18 febbraio 2015

LA VITA DI WISLAWA SZYMBORSKA



Wislawa Szym­bor­ska, vita, poesie, collage e cianfrusaglie


- Roberta Scorranese, La poetessa dei collage che ha anticipato i tweet, Corriere della sera, Sette, 13 febbraio 2015, p. 30.
Valentina Parisi, Cianfrusaglie sintomatiche di una vita, Il manifesto, Alias domenica,  8 febbraio 2015 (che vi riporto per intero qui sotto)
Potete vedere alcuni suoi collage QUI (cliccare ogni volta sull’immagine per andare a quella seguente), QUI e QUI.
Il libro: Anna Bikont, Joanna Szczęsna, Cian­fru­sa­glie del pas­sato La vita di Wislawa Szym­bor­ska, ora tra­dotta e curata per Adel­phi da Andrea Cec­che­relli (pp. 455,euro 28,00).
collage di collage, immagine presa da QUI
da Alias-domenica
Cianfrusaglie sintomatiche di una vita
Valentina Parisi,
Classici moderni. Prima e dopo il Nobel: la ricostruzione della preistoria politica e letteraria della poetessa, scritta da Anna Bikont e Joanna Szczesna



In una lirica del 1986 inti­to­lata Scri­vere il cur­ri­cu­lum, Wislawa Szym­bor­ska deplo­rava il fatto che quello (pseudo) genere let­te­ra­rio che è il cv sot­to­po­nesse l’incommensurabilità dell’esistenza a una sele­zione emi­nen­te­mente pra­tica e per­tanto mor­ti­fi­cante: «Di tutti gli amori basta quello coniu­gale, e dei bam­bini solo quelli nati (…) / Sor­vola su cani, gatti e uccelli, cian­fru­sa­glie del pas­sato, amici e sogni». Né meno sospetta doveva sem­brarle la forma (auto)biografica, dal momento che in un’altra poe­sia, Il 16 mag­gio 1973, lamen­tava di non ser­bare alcun ricordo di quel giorno in par­ti­co­lare, mal­grado l’avesse incon­te­sta­bil­mente vis­suto. «Una delle tante date / che non mi dicono più nulla. / Dove sono andata quel giorno, / che cosa ho fatto – non lo so».
Di fronte all’impossibilità mani­fe­sta di resu­sci­tare sia pure un secondo di quelle gior­nate sva­nite, simili ormai a sem­plici «pun­tini tra paren­tesi», le sarà parsa tanto più risi­bile l’ambizione nutrita dai suoi aspi­ranti bio­grafi di riu­scire a trarre da quelle eclissi par­ziali della memo­ria una nar­ra­zione cro­no­lo­gica ordi­nata e veri­tiera. Eppure non erano tanto con­si­de­ra­zioni di natura razio­nale a indurre l’autrice a opporre una resi­stenza gar­bata quanto stre­nua a chi, con cre­scente insi­stenza, la sup­pli­cava di enu­me­rare fatti, date e volti di una vita rigo­ro­sa­mente appar­tata. Die­tro il suo riserbo si intra­ve­deva il timore che allo sve­la­mento este­riore di sé potesse cor­ri­spon­dere un ina­ri­dirsi del pro­prio Io, impe­den­dole per sem­pre di espri­mersi nell’unica tona­lità a lei dav­vero cara: quella lirica.
Fie­ra­mente con­tra­ria a un’interpretazione «bio­gra­fica» dei suoi com­po­ni­menti, Szym­bor­ska si guar­dava bene dall’elargire ai let­tori qua­lun­que det­ta­glio sul pro­prio pas­sato che potesse invo­lon­ta­ria­mente suf­fra­garla. Alla luce di que­sta innata ritro­sia è dun­que tanto più signi­fi­ca­tivo l’aiuto for­nito dalla poe­tessa alle gior­na­li­ste Anna Bikont e Joanna Szc­ze­sna per deli­neare (sia pur con ampio uso dello sfu­mato) quei set­tan­ta­tré anni di vita pre­ce­dente al Nobel che la doz­zina scarsa di inter­vi­ste rila­sciate fin lì non basta­vano certo a illu­mi­nare. Forse a smuo­vere Wislawa Szym­bor­ska fu non solo l’acribia pro­fusa dalla due autrici nel rico­struire il suo albero genea­lo­gico, ma anche la tena­cia pros­sima alla dispe­ra­zione con cui ave­vano pas­sato al vaglio le recen­sioni note come Let­ture facol­ta­tive a cac­cia di pre­di­le­zioni, tic, idio­sin­cra­sie e rim­pianti mai ester­nati altrove dall’autrice.
Il cao­tico pot-pourri così assem­blato («Wislawa Szym­bor­ska ammi­rava la pit­tura di Ver­meer, non sop­por­tava il gioco del Mono­poli, non amava la con­fu­sione, non disde­gnava la visione dei film dell’orrore, scri­veva in posi­zione semi­di­stesa, era un’appassionata di indici, note, cita­zioni, rimandi, som­mari e biblio­gra­fie, e di tanto in tanto andava all’Opera…») era stato via via cor­retto e chio­sato da Wislawa Szym­bor­ska stessa, pre­oc­cu­pata per lo più di dichia­rarsi nar­ra­trice inat­ten­di­bile («vi avverto: in asso­luta buona fede posso rac­con­tare cose che non sono mai esi­stite», così avrebbe accolto a casa sua Bikont e Szc­ze­sna nel feb­braio 1997).
Stante la nota ten­denza dell’autrice polacca a scher­nirsi e a iro­niz­zare sulla rile­vanza della pro­pria opera, non sor­prende certo che la prima ver­sione della bio­gra­fia uscita a Var­sa­via nel 1997 pre­di­li­gesse con pro­gram­ma­tica fri­vo­lezza quelle «fonti non pro­prio cri­stal­line» a cui Szym­bor­ska soste­neva di attin­gere, ossia «sba­gli esi­sten­ziali, dubbi, scioc­chezze varie, un sapere accu­mu­lato in modo cao­tico, impos­si­bile da ordi­nare». Asse­con­dando incon­di­zio­na­ta­mente la poe­tessa, le due gior­na­li­ste ave­vano dedi­cato ampio spa­zio — fin troppo, a giu­di­zio di qual­che cri­tico — a quelle occu­pa­zioni osten­ta­ta­mente futili come la ste­sura di lime­rick e il col­le­zio­ni­smo di pac­cot­ti­glia kitsch con le quali Szym­bor­ska ten­tava di distan­ziarsi dal ruolo di vate nazio­nale che, all’indomani dell’assegnazione del pre­mio Nobel, si era abbat­tuto fatal­mente sulle sue spalle. Tutto ciò risulta alquanto ridi­men­sio­nato nell’edizione rivi­sta e ampliata, Cian­fru­sa­glie del pas­sato La vita di Wislawa Szym­bor­ska, ora tra­dotta e curata per Adel­phi da Andrea Cec­che­relli (pp. 455,euro 28,00).
Pre­ser­vando intatta la leg­ge­rezza sti­li­stica che aveva carat­te­riz­zato la prima ste­sura, le autrici si impe­gnano qui a rico­struire in modo più cir­co­stan­ziato la posi­zione occu­pata da Szym­bor­ska nel mondo cul­tu­rale polacco nell’arco di sessant’anni, met­tendo a con­fronto tra di loro i ricordi di innu­me­re­voli com­pa­gni di strada, primi tra tutti i poeti Adam Zaga­jew­ski, Ewa Lip­ska e Ryszard Kry­nicki, ma anche quelli di coloro che, con dedi­zione e pro­pen­sione alla sfida intel­let­tuale, ave­vano adat­tato la sua lirica ad altri con­te­sti lin­gui­stici e cul­tu­rali (Sta­ni­slaw Baranc­zak, Karl Dede­cius, Anders Bode­gard, Pie­tro Mar­che­sani). Non priva di inte­resse è anche la testi­mo­nianza di Michal Rusi­nek, il gio­vane stu­dioso di let­te­ra­tura che, a seguito di quell’autentico spar­tiac­que rap­pre­sen­tato nell’esistenza della Szym­bor­ska dal Nobel, venne assunto come segre­ta­rio al fine di ope­rare una cer­nita tra gli innu­me­re­voli impe­gni, inviti, richie­ste asfis­sianti, lusin­ghiere o assurde che, di colpo, si erano river­sati su colei che egli chia­mava, con iro­nia mista ad affetto, «il Capo».
Gra­zie a Rusi­nek appren­diamo det­ta­gli che non rivo­lu­zio­ne­ranno forse il giu­di­zio cri­tico sulla poe­tessa, ma che di certo faranno la gioia dei let­tori di bio­gra­fie, ad esem­pio il fatto che Szym­bor­ska dimo­strava un attac­ca­mento tipi­ca­mente socia­li­sta a oggetti di uso quo­ti­diano inne­ga­bil­mente brutti e vetu­sti, eppure non del tutto inser­vi­bili. Oppure che, odiando cuci­nare, apprez­zava il cibo pre­con­fe­zio­nato (mine­strine lio­fi­liz­zate che ser­viva per­sino agli ospiti a cena, ma anche, dopo la rapida con­ver­sione della Polo­nia al capi­ta­li­smo, le alette di pollo dei fast-food).
Pochi tra i cono­scenti stretti della poe­tessa sem­brano essersi sot­tratti alle domande di Bikont e Szc­ze­sna: nella trama poli­fo­nica da loro intes­suta risuo­nano infatti le voci delle com­pa­gne di scuola che, insieme a Wislawa, ave­vano fre­quen­tato l’istituto delle suore Orso­line a Cra­co­via nella seconda metà degli anni trenta e poi i corsi clan­de­stini nella città occu­pata dai tede­schi. E, ancora, quelle dei let­te­rati vicini di casa nel dopo­guerra (quando Szym­bor­ska insieme al marito Adam Wlo­dek, si era tra­sfe­rita nell’umido sot­to­tetto della Casa degli Scrit­tori in via Krup­nicza), non­ché dei col­la­bo­ra­tori della rivi­sta «Zycie lite­rac­kie», che l’aveva vista capo­re­dat­trice della sezione poe­tica dal 1953 al 1966. Forse l’unica assente, in quanto già dece­duta all’epoca della prima ste­sura, è la sorella mag­giore Nawoja, quell’«insuperabile modello di casa­linga vec­chio stampo» eter­nata nella poe­sia In lode di mia sorella, dove Wislawa Szym­bor­ska le invi­diava la capa­cità di non scri­vere poe­sie e il fatto che il suo caffè non si rove­sciasse su manoscritti.
Tra i meriti delle due autrici risiede anche quello di affron­tare con intel­li­genza la que­stione dell’adesione sin­cera della poe­tessa al Par­tito ope­raio uni­fi­cato polacco, non­ché le rea­zioni al com­po­ni­mento in morte di Sta­lin che le valse attac­chi furi­bondi da parte dei cat­to­lici nazio­na­li­sti negli anni Novanta (inte­res­sante il punto di vista di chi, come Tadeusz Nyc­zek, vi scorge la stessa strut­tura di capo­la­vori suc­ces­sivi come Il gatto in un appar­ta­mento vuoto, ossia la mede­sima «dispe­ra­zione det­tata dall’assenza»). Note­voli anche le pagine sul rap­porto con Cze­slaw Milosz, «com­pa­gno di Nobel» verso il quale la poe­tessa scom­parsa a Cra­co­via il 1 feb­braio 2012 nutriva un senso di sog­ge­zione quasi panico, salvo poi mot­teg­giarlo ama­bil­mente, ricor­dan­do­gli di averlo sor­preso nel 1945 in un risto­rante, impe­gnato ad adden­tare un’assai poco lirica coto­letta di maiale.
Ma i capi­toli più evo­ca­tivi sono quelli in cui Bikont e Szc­ze­sna, in man­canza di testi­moni ocu­lari, si avven­tu­rano da sole nella pre­i­sto­ria szym­bor­skiana, tra cer­ti­fi­cati dell’anagrafe e del cata­sto e pol­ve­rose foto­gra­fie che ritrag­gono il futuro padre della poe­tessa a Zako­pane. Qui, in que­sto vil­lag­gio sper­duto sui monti Tatra, desti­nato da lì a breve a tra­sfor­marsi nel buen retiro degli intel­let­tuali polac­chi, Win­centy Szym­bor­ski ammi­ni­strava dal 1904 la tenuta del conte Wla­dy­slaw Zamo­j­ski, il quale in una let­tera ascri­verà a pro­prio merito quello di essersi inde­bi­tato fino alla punta dei capelli pur­ché i boschi di Zako­pane non finis­sero «in mani stra­niere», sot­toin­ten­dendo con quest’aggettivo quelle ebrai­che di Jakub Gol­d­fin­ger, pro­prie­ta­rio della locale car­tiera che avrebbe cer­ta­mente «fatto abbat­tere tutti gli alberi».
E sarà pro­prio all’ombra degli abeti patriot­ti­ca­mente sal­vati dall’antisemita Zamo­j­ski che novant’anni più tardi Wislawa Szym­bor­ska, ospite della Casa degli Scrit­tori Asto­ria, appren­derà di avere vinto il Nobel per la let­te­ra­tura. Quasi come se quel rico­no­sci­mento fosse in fondo anche un omag­gio postumo al padre e alla lezione di stile e sobrietà che le aveva impar­tito fin da pic­cola, quando le rega­lava venti cen­te­simi a ogni poe­siola scritta. A patto però che fos­sero spas­sose, «niente con­fi­denze fem­mi­nili, niente lamenti».
Il manifesto, Alias-domenica, 8 febbraio 2015

Testi e immagini riprese da   https://georgiamada.wordpress.com/

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