duecento, nei
cosiddetti Memoriali bolognesi), dall’altro invece vitalissimo
fra i trovatori, cioè tra quei poeti che vissero nella Francia
meridionale, e successivamente anche nell’Italia del nord, tra la fine
del secolo XI e la fine del secolo XIII.
Ebbene, quali sono i motivi d’interesse di questa inedita alba?
Molti, a cominciare dall’epoca in cui è stata scritta. Al centro della
medesima carta sulla quale è trascritto il testo si legge infatti una
data, «Millesimo Ducentesimo Trigesimo nono», cioè 1239: e Bertoletti
mostra in maniera molto convincente (confortato anche dalla perizia
paleografica di Antonio Ciaralli) che questa data è stata vergata in un
momento successivo alla trascrizione di Aiuta De’: il 1239 rappresenta dunque un sicuro termine ante quem per la composizione e la copia del nostro testo, che sarà pertanto almeno sincrono rispetto alle poesie che in quegli anni venivano composte, molti chilometri più a sud, alla corte di Federico II.
Un altro motivo d’interesse è la
pertinenza geografica del testo. I quattro versi citati sono difficili
da capire perché non sono scritti nel limpido toscano, o nel siciliano
toscanizzato, dei grandi poeti del Duecento che si leggono a scuola, ma
in un dialetto settentrionale. Ora, buona parte degli sforzi di
Bertoletti sono appunto rivolti a precisare di quale dialetto
settentrionale si tratti, e al termine di un’analisi davvero esemplare
per ampiezza e rigore Bertoletti conclude che l’origine del testo va
ricondotta con ogni probabilità al Piemonte, e forse al Piemonte
meridionale, cioè a un’area compresa «tra l’Oltregiogo ligure, le
Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato». Dato interessantissimo: da un
lato perché di poesia scritta in un volgare assegnabile al basso
Piemonte non s’era mai scoperta traccia sino ad ora; e dall’altro perché
il basso Piemonte non era però, nel primo Duecento, una regione in cui
mancassero i poeti: solo che scrivevano e cantavano non nel volgare
locale bensì in lingua occitana.
Col che veniamo al terzo (e forse maggiore) motivo d’interesse della scoperta di Bertoletti. Aiuta De’ non è un testo originale bensì la traduzione di una celebre alba del trovatore Giraut de Borneil, quello che Dante nel De vulgari eloquentia indica come esemplare della ‘poesia della rettitudine’. L’alba di Giraut ha però un incipit diverso, comincia infatti Reis glorios, verays lums e clardatz (dove il Re glorioso
è appunto Dio), né – come Bertoletti documenta minuziosamente nel suo
commento – è questa l’unica licenza che il traduttore piemontese si
prende nei confronti del suo testo-modello. Ma dimostrato che, comunque,
di traduzione si tratta, il fuoco della ricerca si concentra appunto
sul testo-modello e sulla sua folta tradizione manoscritta: a quale ramo
di questa tradizione apparteneva il manoscritto che il poeta-traduttore
piemontese aveva di fronte a sé, ovvero quale ‘versione’ di Reis glorios leggeva costui?
Ed ecco l’ultima sorpresa: perché la
tradizione a cui mostra di attingere il nostro poeta-traduttore è la
stessa a cui attingerà il canzoniere (assai più tardo) che i
provenzalisti conoscono come T, canzoniere cruciale anche per la
letteratura italiana perché fu probabilmente attraverso un manoscritto
simile a T che Giacomo da Lentini e gli altri siciliani fecero
conoscenza con la poesia trobadorica. Non solo: è anche la medesima
tradizione alla quale attinse l’anonimo copista siciliano di un altro manoscritto latore di Reis glorios,
oggi conservato a Monaco di Baviera. La conclusione di Bertoletti è
sobria (com’è sobrio, misuratissimo, tutto questo suo splendido lavoro),
ma darà certo materia di riflessione agli specialisti: «avremmo quindi
la traccia concreta della trasmissione di un testo trobadorico [Reis glorios] dalla Provenza alla Sicilia attraverso una mediazione italiana nordoccidentale (piemontese), anziché veneta».
Claudio Giunta, 15 febbraio 2015
Testo tratto da http://www.leparoleelecose.it/
Nello Bertoletti, Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil, con una nota paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2014.
Il volume è acquistabile direttamente dall’editore sul sito www.storiaeletteratura.it
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