12 febbraio 2015

STORIA DI ITALIANI COMUNI



È appena uscito per Il Saggiatore Ogni altra vita. Storia di italiani non illustri, l’ultimo libro di Paolo Di Stefano. Ne riportiamo un capitolo:

Ogni altra vita. Storia di italiani non illustri


di Paolo Di Stefano

Rosa volente o nolente
Parto in aereo da Malpensa con mia madre, i miei due fratelli, mia sorella. Mio padre ci raggiungerà domani mattina: arriverà da Lugano su una Mercedes nera alla parrocchia di san Giovanni, sul corso, per essere sepolto nel cimitero del paese, secondo il suo desiderio. Tante volte me lo sono prefigurato, questo viaggio. L’ultima volta che l’ho visto, dieci giorni prima del ricovero, al ristorante, davanti a un fritto misto di pesce che faceva fatica a mangiare, mio padre mi ha ricordato che in banca aveva disposto la cifra per il viaggio. Lo chiamava «il viaggio», senza sentire il bisogno di specificare di quale viaggio stesse parlando.
Porto in valigia un mazzo di fogli dattiloscritti, interlinea singola, e penso che Rosa Bartolini non avrebbe potuto scrivere il suo diario se non lungo righe fittissime e quasi prive di margine, che confondono la messa a fuoco. Non c’è aria nei fogli, come nella sua vita. Pagine senza respiro, la lettura che desidero, opaca e vera, per sentirmi trascinare dolcemente verso il fondo della malinconia fingendo di dimenticarne la ragione.
La vita di Rosa Bartolini è cambiata tante volte, nonostante tutto. Nessuno avrebbe scommesso sul finale. Non si può dire che sia una donna-salamandra, perché se è vero che ha attraversato tutti i fuochi, ne è uscita ogni volta bruciacchiata, acciaccata, scottata, ferita, ustionata, stordita, spaventata, rabbiosa. Comunque sia, ne è uscita. Ogni volta bruciando una parte di sé, lottando e alla fine resistendo a tutto. Davanti alle pagine aperte del suo diario fittissimo, pagina dopo pagina pensi: sta capitolando, questa volta non ce la farà, precipita, è proprio finita, povera Rosa. Anzi, già la immagini nel fondo del fondo, vita ingoiata in un fosso degli Appennini umbri. E invece la vedi urtare, cadere, sudare, arrancare, e la pagina dopo, non si sa come, rinasce dalle sue stesse ceneri. Una donna-fenice, piuttosto. Non certo una donna felice. Sono gli altri a farla cadere, è lei a rialzarsi con le sue sole forze in quell’immenso campo di battaglia che è il suo mondo familiare; spesso dà perfino una mano ai numerosi nemici che le cadono intorno, molto tempo dopo averla colpita. Un solo caso fa eccezione: l’incontro, su un treno, con un certo B., un misterioso professore di filosofia che rimarrà sempre nelle sue speranze e che Rosa vorrà rivedere in vecchiaia. Un amore che avrebbe potuto essere e non è stato, una vita parallela naufragata in un oceano di speranza o impantanata nello stagno melmoso della realtà.
C’è una fotografia che la ritrae seduta su un prato dall’erba alta e secca, con un bimbo sulle gambe e altri due, più piccoli, al suo fianco, i cui occhi hanno un’allegria che sta per scatenarsi. Deve essere estate, Rosa ha le braccia bianche e nude. Una madre come tante, nessuno potrebbe mai sospettare che ha sofferto quel che ha sofferto.
Rosa nasce nel 1934 in un paese umbro, e comincia a scrivere il suo diario nel 1969 a Nizza, dove si è trasferita appena sposata. «Non ho fiducia in nessuno che mi capisca» scrive. Con quel racconto, che termina nel 2007, ormai oltrepassati i settanta, vuole confidare le sue vicissitudini alla figlia maggiore, M.C., a futura memoria: «Lo faccio né per giustificarmi, né per farmi compatire», semmai per «dar sfogo alla mia amarezza che mi accompagna dappertutto». Rosa risale alle origini remote, alla nonna e alla mamma Amelia, nata da una violenza e considerata la pecora nera della casa, tenuta in brefotrofio fino a sei anni e poi cresciuta in famiglie sconosciute dove sempre ha lavorato come sguattera e tuttofare. Ha trent’anni quando conosce il futuro papà di Rosa, cinquantenne vedovo, guardaboschi e già padre di dieci figli. La differenza d’età fa mormorare il paese: lui troppo vecchio, i dieci figli… Insomma, non sono la coppia ideale. Lui doveva essere un uomo mite, pronto ad affrontare i disagi della sua condizione sociale, dedito alla quiete familiare e ignaro delle avversità che lo travolgeranno. «Alla mia nascita» scrive Rosa «preparò un bel pranzo, fece cuocere due agnelli (sapeva fare da sé la cucina) e invitò per il battesimo tutte e due le sue sorelle e i suoi figli e parenti e facendo una gran festa si riconciliò con tutti.» Quel secondo matrimonio aveva creato qualche frattura in famiglia, una famiglia dalle fratture facili. Tutti i pretesti sono buoni. L’intrusione devastante, perfida, dei familiari è un motivo dominante nella storia di Rosa. Ne uccide più la famiglia che le guerre, appunto. A Rosa si aggiunge una sorellina, Mafalda, e nel 1938 dai boschi di Favalto, dove papà è da anni guardiano e allevatore di pecore e maialini, i genitori decidono di trasferirsi verso un’altra montagna, quella di San Giustino, frazione Lama, alta valle del Tevere. È lo scenario perugino in cui è rintanato tutto il parentado materno, paesaggio aspro di strettoie e dirupi, con aperture improvvise e pianeggianti, con lecceti, o boschi di faggio e roverelle. Mirtilli, fragoline e profumo di funghi…
L’idillio della coppia, se mai è cominciato, va subito in frantumi, almeno nella memoria della figlia maggiore: «Sembra che litigassero spesso e ben presto divennero la derisione del paese». Il paese, le malelingue, gli occhi degli altri, le parole, le chiacchiere, i pensieri, soprattutto i retropensieri. Un’ossessione, per Rosa, per sua madre, per suo padre, per tutti: non c’è attimo nella vita di Rosa e della sua famiglia in cui non si vedano gli occhi degli altri che sbirciano, osservano, curiosano, parlano, interpretano, sparlano, gettano veleno ovunque. Il papà di Rosa e Mafalda è un brav’uomo che la moglie «accusava di cattivo», un socialista alquanto nervoso, che sa farsi rispettare e «disbrogliarsi nella vita sociale» come in quella domestica. Non nasconde a nessuno il suo proposito: «Voglio che le mie figlie s’istruiscano e mangino il pane bianco!». Purtroppo succede che si ammala di diabete e deve lasciare il lavoro, guadagna solo qualche giornata qua e là, fatica, non ce la fa, sua moglie Amelia non lo aiuta, così una mattina uno dei dieci figli di primo letto arriva con una carrozza trainata da un cavallo bianco e se lo porta via per farlo curare, ma anche per sottrarlo a un ambiente sempre più ostile. «Restammo sole senza custodia… da allora sentii un gran gelo pervadermi in tutto il mio essere.» Ma il peggio deve ancora arrivare: la mamma di Rosa è instabile, collerica, forse si sente perseguitata dalla sfortuna e non è strano che la figlia maggiore e tutta la «razzaccia Bartolini» diventino il capro espiatorio dei suoi mali, «odiava pure me che somigliavo a mio padre».
Prima di morire, il 27 dicembre 1940, papà chiede di rivedere la sua bambina, che intanto è andata a vivere con gli zii. È molto tenero il racconto dell’ultimo incontro: «Aveva già perso la vista, quindi dovette toccarmi per riconoscermi. Si mise a piangere come un bambino e rammaricava di averci messe al mondo certamente per soffrire». È per questo che chiede a tutti perdono: per non essere riuscito a rendere più leggera la vita delle sue figlie. Altro che pane bianco. Mamma Amelia da qualche mese si è trasferita per lavoro a Città di Castello, lasciando le figlie agli zii. Madre e figlie si attraggono e si respingono di continuo.
Ha ragione, Rosa, quando scrive che la sua è la storia di una «giovane adulta che non ha avuto il diritto di amare e di essere amata». Un giorno, vede arrivare sua madre, allegra, sorridente, sembra un’altra donna rispetto a quella che ricordava, ha nelle mani un pugno di confetti, si è risposata e vuole portare con sé la figlia maggiore, sperando forse di avviare insieme una nuova vita. Rosa non ne vuole sapere, è infuriata, prende i confetti e li getta per aria urlando. «Da allora cominciai a odiarla come se avessi avuto un presentimento che con quel matrimonio avesse rovinato la mia vita»: lo merita davvero quell’odio, mamma Amelia? In realtà Rosa non sa ancora che con gli uomini seguirà lo stesso destino di sua madre. Con lei saranno tutti, o quasi, inaffidabili e brutali. Passa poco tempo ed eccola tornare, la mamma di Rosa, questa volta accompagnata dal novello sposo: la bambina lo inquadra subito come un diavolo gobbo, ma la madre insiste, vuole ricucire le sue due vite e può farlo solo portandola via con sé. È Rosa il ponte tra passato e futuro. La piccola fugge fuori senza scarpe, finisce tra le spine dei rovi, corre, inciampa, si graffia, si taglia, viene inseguita, ricade, viene raggiunta e trascinata a forza nella nuova vita di mamma con i piedi sanguinanti.
Città di Castello è un incubo, il patrigno è esattamente come Amelia se l’immaginava, alcolizzato e manesco, picchia sua moglie e anche sua madre, non perde tempo a lavorare, gli piace spendere più che guadagnare, e all’osteria deve per forza usare i soldi di Amelia, che invece è costretta a sgobbare come un somaro: «Raramente lui tornava a casa e se lo faceva in pietose condizioni da paralizzarci dalla paura». Paura. Per non cadere nelle bizze o negli insani furori del patrigno, Rosa e Mafalda, che nel frattempo è stata strappata ai fratellastri, preferiscono passare intere giornate con mamma al Sanatorio Casalsole, dove lei fatica tutto il giorno come inserviente tuttofare.
Arriva un mezzogiorno in cui nel racconto di Rosa la tensione esonda, si fa brutalità. Il patrigno ubriaco le ordina di lavare i piatti, fa uscire la sorellina e chiude la porta a chiave: «Io lavai i miei piatti e lui nel frattempo si stese sul letto che avevamo in cucina. Cominciò a guardarmi e più mi guardava e più mi paralizzavo dalla paura». Paura. «Dovevo avere circa otto anni. Finito il mio lavoro mi disse che se volevo la chiave dovevo prenderla da sotto il cuscino.» Rosa si avvicina e viene trascinata sul letto, accanto a lui: «Mi disse che mi avrebbe strozzato se non gli davo retta e se avessi urlato…. Mi seviziò ma non mi toccò davanti, perciò restò intatta la mia verginità. Io ignoravo in quel momento il sesso, la verginità, so solo che la paura e il disgusto mi accompagneranno tutta la vita». Paura e disgusto. Il patrigno non è più il diavolo gobbo, diventa il porco. Non si sa bene cos’è successo in cucina quel dopopranzo, Rosa non precisa, forse non ha capito, forse non vuole dire. Quel che si sa è che, quando il porco si addormenta, la bambina riesce a sfuggire e si rifugia per tutto il pomeriggio «in un angolo come un cagnolino bastonato».
Non appena si riprende, la bambina trova il coraggio di raccontare il fattaccio alla madre, ma non viene creduta, insiste piangendo, le giura sulla Madonna che sta dicendo la verità. Mamma Amelia non vuole saperne, non ci sente, si chiude i timpani. Poi la notizia arriva all’orecchio di un carabiniere che abita al pianoterra e che le consiglia di denunciare il porco alle autorità giudiziarie. Seguiranno un arresto, un processo, tanti interrogatori e numerose visite mediche alla ragazzina, lo scandalo in città, in paese e sui giornali. «Così per l’opinione pubblica ero disonorata, tutti parlavano a torto a traverso di questo fattaccio e mi facevano domande impertinenti… Dicevano pure che non ero più una ragazza da scegliermi il marito che volevo.»
Il giorno in cui il patrigno esce di prigione, Rosa si ricorda della paura e corre a nascondersi sotto il letto di una vicina: sua madre la rincorre, la afferra per un braccio e la trascina in casa, «dove c’era lui ad aspettarmi vicino alla tavola con l’aria da cattivo». La gente non si cura dei fatti in sé ma delle voci che i fatti suggeriscono, e «a torto a traverso» soprattutto si preoccupa di aggiungere, alle vecchie, voci nuove da dare in pasto a nuova gente, altrettanto disinteressata ai fatti e invece sensibile alle voci. «Cominciarono a dirmi che ero stata una bugiarda e che adesso dovevo dire la verità, cioè che avevo inventato tutto per fargli del male.» Bugiarda o no, Rosa è colpevole in ogni caso, e da vittima «disonorata» diventa una «poco di buono». La sua adolescenza e la giovinezza saranno segnate da questo marchio d’infamia: «A quell’epoca la giustizia si occupò solo della mia verginità, ma a nessuno, nemmeno ai dottori, venne in mente di occuparsi del mio sistema nervoso». Il sistema nervoso di Rosa, già in frantumi, deve incassare nuove minacce e nuove aggressioni, una sera il patrigno le si scaglia contro con una roncola e solo l’intervento precipitoso di mamma Amelia riesce a salvare la ragazzina che stava dormendo. Anzi, la bambina.
Intanto alla piccola guerra di famiglia si aggiunge la guerra civile di un intero Paese. Quando cominciano a piovere le bombe, Rosa si stabilisce presso una casa di contadini ed è lì che viene a sapere che è nata la sua sorellastra, G. Sempre lì verrà a sapere che una cannonata ha colpito la chiesa, nella campagna attorno a Città di Castello, in cui si trovava l’altra sorella, Mafalda, che a sette anni è stata perforata all’intestino da una scheggia ed è morta, con altre compagne e una suora, dopo tre giorni di agonia.
La bambina Rosa non è mai stata davvero una bambina, ha già visto di tutto, non conosce i giochi della sua età, niente scuola e compagni, niente amichette a cui confidare le ingenuità e le malizie, ha già sperimentato le brutalità del mondo, quelle provocate dagli uomini e quelle volute dal destino. Passa mesi interi vagando tra parenti, amici e famiglie sconosciute, a dieci anni è già considerata adulta o quasi, cura le pecore e viene anche incaricata di accudire un paio di bambini la cui madre, una maestra, per raggiungere la sua scuola deve partire al mattino in bicicletta e non rientra che a tarda sera. Rosa avrebbe bisogno di una madre che le stesse vicina e invece è costretta a travestirsi da madre per stare vicina a bambini poco più piccoli di lei. Spesso i bambini piangono in attesa della mamma, e altrettanto spesso Rosa si mette a piangere con loro. Ogni tanto compare Quinto, il figlio maggiore di suo padre: compare per portarla via con sé, ma Rosa è testarda, questo è sicuro, e si rifiuta di seguirlo. Quando poi il fratellastro perde la figlia, travolta da un camion polacco, pensa di colmare il vuoto con Rosa, senza fare i conti con la sua diffidenza selvaggia. Fatto sta che in casa di Quinto Rosa non resiste mai tanti giorni e appena può se ne va.
Non vuole abitare con il fratellastro perché in casa sua si sente un’estranea, non vuole stare con sua madre per non dover subire gli imprevedibili umori di lei e per non finire nelle grinfie del patrigno. Però, nel suo vagabondare, prima o poi mamma Amelia riesce sempre a riprenderla con sé, con le buone o con le cattive, per poi rispedirla altrove. Non c’è luogo in cui Rosa si senta davvero a casa, non c’è lettino in cui senta di poter passare le sue notti al sicuro. Probabilmente pensa spesso a suo padre e alle sue illusioni sul futuro delle figlie, al pane bianco che aveva sperato per loro.
La scuola rimane un pio desiderio fino alla Liberazione, quando le dame di san Vincenzo vengono a prelevarla e la portano via da Città di Castello, in un collegio di Gualdo Cattaneo, dove ancora aleggia l’eco del fattaccio. Finita la guerra, le cose sembrano cambiare anche per Rosa, al punto che scriverà: «Furono i meglio anni della mia vita malgrado il rigore del collegio, la lontananza dai parenti non la sentivo tanto mi ritrovavo sempre sola!». Nel luglio 1950 Rosa ottiene il certificato di quinta elementare. In tre anni, la madre si è fatta viva solo un paio di volte, una di queste chiamata dalle monache perché Rosa ha la febbre altissima ed è in preda al delirio. Strana madre, ha fatto battaglie epiche per tenere sua figlia con sé e quando è lontana se ne dimentica. La sorellina G. a sei anni la raggiunge in collegio: «Era vivace, intelligente e bella che ne ero fiera da mostrarla a tutte le persone che frequentavano il collegio». Ma è indomabile, e la quindicenne Rosa cerca di «amministrarla» con qualche ceffone, arrivando a «picchiarla ferocemente» per la rabbia di non essere ascoltata. Non è facile, e nemmeno giusto, fare la madre della propria sorellastra. Anche G. vivrà una sua personale odissea, finendo prima nel «lurido tugurio» di mamma Amelia e del porco, dovendo assistere a «scenate abominevoli», poi in mano alla giustizia minorile, con grande delusione della sorella maggiore che aveva riposto in lei molte speranze: «Io l’amavo tanto da desiderare il massimo da lei». Il massimo è il minimo, purtroppo. G. scompare provvisoriamente dalla vita di Rosa. Tornerà, rinata ad altre vite. Nessuno è mai una cosa sola, in questa storia.
Cambia ancora tutto per Rosa, e non cambia niente. Lavora in cucina, poi in lavanderia e in sartoria. Nelle sue notti sogna un futuro da «maglierista» per i militari, rivede le case in cui ha abitato, i bambini che ha curato, le ragazze che ha incrociato, Mafalda, la sorella morta, il suo papà mite. Le suore le vogliono bene a loro modo e, conoscendo il fattaccio, le raccomandano di «non confondersi» con i ragazzi almeno fino ai vent’anni: «Sei sprovvista di tutto in materia d’amore e potresti cadere male». Non si può dire che abbiano torto. Entra in scena ancora Quinto, e stavolta Rosa trascorrerà nella casa del fratellastro mesi sereni, curando il nipotino neonato.
È un mondo di orfani e di vedove precoci, di bambini finiti male, di maschi violenti, di squilibrati, di disoccupati cronici, di fannulloni, di sguattere che lavorano per tre, di schiavi, di alcolisti, di cirrotici, di vinti che non smettono di sognare. Forse istigata dal marito, la mamma di Rosa pretende che i figli mantengano i genitori e chiede alla ragazza di darsi da fare sempre più. È per questo che il 6 novembre 1950 Rosa scende da un pullman a Roma: ben presto si ritrova in un altro collegio, in via Quintiliano, dove viene accolta da suore premurose che la incaricano di servire a tavola i pellegrini, di aiutare in cucina e di fare le camere. La ragazza deve accontentarsi di qualche mancia, meglio che niente. La superiora, che le vuol bene, le propone di iscriversi a una scuola per infermiere, ma Rosa è «timida e selvaggia», e rifiuta.
Il primo salario, 6000 lire al mese, lo guadagna a diciassette anni, nel 1951, da baby sitter e tuttofare in una casa con tre bambini, il più grande di sei anni, il minore di diciotto giorni. Rosa scrive: «Io mi sentivo felice!». I lavori adesso arrivano, sono lavori duri ma arrivano e questa volta vengono pure pagati. Arriva anche la comprensione di una buona famiglia romana che la adotta come domestica e soprattutto come una specie di figlia, ma Rosa si stufa, anche lei è un tipo imprevedibile, è come se la felicità le facesse paura: forse non le piacciono le cose facili, forse sospetta di tutti, anche di chi le vuol bene, insomma si convince che vuole andarsene e se ne va voltando le spalle a quello spiraglio di serenità.
Cambia sogno un’altra volta: non più la maglieria ma la Manifattura Tabacchi. Un miraggio, più che un sogno. Per il momento deve accontentarsi di lavorare nei campi come contadina. Vorrebbe soprattutto «uscire dal giro di questa maledetta famiglia», ma non sa che quella (o un’altra) sarà per sempre, o quasi, la sua prigione. Si sente perseguitata da sua madre, dalle sue «piccole dosi di veleno», dalle scenate teatrali, non vuole saperne di tornare nel tugurio di casa con un patrigno sempre più alcolizzato. Ogni volta che incontra un ragazzo, si ricorda del fattaccio e se non se ne ricorda lei c’è sempre qualcuno pronto a ricordarglielo.
Un corteggiamento sembra andare a buon fine, forse l’innamoramento reciproco c’è davvero, ma Rosa non lo dice e ogni volta che lui, un «ragazzo garbato», avanza qualche «pretesa», lei prova disgusto e si ritrae, ha «paura di cadere in trappola». Sono equivoci, sospetti, pianti, litigi, delusioni, mortificazioni, ancora pesanti dicerie sul suo conto: Città di Castello brucia di malignità, «mi guardavano tutti come se fossi uscita dal casino». I due si allontanano, si rivedono, e quando un giorno le «pretese» del ragazzo si fanno più pressanti del solito, Rosa cede. È il 6 gennaio 1955, non un bel ricordo: «Mi prese in piedi, avevo una paura da matti, mi vergognavo e mi irrigidivo come una statua…».
Un giorno, i signori M. la portano in villeggiatura a Pesaro, dove per la prima volta Rosa vede il mare. Una tregua, una parentesi di quiete e riposo. A Città di Castello c’è ancora quella «canaglia» del patrigno, alcolizzato, ha la moglie dalla sua parte: insiste per avere da Rosa una fetta del suo salario. Per strada, una mattina, si sente urlare in faccia «svergognata, ladra, puttana» e si avventa sul porco per strozzarlo, ma viene bloccata da una donna, che le dice: «Vattene via, non ti sporcare con questo letame».
È vero. Bisognerebbe fuggire fuggire fuggire, tagliare i ponti, ma Rosa non fugge. Anzi, nel 1956 è a Lama e pensa di restarci per sempre, le «lingue di vipere» non smettono mai di assediarla, specie quando Rosa riesce a prendere in affitto un appartamentino (senza bagno) e ad arredarlo con un divano per mamma Amelia, una poltrona, un tavolino, un armadio, un lettino e un fornello a gas. Sua madre sembra impazzita, in preda a furie e a crescenti manie di persecuzione. Sono gli anni in cui Rosa in un retrobottega di macelleria subisce un’altra aggressione, dal macellaio (forse in combutta con un paio di suoi compari), ma riesce a tenerli a distanza afferrando un lungo coltello e puntandolo alla gola del suo assalitore. Lo racconterà solo anni dopo.
Qui il diario di Rosa Bartolini lascia intravedere una luce. O forse a essere cambiato, quando sollevo gli occhi dai fogli dattiloscritti, è il paesaggio che scorre oltre il finestrino dell’Intercity partito da Grosseto e diretto a Milano. Non più le nuvole grigie e pesanti che incombevano sulle colline ombrose della Toscana, ma un cielo bianco, slavato, sopra prati di un verde luminoso striato di giallo e poi sopra il mare immobile della Liguria. Seduto in questo scompartimento affollato di coppie nordiche dalle scarpe grosse e dai giganteschi zaini riposti sopra le loro teste, dieci giorni dopo la sua morte, pensare a mio padre in vita è impossibile, per il momento, nonostante mi sforzi a occhi chiusi. Per ora, sonnecchiando, non riesco a vedere che il suo ultimo pomeriggio, estenuato. Non è escluso, penso, che Rosa abbia provato, verso sua madre, quel grumo di rabbia che ha vissuto mio padre con il nonno Giovanni, una bestia d’uomo che trattava gli uomini, e le donne, da bestie, come le pecore che portava al pascolo per le campagne asciutte sotto Avola antica. La stessa rabbia che con l’età scolora in estrema, naturale, forse involontaria, comprensione: con gli anni, la memoria si farà più calma e indulgente?
«Io bollivo di rabbia» scrive Rosa, però qualcosa di impercettibile sta cambiando, dentro e fuori di lei. Ogni tanto va persino a ballare con sua cugina, conosce un giovane che la fa divertire, ma che poco dopo si tiene inspiegabilmente a distanza. Per farlo ingelosire, una sera Rosa si mette a danzare con L., un «cavaliere sconosciuto», lo chiama, che si è fatto avanti nel buio della pista: così, nel giro di pochi giorni, circola la voce di un possibile fidanzamento. Rosa ha mille dubbi e sospetti, su di lui, sul mondo che la circonda, sulle eterne malelingue, sugli uomini che le girano intorno. «Allora incominciai a convincermi che per me non c’era amore, che non potevo scegliere… Povera cretina!»
Si sente accerchiata dalla gente, assediata dalla futura suocera, dai fratelli di lui, si ritrova con un anello al dito e finisce per sposare, malvolentieri, il «cavaliere sconosciuto» L., che lei continua a vedere brutto, trasandato, indesiderabile. Le nozze si celebrano nel 1959 e Rosa accetta di trasferirsi a Nizza, sperando che la distanza dalla famiglia sistemi un poco le cose. Il marito passa le sue serate con gli amici al bar: «All’inizio cercai di ragionarlo, facendogli capire che non mi stava bene restare da sola ad aspettare ore». Si illude di poterlo cambiare, ma L. non la segue. Non sembra cattivo, ha slanci di generosità, è vittima della propria debolezza, lascia gestire a Rosa l’economia familiare, è lei che decide dove abitare, se traslocare, se comperare i mobili e la casa: «C’è da dire che certi uomini bisogna metterli al corrente davanti al fatto compiuto per farli capitolare, altrimenti dicono sempre no a tutto». Firmato il contratto per l’acquisto dell’appartamento, lui «si mise a rotolarsi per terra come un serpente dalla gioia». Le sue serate al bar, però, diventano interminabili bevute.
Nel 1960 nasce la prima bambina, Cristina, poi Marco e nel 1965 Sylvie. È di questi anni la fotografia che ritrae Rosa sorridente, una corona di capelli neri come le sopracciglia, in braccio una neonata biancovestita che mostra la lingua come Einstein: Rosa sorride con un sorriso senza ombre, talmente largo da scoprire l’arco superiore delle gengive, gli occhi neri vivaci, una catenina che le pende al collo. Rosa deve pensare ai figli, alla casa e al lavoro (lavora sempre a domicilio), si preoccupa di sua sorella G., che un giorno ricompare, a Nizza, «tutta ossigenata alla Marilyn Monroe». Deve pensare anche a sua madre, che al paese non ha pace. Piange, soffre, fatica, si ribella, cade in depressione, si riprende.
Un giorno si accorge che suo marito è ormai prigioniero dell’alcol, con scenate di gelosia e di violenza, rivede in lui il suo patrigno e fugge in treno verso l’Italia con i bambini sdraiati per terra nei corridoi, ma i fratelli di lui la raggiungono per riportarla a Nizza. «Dolente o volente», Rosa deve seguirli. E saranno ancora anni d’inferno, Rosa lavora, lavora, lavora, vetrinista in un negozio, donna delle pulizie in una banca, ancora sarta, e in compenso deve subire di tutto, finché costringe L. a disintossicarsi. È la sua prima vittoria, provvisoria. Lui ricade. E lei pure, nella depressione. Se c’è qualcosa che la sorregge è lo scambio di lettere con B., il professore napoletano di filosofia che Rosa, in viaggio con la figlia Silvie, ha conosciuto qualche anno prima sul treno: è un uomo misterioso che la ascolta e la fa sentire importante, da allora si incontrano due volte nel giro di pochi mesi, mai soli. Nel Natale 1970, B. va a trovarla e Rosa gli presenta i suoi figli; il 16 agosto 1971 torna: «i ragazzi andavano e venivano», «nei pochi minuti che restammo soli, ci scambiammo i nostri sentimenti». Rosa crede nella telepatia, comunica con lui anche a distanza e il solo pensiero della sua presenza o assenza le cambia l’umore. Spera ingenuamente di potersi, un giorno, liberare di tutte le catene per unirsi a B., che dice di sentire per lei «un sottile senso d’amore». Quando non riesce a vederlo, cioè quasi sempre, e quando neanche la telepatia funziona, Rosa si consola con i ricordi. Ma un giorno viene a sapere, al telefono, che B. si è sposato.
I suoi figli le chiedono una famiglia «unita e normale», cioè l’impossibile. In pubblico accadono scene raccapriccianti, botte e urla, «ma non si muore dalla vergogna». Se Rosa si confida con i parenti, viene derisa. Intanto non smette un solo momento di condurre la sua battaglia per L., che non riesce neanche più nella sua attività preferita, il gioco delle bocce, «perché non azzeccava niente», Rosa fa di tutto per trascinare suo marito fuori dal tunnel e alla fine, tra alti e bassi, tra scene pietose e speranze di ripresa, ce la farà. È una conquista insperata, definitiva, forse la prima conquista definitiva nella lunga odissea di Rosa. Siamo nell’autunno 1978.
Respirano, finalmente respirano. L. compera una buona macchina d’occasione. Respirano. Rinnovano i mobili delle camerette. Respirano per qualche anno, forse Rosa ha persino dimenticato il suo amore clandestino e la telepatia non le serve più. Respirano. Sono anni felici, con qualche viaggetto in Italia in cui L., alla guida della sua macchina nuova, non smette di cantare. Sa di essere malato e man mano che il cancro ai polmoni procede a fare il suo lavoro lui diventa sempre più un’altra persona, un uomo che Rosa non aveva mai conosciuto prima: è calmo, è presente a se stesso e agli altri, ha perso ogni furia. Sarà la malattia, la paura di morire. Quando muore, Rosa gli ha già perdonato tutto il dolore, le fatiche, le convulsioni, i barcollamenti, le liti, le incomprensioni, persino le violenze. Ha l’orgoglio di essere riuscita almeno a regalare a se stessa, a lui, ai suoi figli qualche anno di eccezionale normalità.
Orgoglio, specie da quando conquista un modesto impiego in un albergo: seconda vittoria, anche questa insperata. Sempre donnatuttofare, però questa volta con un’entrata sicura, un riconoscimento sociale e una nuova consapevolezza di sé e del mondo. Ora che non ha più da combattere per i figli, che hanno trovato un lavoro e si sono sposati; ora che non deve lottare per suo marito, che non c’è più, decide di impegnarsi in un’altra battaglia, come se quelle passate non le fossero bastate. Per la società, per il mondo, per gli altri: diventerà leader sindacale, stimatissima dai padroni e dai compagni di lavoro. La donna-fenice non sarà proprio felice, ma quasi. Il ricordo di B. non la lascia: guidata da un’astrologa, Rosa si rimette in cammino verso Napoli e una sera si aggira in un paese spettrale, Calvi Risorta, in provincia di Caserta, chiedendo del professore e raccogliendo diffidenza e paura: lo troverà infermo, rinchiuso nel suo appartamento e protetto dai carabinieri, probabilmente minacciato dalla mafia locale. Passerà con lui una notte innocente, l’ultima.
Ho letto la storia di Rosa in treno, tra Grosseto e Milano e poi, qualche giorno dopo, l’ho scritta tra Milano e Parigi e al ritorno, ParigiMilano, attraversando paesaggi ventilati e trasparenti. Quindici ore ad alta velocità. Primi giorni di maggio. Giornate di nubi pesanti, cumuli del pomeriggio. Di fianco a me, Ibrahim, un colosso allegro, senegalese, che ha voglia di parlare. Ha quarantotto anni ma ne dimostra dieci di meno. Cinque figli. Paragono senza ragione la cupa tristezza di Rosa con l’allegria schietta di Ibrahim, che vende borse al mercato di piazza Foroni, a Torino, 10 o 20 euro al pezzo. Per anni ha lavorato all’Iveco, metalmeccanico, e riusciva a mandare a casa, dove abitano quattro figli su cinque, anche 300 euro al mese. Sembra che quel pensiero lo metta di buonumore. Il senegalese in jeans e camicia tiene gli auricolari del cellulare nelle orecchie anche mentre parla, forse aspetta una chiamata. Continua a maneggiare due smartphone scarichi e si avvicina discretamente agli altri passeggeri per chiedere se hanno dei cavi adatti ai suoi apparecchi. Nessuno ne ha. Ride e torna a sedersi. Cinque anni fa è stato licenziato dalla Iveco e ha mandato (lo dice lui: «mandato») sua moglie con la figlia più piccola, Aki Abdù, a Lille, nord della Francia, dove «la vita è carissima, ma almeno c’è lavoro». Gli italiani, dice, ti aiutano di più dei francesi, che non ti guardano neanche in faccia: gli italiani ti capiscono e ti vengono incontro. «Non lo dico perché lei è italiano, lo penso davvero, gli italiani sono più buoni.» Ibrahim vive in una casa popolare con altri tre «fratelli». «Noi senegalesi viviamo in gruppo, mangiamo in gruppo e con 60 euro io posso mangiare per dieci giorni, anche di più.» Ha una testa nerissima, tonda e pelata, denti gialli con aloni color tabacco. Parla con il sorriso in bocca, sembra soddisfatto della sua vita. Le lunghe gambe distese in avanti, le braccia mobili e le mani enormi che si muovono come ali di farfalle davanti al suo viso. Uno zaino nero che sta per esplodere, un’enorme valigia e uno sguardo leggero e positivo verso il futuro, come un’alzata di spalle per un problema non suo.
È sceso a Torino, trascinandosi dietro il suo valigione, il treno è quasi deserto e i cumuli si vanno sciogliendo, verso sera, tra Vercelli e Novara, fino a diventare filamenti di cotone leggero, pallidi abatjour appesi al tramonto.

Testo ripreso da  

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