Sul capolavoro di Vincenzo Consolo (1933 - 2012) tanto è stato scritto. Un mio carissimo amico, Nicolò Messina, ha dedicato gli anni migliori della sua vita a un monumentale studio analitico della sua genesi.
Il pezzo che pubblichiamo oggi non ha tante pretese, ma riassume in modo chiaro alcuni dei temi e problemi affrontati dal libro.
La vicenda unitaria fu un processo
complesso e contraddittorio e molti grandi scrittori italiani, ciascuno
dalla sua ottica, ciascuno nella sua epoca, hanno raccontato negli anni
che seguirono l’Unità d’Italia le speranze e le delusioni di un popolo
che ci aveva creduto. Nel filone della letteratura meridionalista (De
Roberto, Verga, Pirandello) si inserisce un romanzo, scritto da Vincenzo
Consolo e pubblicato per la prima volta nel 1976, che racconta in un
modo estremamente innovativo un episodio legato alla vicenda dello
sbarco dei mille, rileggendola programmaticamente in funzione del
presente. Il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la
generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e
sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e
del terrorismo. In quest’ottica scrivere un romanzo storico, annodandolo
intorno a un episodio decisivo del Risorgimento, aveva per Consolo un
preciso significato. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio si ricostruisce la
rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcara li Fusi,
all’indomani dello sbarco dei mille. Simile a quella di Bronte,
raccontata da Verga nella novella Libertà, antecedente ad essa ma molto
meno conosciuta, a cui il romanzo di Consolo si ricollega esplicitamente
(“sconfitti nel loro paese, andavano altrove a continuare la lotta”).
Tutto in questo romanzo concorre a farne
una metafora del presente. Il soggetto del quadro di Antonello da
Messina, il sorriso dell’ignoto marinaio, è il simbolo di una cultura
distaccata dal dolore della Storia. Simbolica è anche la scelta della
struttura narrativa disarticolata. Oggi l’uso di costruire romanzi
inserendo nel testo documenti autentici o come fa Camilleri – che di
Consolo si è spesso dichiarato tributario – documenti inventati ma
verosimili che mimano perfettamente lo stile e il linguaggio burocratico
(La concessione del telefono, Il nipote del Negus) è
abbastanza diffuso. Ma negli anni ’70 quel tipo di struttura narrativa
appariva una scelta sperimentale e di rottura rispetto al romanzo
storico tradizionale. I documenti d’archivio, da Manzoni in poi, sono
alla base del romanzo storico ma nelle intenzioni dell’autore
l’alternanza del racconto con inserti documentari (atti processuali,
cronache), significava rinunciare volutamente a una forma compatta e
armoniosa, per rispondere a due precise esigenze: dare forza di verità
storica al romanzo e insieme creare nel lettore un effetto di
straniamento per esprimere l’impossibilità di adattarsi alla società a
lui contemporanea.Consolo aveva ben presente la polemica suscitata in
quegli anni dal film di Florestano Vancini, Bronte: cronaca di un massacro,
che per la prima volta ricostruiva l’episodio mostrando come la brutale
repressione fosse stata perpetrata dal generale garibaldino Nino Bixio
nella consapevolezza che la rivolta avesse il carattere di una
rivoluzione proletaria. La critica “reazionaria e conservatrice”
tenacemente attaccata alla sacralità dei fatti e delle figure del
Risorgimento, bollò allora come un “ridicolo falso storico” il film.
Convinto sostenitore della tesi di
Vancini, forte della conoscenza dei 19 volumi degli atti del processo
dei condannati di Bronte da cui aveva personalmente tratto più di 700
schede, Consolo scrisse questo romanzo anche nell’intento di suffragare,
con riscontri documentari, l’interpretazione data a quegli eventi dal
film. Alla scelta di una struttura narrativa diversa da quella
tradizionale si ricollega anche quella di rinunciare al narratore
onniscente di manzoniana memoria e la verità emerge attraverso una
pluralità di punti di vista. Non è un libro facile da leggere, Il
sorriso dell’ignoto marinaio, ma è estremamente suggestivo (e siccome
non è lungo, appena 171 pagine, vale la pena tentarci). Il lettore è
indotto a scoprire la verità in maniera alogica, attraverso
l’intuizione. Più che un romanzo è un’opera poetica. La strage dei
contadini non è raccontata ma ne vengono descritti gli effetti
devastanti attraverso l’inserzione delle didascalie delle acqueforti di
Goya, I Disastri della guerra, segnalate nel testo dal corsivo. Carrettata per il cimitero (pg.
132) richiama alla mente il celebre episodio manzoniano del Lazzaretto,
facendo scattare una straniante identificazione demolitoria tra i
monatti in divisa rossa e i garibaldini.
E poi c’è l’uso della lingua, un vero e
proprio impasto linguistico al servizio di un messaggio di polemica
sociale. La lingua nazionale è per Consolo la lingua del Potere, è la
lingua scritta dei documenti ufficiali che condannano a morte i
contadini rivoltosi di Alcara Li Fusi. Questi ultimi, invece, parlano in
dialetto. Più precisamente, in una variante minoritaria solo parlata, a
sottolineare la marginalità degli umili e la negazione della memoria:
il punto di vista dei contadini “traditi da Garibaldi” non lascerà
traccia negli archivi ufficiali. Per Consolo la lingua nazionale era,
nel momento in cui scriveva, uno strumento di colonizzazione. Rifiutarla
assumeva il valore simbolico di contestazione della politica di
integrazione nord-sud, portata avanti dalla democrazia cristiana in
quegli anni. C’è però da domandarsi: se Consolo avesse scritto oggi
quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe
utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale-dialetti come
simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale? Ridotta com’è a
pura esaltazione dell’elemento locale, strumento di divisione tra i
cittadini italiani e di respingimento dei popoli altri da noi?
Sandra Mereu
da http://unaltrasestu.com/2011/08/11
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