15 febbraio 2015

Dibattito aperto sulle origini della letteratura italiana

Francesco De Sanctis (1817 - 1883)



Si stenta ancora a riconoscere una verità intuita fin dal V sec. A.C.da Socrate: più si sa, più si sa di non sapere. Non c'è campo del sapere umano che possa smentire l'antica  affermazione socratica. 
Per quanto riguarda le origini della nostra letteratura l'articolo seguente dà conto di alcune recenti scoperte. Ma, naturalmente, la questione rimane aperta. (fv)

«Il più antico documento della nostra letteratura»


di Claudio Giunta

«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
Sappiamo intanto che la cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente creduta» ai tempi di De Sanctis, e che non ci sono ragioni per attribuire a Cielo (non Ciullo) d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero da Siena, il ruolo dell’iniziatore. Sappiamo che esistono testi in versi di argomento religioso-devozionale che risalgono all’ultimo quarto del dodicesimo secolo o al primo quarto del tredicesimo (e uno di questi testi, per quanto atipico, è poi il Cantico delle creature di san Francesco). Ma sappiamo anche che le strade della poesia profana furono meno lineari di quanto s’immaginasse non solo sino a De Sanctis ma sino a una quindicina d’anni fa, perché i filologi hanno trovato, frattanto, testi poetici databili agli ultimi decenni del secolo XII o ai primi del XIII in aree eccentriche rispetto a quelle in cui nasce e si sviluppa, nel secondo quarto del Duecento, la tradizione cosiddetta ‘siciliana’: si tratta, precisamente, della canzone Quando eu stava scoperta da Alfredo Stussi in un’antica pergamena ravennate, e del frammento piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela (2005).
Ora il quadro cambia di nuovo, e non per un dettaglio, perché Nello Bertoletti ha scoperto (non in un archivio ma tra le carte di un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana) e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini che comincia così:

Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
ch’a mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po’ la note fox veiota.

Ovvero, nella traduzione offerta dallo stesso Bertoletti: «Sii d’aiuto Dio, vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista la notte». Il testo prosegue per altre quattro stanze, nelle quali l’io poetico, dopo aver invocato Dio, si rivolge a un «Bè conpagnó», cioè a un «Bel compagno», invitandolo a svegliarsi, perché l’alba si avvicina.
Alba è appunto il nome del genere poetico a cui questo testo appartiene, genere (o piuttosto motivo) diffuso in molte letterature, ma da un lato poco o nulla presente in quella italiana (giusto qualche traccia nel Duecento, nei cosiddetti Memoriali bolognesi), dall’altro invece vitalissimo fra i trovatori, cioè tra quei poeti che vissero nella Francia meridionale, e successivamente anche nell’Italia del nord, tra la fine del secolo XI e la fine del secolo XIII.
Ebbene, quali sono i motivi d’interesse di questa inedita alba? Molti, a cominciare dall’epoca in cui è stata scritta. Al centro della medesima carta sulla quale è trascritto il testo si legge infatti una data, «Millesimo Ducentesimo Trigesimo nono», cioè 1239: e Bertoletti mostra in maniera molto convincente (confortato anche dalla perizia paleografica di Antonio Ciaralli) che questa data è stata vergata in un momento successivo alla trascrizione di Aiuta De’: il 1239 rappresenta dunque un sicuro termine ante quem per la composizione e la copia del nostro testo, che sarà pertanto almeno sincrono rispetto alle poesie che in quegli anni venivano composte, molti chilometri più a sud, alla corte di Federico II.
Un altro motivo d’interesse è la pertinenza geografica del testo. I quattro versi citati sono difficili da capire perché non sono scritti nel limpido toscano, o nel siciliano toscanizzato, dei grandi poeti del Duecento che si leggono a scuola, ma in un dialetto settentrionale. Ora, buona parte degli sforzi di Bertoletti sono appunto rivolti a precisare di quale dialetto settentrionale si tratti, e al termine di un’analisi davvero esemplare per ampiezza e rigore Bertoletti conclude che l’origine del testo va ricondotta con ogni probabilità al Piemonte, e forse al Piemonte meridionale, cioè a un’area compresa «tra l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato». Dato interessantissimo: da un lato perché di poesia scritta in un volgare assegnabile al basso Piemonte non s’era mai scoperta traccia sino ad ora; e dall’altro perché il basso Piemonte non era però, nel primo Duecento, una regione in cui mancassero i poeti: solo che scrivevano e cantavano non nel volgare locale bensì in lingua occitana.
Col che veniamo al terzo (e forse maggiore) motivo d’interesse della scoperta di Bertoletti. Aiuta De’ non è un testo originale bensì la traduzione di una celebre alba del trovatore Giraut de Borneil, quello che Dante nel De vulgari eloquentia indica come esemplare della ‘poesia della rettitudine’. L’alba di Giraut ha però un incipit diverso, comincia infatti Reis glorios, verays lums e clardatz (dove il Re glorioso è appunto Dio), né – come Bertoletti documenta minuziosamente nel suo commento – è questa l’unica licenza che il traduttore piemontese si prende nei confronti del suo testo-modello. Ma dimostrato che, comunque, di traduzione si tratta, il fuoco della ricerca si concentra appunto sul testo-modello e sulla sua folta tradizione manoscritta: a quale ramo di questa tradizione apparteneva il manoscritto che il poeta-traduttore piemontese aveva di fronte a sé, ovvero quale ‘versione’ di Reis glorios leggeva costui?
Ed ecco l’ultima sorpresa: perché la tradizione a cui mostra di attingere il nostro poeta-traduttore è la stessa a cui attingerà il canzoniere (assai più tardo) che i provenzalisti conoscono come T, canzoniere cruciale anche per la letteratura italiana perché fu probabilmente attraverso un manoscritto simile a T che Giacomo da Lentini e gli altri siciliani fecero conoscenza con la poesia trobadorica. Non solo: è anche la medesima tradizione alla quale attinse l’anonimo copista siciliano di un altro manoscritto latore di Reis glorios, oggi conservato a Monaco di Baviera. La conclusione di Bertoletti è sobria (com’è sobrio, misuratissimo, tutto questo suo splendido lavoro), ma darà certo materia di riflessione agli specialisti: «avremmo quindi la traccia concreta della trasmissione di un testo trobadorico [Reis glorios] dalla Provenza alla Sicilia attraverso una mediazione italiana nordoccidentale (piemontese), anziché veneta».
Claudio Giunta,   15 febbraio 2015

Testo tratto da http://www.leparoleelecose.it/

 Nello Bertoletti, Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil, con una nota paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2014.
 Il volume è acquistabile direttamente dall’editore sul sito www.storiaeletteratura.it

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