20 febbraio 2015

PER GIANFRANCO CONTINI


È uscito da poco il volume Gianfranco Contini 1912-2012. Attualità di un protagonista del Novecento (a cura di Lino Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2014), che contiene gli atti del convegno tenutosi a Pisa, alla Scuola Normale Superiore, e a Firenze, alla Fondazione Ezio Franceschini e al Gabinetto G.P. Vieusseux, dall’11 al 13 dicembre 2012. Si presenta qui il testo della relazione di Andrea Cortellessa. Gli altri interventi contenuti nel volume, dopo la premessa del curatore e di Gloria Manghetti, sono di Roberto Antonelli, Marco Mancini, Lino Leonardi, Claudio Giunta, Arnaldo Soldani, Rosanna Bettarini, Domenico De Martino, Paola Italia, Franco Zabagli e Giancarlo Breschi.


Il telescopio dell’anacronista. Contini contemporaneo


di Andrea Cortellessa

Sono di due principali fattispecie i capi d’imputazione ascritti, per solito, al modus operandi di Gianfranco Contini (in vita, con tutte le cautele del caso; in morte, di contro, in maniera ribalda e quasi sempre villana). Il primo gli attribuisce modi solo superficiali, paghi in misura arrogantemente esclusiva della patina stilistica dei testi, della descrizione della loro apparecchiatura formale; il secondo un’attitudine gelidamente microscopica, laboratoriale, disinteressata alla visione d’insieme di un’opera e, tanto meno, di un periodo storico, un genere letterario o un plesso teorico. Precipitato ultimo, scandaloso come-volevasi- dimostrare di questa doppia, presunta inadeguatezza, le scelte “militanti” del contemporaneista (in primis, per entità dell’opera e suo impatto culturale, nonché per spregiudicatezza e oltranza idiomatica delle scelte, l’antologia Letteratura dell’Italia unita del 1968)[1].
Quanto al mito d’un Contini superficiale, in altra occasione[2] ho provato a mostrare quanto poco regga a fronte di certi nuclei d’investimento primario, da parte del critico, come quello Longhi-Cecchi a proposito del quale si trovò a coniare il sintagma «libro segreto»[3]. Che rappresenta in un’opera non solo, e non tanto, il nucleo qualitativamente rilevato, l’acropoli, la sua «zona più veridica e decisa»; quanto piuttosto il suo nucleo vibrante e incandescente; o, diciamo con formula ermeneutica cara a Spitzer, il suo «etimo spirituale». Quello che sta al critico indagare ed estrarre – con l’attitudine metodica definita, in una lettera allo stesso Cecchi, «onestà sperimentale»[4] – così doppiando l’operazione dello stesso autore nei confronti della sua realtà. Ma direi che su questo punto si possa considerare passata in giudicato, ormai, la premessa di Pier Vincenzo Mengaldo al «profilo» del ’98: «contrariamente ai detti volgari, Contini non era per nulla un critico edonista e impressionistico, ma era in sostanza un critico intellettuale, filosofico, benché avverso ad ogni forma di speculativismo»[5].
  Passando al secondo (e più problematico) corno del problema, richiamandosi all’interpretazione spitzeriana del “circolo ermeneutico” già Adelia Noferi nel suo pionieristico saggio del ’68 sulla «Visione legislativa» di Gianfranco Contini aveva buon gioco a far notare come «la “parzialità”», inevitabilmente indotta proprio dal metodo “sperimentale” della «critica verbale», da Contini non venga affatto «posta come inattingibilità dell’oggetto, trascendente nella sua totalità (e quindi raggiungibile, nell’ambito di diverse esperienze culturali, solo per tramiti irrazionali), ma al contrario, come strumento razionale necessario (necessaria definizione di limiti) per poter raggiungere una conoscenza concreta, che, simbolicamente, possa rappresentare la totalità»[6].
Strumento da impiegare in vista d’altro e di concerto con altro, o per continianamente dire in funzione d’altro dunque, e non «ferro» del mestiere fine a se stesso e passepartout universale: ma che il microscopio facesse parte dell’attrezzatura apprestatasi da Contini, non può essere messo in dubbio. Lo dice lui stesso, del resto – con quel quanto di provocazione che ben gli si conosce, nei confronti della più tradizionale sensiblerie umanistica –, in diversi luoghi del corpus. Si ricorderà come, non senza il suo più tipico frisson terroristico appunto, nella celebre intervista a Renzo Federici sui Ferri vecchi e quelli nuovi, del ’67, Contini dichiarasse «morta la critica come genere letterario, in senso umanistico», per constatare che «la critica, tanto la buona quanto la cattiva, si trasferisce in laboratorio»[7]. E una simile attitudine, per venire a giorno, non dovette certo attendere l’affermarsi dei ferri nuovi dello strutturalismo («l’attuale fanatismo […] per la linguistica strutturale»)[8]: se è vero che nella prolusione alla Facoltà di Magistero fiorentina del ’53, sulla «Vita» francese di Sant’Alessio, Contini già ironizzava su se stesso come colui, «mi pare di sentir mormorare», che «ha trasformato l’Aula Magna in laboratorio» (per proseguire a spiegare, senza scherzi stavolta, come l’adozione di certe «macchine», nelle «officine di noi umanisti», non miri ad altro che alla «salvaguardia delle proprie operazioni»: ed equivalga insomma ad «amore della verità»)[9].
Ma già nella famosa, citatissima protasi teorica delle Lettura su Michelangelo del ’37 Contini definisce «l’antologista», cioè se stesso, «un naturalista che vi porta i suoi strumenti, il suo microscopio», appunto: e che proprio tale strumento usa per mostrare, ingrandita sino ad apparire del tutto evidente, il manifestarsi della poesia agli astanti (non senza, beninteso, «una cert’aria d’intimidazione»)[10]. Altrove però la consuetudine collo stesso apparecchio appare, a chi lo impiega, assai meno appagante. Nelle bellissime lettere a Cecchi il mood spleenetico (che in esse sorprende, se non altro, per intensità) gli fa definire spesso in termini di frustrazione e alienazione, il diuturno lavoro filologico; in una dell’agosto ’42 si legge, in clausola: «Lavoro molto, ma ai miei microscopî e così mi tesso veli tutt’intorno per otturare gli orizzonti dell’immaginazione»[11]. Come se la severa divisa del filologo equivalesse a una specie di cilicio punitivo, ben tessuto velo metodologico a bella posta indossato, con atteggiamento ascetico, da un critico viceversa tentato dai demoni dell’immaginazione.
E come se appunto le identità del filologo romanzo e del critico «nato contemporaneista» equivalessero davvero a un Contini Uno e un Contini Due, come pirandellianamente s’è espresso di recente Cesare Segre (aggiungendo – a sintesi fra i precedenti? – un Terzo Uomo nel Contini “politico”)[12]; se non addirittura a un Jekyll e uno Hyde l’un contro l’altro armati: l’uno che ruba tempo ed energie all’altro, che frustra gli entusiasmi e, col proprio rigido carapace metodologico, ottura gli orizzonti dell’altro. È possibile che la dicotomia del Croce della Poesia di Dante, «o si legge o si commenta», a più riprese ripresa da Contini[13], valesse per lui proprio a distinguere gli atti (o «esercizî») di lettura, appunto – ascritti al godimento musicale dell’esecuzione [14]–, dai lavori specificamente ecdotici e di commento. In realtà, come proprio Segre ha limpidamente mostrato, Contini era del tutto consapevole di come questi due campi – quello del «romanista» e dell’«italianista» da una parte, e dall’altra quello del «critico militante», come egli stesso si definisce in un curriculum inviato a Luigi Russo nel ’42, ricordato a questo convegno anche da Roberto Antonelli – fossero collegati dal «ponte di congiunzione» della «critica linguistica»[15]; e che insomma il suo primato consistesse proprio nella passione contemporaneistica importata nella filologia («senza un poco di magnetismo, o di poesia, non si dà neppure scienza», suona memorabile il Ricordo di Joseph Bédier del ’39)[16]: almeno pari, s’intende, alla tanto più evidente e dichiarata operazione inversa. Nella Risposta a un’inchiesta sull’università pubblicata su «Primato» nel ’41, Contini afferma – lo si ricorderà – che «nessuna ricerca critica e, in genere, linguistica è didatticamente concepibile, ai suoi inizî, se non come esercizio sui contemporanei»; ma è solo «provvisoria e di comodo», in tale attività, la «soppressione del primo termine»: in quella che Contini chiama «quella dialettica di filologia e di presenza che fa la vita della cultura»[17].
In linea generalissima si può ricondurre a questa doppia tensione di filologia e presenza, questa doppia carica elettrica (più che doppia identità) che rappresenta davvero – nella storia della critica non solo italiana – il proprium di Contini. Ossia il principio della differenzialità da lui enunciato (connotato oltretutto dall’attributo sperimentale, che ci suona ormai strategico) in un altro passaggio dell’intervista a Federici: «non esistono categorie a-priori in critica, in qualunque tipo di critica. Mi sembra che ci sia un primum, ma assolutamente sperimentale: cioè il critico, posto innanzi a un tessuto poetico, reperisce una differenzialità. Ora, questa differenzialità può esistere tutta all’interno del tessuto, si ha cioè una sorta di salto, di junctura, per un verso; e per l’altro si ha uno stacco del testo rispetto a quella che si suol chiamare la media, insomma uno stato di tensione»[18]. Che è, questa addotta dall’interessato, la migliore spiegazione del gusto prevalente in Contini (di là da manieristiche «poligamie» tardivamente ammesse)[19] per le scritture discontinue, in stato di tensione, e difformi dalla media – diciamo insomma per l’espressionismo d’ogni grado e maniera. Ma se dalla parte objecti ci spostiamo a quella subjecti, ci accorgiamo come non venga meno, nelle concrete pratiche di lettura, questa «tensione differenziale […] che si ritrova nell’esperienza prima del critico»[20].
Nella protasi autoreferenziale a un altro saggio importante sul piano del metodo (livello, questo, da Contini quasi sempre tenuto nella sfera dell’implicito) – Serra e l’irrazionale del ’47 – si legge di un’adesione alla sua «udienza impregiudicata ai testi» e al suo «processo di approssimazione successiva»[21]; ma anche di un discostarsi dal suo «proporsi il testo puro, vicinissimo», il quale in Serra comporta la relativizzazione della «componente essenziale, l’auscultazione dell’opera»[22]. Viceversa, ha osservato Adelia Noferi, Contini opta per una «“tensione di allontanamento” (specificamente scientifica) che permette, nella “chiusura” della indagine, la “intelligibilità” dell’oggetto»[23]. Ma di contro è nello stesso Serra, qualche pagina prima, che Contini poteva trovare inaugurata «una parte dell’atteggiamento della critica moderna», ossia appunto la tensione, la «differenzialità» di cui sopra. Per descrivere la quale viene evocato, dallo sbrigliato metaforeggiare continiano, un ulteriore strumento ottico: «la gerarchizzazione, la messa in prospettiva e il rilievo come stereoscopico […] del testo letto»[24]. Il quale mette in grado l’orecchio attento dell’interprete di differenziare, appunto, la liscia superficie rappresentata dal testo: per d’improvviso avvertirne il rilievo tridimensionale.
Sia come sia, quel che è certo è che si comincia a constatare, nell’officina di Contini, la presenza di una quantità d’altri strumenti percettivi: in aggiunta al microscopio ominoso. Nel breve Avviso premesso agli Altri esercizî nel ’72 (la raccolta appunto in cui figura il corpo a corpo con Serra) alla tipologia fattasi seriale dell’«esercizio», dall’artefice avvertito ormai come «genere», viene giustapposto il momento in cui «allo sguardo miope e microscopico se ne sostituiva uno macroscopico o grandangolare, e alle analisi l’apodissi di concentrati epigrammatici, con un connesso senso delle proporzioni»[25]. Anche se non è tanto in questo libro che si possono trovare esempi, di tale apertura grandangolare, quanto nell’immediatamente precedente Varianti e altra linguistica: che accoglieva infatti, come recitava l’Avviso relativo, gli scritti che «non appartengono alla mera tecnica filologica o che, se hanno intenzione critica, non usano gli strumenti tradizionali nella prima metà del secolo»[26]. È dunque nell’ingens sylva adunata nel ’70 – prima raccolta di saggi licenziata dall’autore da quasi trent’anni a quella parte – che si trovano i capitoli più trasgressivi, per oltranza interpretativa e innovazione metodologica, mai vergati dal loro autore. Diciamo insomma le sue «bombe», parafrasando l’attacco del saggio del ’49 Sul metodo di Roberto Longhi[27]; o insomma i suoi contributi più macroscopici o grandangolari (tranne il capitolo maggiore, entro questa serie, che è da considerarsi la “voce” Treccani sull’Espressionismo letterario, giunta tardi – nel ’77 – e allegata dunque ai successivi Ultimi esercizî ed elzeviri).
Quattro sono, per il percorso che vado affrontando, tali passaggi-chiave: il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare del ’43 – posto dall’autore, nel volume, in sede incipitaria –; il dittico di quella che si sarebbe poi chiamata critique génétique, applicata a Proust fra il ’47 e il ’53; il gran saggio su Dante come personaggio-poeta della «Commedia» del ’57; e infine l’Introduzione alla «Cognizione del dolore» di Gadda, del ’63. Si noti intanto la somiglianza, all’incipit, dei saggi strategici sui due capostipiti della nostra letteratura: a proposito della traiettoria correttoria e variantistica di Petrarca viene evocata da Contini «la scuola poetica uscita da Mallarmé, e che ha in Valéry il proprio teorico» (la quale «considera la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile»)[28]; a proposito invece della Commedia e della scissione, in essa osservabile, fra «personaggio che dice “io”» e quello che la narratologia a venire definirà “autore empirico”, Contini chiama a teste, come «metafora», l’esperienza del «più grande scrittore dei nostri tempi» cioè Proust[29] (premettendo in abbrivo in forma quasi scaramantica, a giustificare questo suo tentativo di richiamarsi all’attualità per illuminare eventi di culture sopite o remote, la formula crociana secondo cui ogni storia, si sa, è storia contemporanea; ma subito dopo badando ad allontanare da sé la vitanda macchia dell’anacronismo – pur ammettendo, qualche riga sotto, quella d’una strumentale catacresi: dall’indesiderato effetto ingrato, e si dica pure snobistico)[30]. Ma già nell’introduzione alle Rime, che è addirittura del ’39, il nome di Eliot – seppure evocato en passant – era potuto suonare non meno ingrato, si capisce, all’orecchio di qualche lettore meno avventuroso[31].
 Ma è nella grande Introduzione del ’63, in cui si ricapitola nel nome di Gadda la «funzione» che porta il suo nome, e lungo di essa si risale – per li rami d’un albero genealogico d’immane estensione e profondità – sino a Dante e oltre (come chiudendo il circolo ermeneutico aperto sei anni prima), che il metodo stereoscopico di Contini compie la sua esperienza decisiva – nonché, ai miei occhi, la più gravida di futuro. Il primo incontro, fra lo scrittore e il suo critico, risaliva a quasi trent’anni prima ed è testimoniato da una lettera incredula – fatta conoscere tempo fa da Maria Antonietta Grignani – di Gadda a Silvio Guarnieri: «Abbiamo conosciuto a Roma e qui Gianfranco Contini, critico e poliglotta e pozzo di scienza a 22 anni, e ne siamo tutti un po’ emballés. Si occupa di Bonvesin della Riva, oltre che di Montale e Bonsanti, nonché Gadda»[32]. A sbalordire ed emballer, nell’autore del Castello di Udine, è dunque la capacità, da parte di quel giovane pozzo di scienza, di padroneggiare repertori così distanti fra loro da essere, sino ad allora, generalmente vegliati da corporazioni di addetti ai lavori gelosi, allora non meno di oggi, del proprio claustrofobico specialismo; sicché la qualifica di poliglotta, ai nostri occhi almeno, non vale solo e tanto per la stupefacente padronanza delle diverse lingue storiche da parte del filologo, bensì appunto per quella del critico nei confronti dei diversi, e fra loro così distanti, sistemi espressivi (Gadda non lo poteva sapere, ma era quello pure il tempo – davvero leggendario, visto dalla nostra prospettiva – dei non meno poliglotti, in tutti i sensi, Spitzer e Curtius e Auerbach).
  Il termine funzione rimonta certo al lessico scientifico (nella fattispecie matematico) di preferenza adibito da Contini nelle sue scorribande metaforiche. Ma può essere letto alla luce del suo precedente uso in altri due luoghi strategici. Nel già citato Serra e l’irrazionale del ’47, uno dei punti di massima distanza dall’autore dell’Esame di coscienza di un letterato non ci sorprende sia nel ravvisare la sua scarsa o nulla sensibilità alla «differenza fra abbozzo e correzione»: talché, commenta Contini piccato, «non siamo lontani, parrebbe da un concetto della letteratura come ornato, antipoda alla vera critica linguistica che persegue una funzione»[33]. Ma è soprattutto nel Longhi prosatore del ’55 che fa la sua comparsa un’altra mirabile invenzione stereoscopica di Contini, l’enuclearsi di una “funzione Longhi”, diciamo, che contempla «scrittori “in funzione d’altro”»[34], da Galilei in avanti. Il termine funzione, qui, torna al suo senso denotativo: che però non dobbiamo mancare di leggere, in filigrana, in presenza del suo survoltaggio connotativo. La funzione Gadda, detto in altri termini, è quel gesto concettuale che prende Gadda in funzione del rilevamento d’una tradizione di lungo periodo – quella appunto del plurilinguismo espressionistico – senza però perdere di vista, con ciò, il referente primo. Al modo stesso in cui l’uso di Proust in funzione di quella che Contini chiama la sua Idea di Dante non vuole certo ridurre il primo, com’è noto da lui amatissimo, a un mero uso strumentale.
Nel grande saggio variantistico del ’47 su Proust, sostiene Contini che errato sarebbe limitarsi alla visione «minuziosa e microscopica della realtà», nella Recherche, facendosi sfuggire l’altra, la «visione telescopica e perciò legislativa»[35] che conoscitivamente, nel testo, assume un’importanza tanto maggiore. Come si ricorderà, Adelia Noferi aveva eletto proprio questa pagina a segno della capacità continiana di «percepire sincronicamente le direzioni evolutive, diacroniche dell’oggetto»[36]; e in seguito Roberto Antonelli ha accostato con finezza il metodo di Contini al «procedimento teorizzato da Proust nel Jean Santeuil e nella Recherche e descritto da Contini in due saggi specifici»: ossia l’intermittence du coeur che rivela l’essence des choses quale «contatto d’un passato e d’un presente»[37]: per cui «il tempo […] diviene “il mediatore fra identità e alterità”»[38]. E ha altresì accostato i pastiches proustiani alla categoria impiegata da Contini nel suo primo attacco alla testualità di Gadda, il celebre e fulminante Carlo Emilio Gadda, o del ‘pastiche’ con questo titolo uscito su «Solaria» nel ’34 (prima di confluire nei primi Esercizî col titolo Primo approccio al «Castello di Udine»)[39]. Che del resto «il caso Carlo Emilio Gadda», per usare appunto le parole memorabili di quell’incipit[40], sia per Contini accostabile a quello proustiano lo dice proprio, e anche in questo caso sin dall’incipit, l’Introduzione del ’63 (associazione talmente intima da turbare, come da famigerata aneddotica epistolare, il diretto interessato)[41].
Ma pare a me che la visione telescopica – con l’introdurre nell’arsenale del nostro pozzo di scienza un terzo strumento ottico: fra tutti il più formidabile – possa candidarsi a sigla di tutta quella che, si sarà capito, preferirei chiamare critica contemporanea, di Contini (onde evitare il già di per sé antipatico sintagma critica militante: che nel caso specifico mi pare – a dirla tutta – clamorosamente limitativo). Sempre nel “traumatico” incipit proustiano di Dante come personaggio-poeta, provvede del resto lo stesso Contini ad affiancare (contro l’ipotesi «alternativa o disgiuntiva») «la dimensione del microscopio e quella del telescopio», stavolta esplicitamente attribuendo la metafora a Proust (e da lui “traducendo”, in glossa: «la dimensione dell’aneddoto e la dimensione della legge», che «si condizionano reciprocamente»)[42].
Il passo in questione si trova nel finale dell’ultimo volume della Recherche, Le Temps retrouvé. Che è fra l’altro l’unica pagina di Proust in cui l’“io-personaggio” e il “narratore empirico” (per dirla in gergo narratologico) si avvicinano sino, forse, a coincidere. Nel passo in questione, si ricorderà, rievocata è la pubblicazione del primo volume dell’opera, e con puntiglio l’autore vi protesta come, al fine di svolgere le osservazioni dai suoi primi lettori definite «al microscopio», lui avesse piuttosto impiegato, appunto, «un telescopio»: «per scorgere cose piccolissime, è vero, ma per il fatto d’essere situate a una grande distanza, e ciascuna delle quali era un mondo»[43]. In effetti nel cosmo di Proust, in quello che Georges Poulet ha definito (così marcando, fra l’altro, il proprio decisivo scarto da Bergson) il suo tempo spazializzato[44], una distanza pura accomuna gli oggetti osservati rispetto all’osservatore; ma intercorre anche fra l’uno e l’altro degli stessi oggetti: nel primo volume le due «parti» che si spartiscono l’universo fuori da Combray, il côté di Méséglise e quello di Guermantes, sono «l’una lontana dall’altra, l’una inconoscibile all’altra, nei vasi chiusi e non comunicanti di differenti pomeriggi»[45]. Proprio per questa duplicità – che non si colloca dunque solo fra piani temporali, ma connota la sua intera gnoseologia – si è potuto parlare, anche a proposito di Proust, di visione stereoscopica[46].
Il telescopio serviva a Proust per superare grandi distanze, nello spazio non meno che nel tempo. Lo si può considerare un formidabile potenzialmente modernista del cannocchiale metaforico a suo tempo vagheggiato dal barocco Emanuele Tesauro. Ma non era considerata da Contini appunto una metafora se non addirittura una catacresi, l’esperienza proustiana, nel saggio su Dante personaggio-poeta? Proprio tale catacresi, questo inciampo della metafora su se stessa, è il segno di un anacronismo: da intendersi in senso ben più profondo di quello da sé allontanato da Contini nel ’57. Ma è soprattutto il segno, più in generale, della sua critica contemporanea: che è tale, voglio dire, non solo quando si dedica a Gadda o a Pizzuto – ma pure, quando è grande, nell’affrontare Dante o Petrarca. In una conferenza del 2006 assurta già a piccolo classico, ha scritto Giorgio Agamben che «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»[47]. Più decisamente, la contemporaneità viene da lui definita «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo»[48]. Non si può non pensare alla tensione differenziale inseguita da Contini nei “suoi” autori: nonché a quella da lui stesso incarnata nel sottoporli ai propri infaticabili esercizî[49].
È verosimile che Agamben prenda questa sua definizione di anacronismo da un grande pensatore contemporaneo (cioè anacronistico) dell’arte come Georges Didi-Huberman, un cui straordinario saggio del 2000 è stato tradotto, da noi, come Storia dell’arte e anacronismo delle immagini: i suoi spiriti-guida sono Aby Warburg e Walter Benjamin ma Didi-Huberman non manca di convocare, entro la propria costellazione, la memoria involontaria di Proust[50]. L’incipit del saggio descrive un’immagine che si trova qui a Firenze, nel convento di San Marco: un riquadro dell’affresco del Beato Angelico, la Madonna delle ombre, «picchiettato di macchie erratiche, produce come una deflagrazione: un fuoco d’artificio colorato che reca ancora traccia del suo scoppiettio originario (il pigmento fu schizzato a distanza, a pioggia, in un attimo) e che, da allora, si è reso perenne come una costellazione di stelle fisse». Didi-Huberman ne induce – con mossa anacronistica che non può non ricordare quella di Contini che legge Dante alla luce di Proust – una connotazione della «superficie pittorica» del Beato Angelico «facilmente riconducibile all’etichetta di arte “astratta”»[51]. Ma a me preme soprattutto trattenere l’immagine della costellazione di stelle fisse cui il critico paragona la superficie picchiettata dell’affresco. Perché anche Agamben – a sua volta lettore di Dante come di Proust, ovviamente – impernia la sua conferenza Che cos’è il contemporaneo su un’immagine siderale. Poco prima aveva detto che «può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità»[52], e ora aggiunge: «Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle risplendono circondate da una fitta tenebra». Questa tenebra si deve al fatto che «nell’universo in espansione, le galassie più remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci». Sicché «quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci». Essere contemporanei «significa essere capaci di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare»[53].
È vero: la visione telescopica – quella di un’autentica contemporaneità – è capace di superare le distanze più spaventevoli. Ma la vicinanza alla quale ci ammette è ingannevole. Le luci che ammiriamo nel firmamento corrispondono a eventi consumatisi in un tempo infinitamente remoto, in uno spazio infinitamente distante. Ma all’appuntamento al quale ci invitano, ancorché irrealizzabile – e anzi, proprio perché tale –, è impossibile resistere.
Note
[1] Sull’antologia del ’68, le più condivisibili restano per me le pagine del compianto Guglielmo Gorni, Letteratura dell’Italia unita e letteratura della nuova Italia, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi letterari del secondo Novecento, Atti del convegno di Napoli, 2-4 dicembre 2002, a cura di A. R. Pupino, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. 157-71.
[2] Rinvio al mio Cecchi, Longhi, Contini: il libro segreto, in Andrea Cortellessa, Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 61-76.
[3] Gianfranco Contini, Cecchi e il «libro segreto», in «Letteratura», aprile-giugno 1941; poi in Id., Un anno di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1942; infine in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 19743, pp. 291-301.
[4] Contini a Cecchi, Domodossola, 12 novembre [1932], in Id., L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano, Adelphi, 2000, p. 4.
[5] Pier Vincenzo Mengaldo, Gianfranco Contini, in Id., Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 50-56: 51 (e ancora, dello stesso, l’ulteriore e più argomentata messa a punto: La critica militante di Gianfranco Contini, in «Strumenti critici», n.s., XVII, 2, maggio 2002, pp. 191-206: specie alle pp. 192-200).
[6] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini [1968], in Ead., Le poetiche critiche novecentesche, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 53-135: 60-61.
[7] I ferri vecchi e quelli nuovi. Ventuno domande di Renzo Federici a Gianfranco Contini [1968], in Gianfranco Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ricordo di A. Roncaglia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, pp. 43-66: 64-5.
[8] Ivi, p. 44.
[9] Id., La «Vita» francese «di Sant’Alessio» e l’arte di pubblicare i testi antichi [1970], in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica, 1932-1989, a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, vol. II, pp. 957-85: 983-4.
[10] Id., Una lettura su Michelangelo [1937], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 242-58: 242.
[11] Contini a Cecchi, Domodossola, 27 agosto [1942], in Id., L’onestà sperimentale, cit., p. 51.
[12] Cfr. Cesare Segre, Gianfranco Contini uno, due e tre [2011], in Id., Critica e critici, Torino, Einaudi, 2012, pp. 64-76.
[13] Cfr. per esempio Gianfranco Contini, Filologia ed esegesi dantesca [1965], in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1970), Torino, Einaudi, 1970, pp. 407-32: 409 (post-saussurianamente “traducendo”, nella pagina seguente: «Un atto critico determinato o riguarda la sfera dell’espressione pura o concerne la plaga dei rapporti linguistici»).
[14] Cfr. I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 65; Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1989, p. 223.
[15] «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 47-9.
[16] Gianfranco Contini, Ricordo di Joseph Bédier [1939], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 358-71: 360.
[17] Id., Risposta a un’inchiesta sull’università [1941], ivi, pp. 387-9: 387.
[18] I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 53.
[19] Cfr. Diligenza e voluttà, cit., p. 131.
[20] I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 54.
[21] La nota è premessa all’edizione del saggio di Contini su «L’immagine», 6-7, gennaio-febbraio 1948, p. 345; posposta in quella in Scritti in onore di Renato Serra, Milano, Garzanti, 1948, p. 114; tagliata nella sua sede d’approdo in Altri esercizî (l’ha riproposta e valorizzata Franco Contorbia, Una scheda per Contini politico, in Incontri con Gianfranco Contini, Domodossola, Città di Domodossola, 2011, pp. 31-8: 34).
[22] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale [1948], in Id., Altri esercizî (1942-1971), Torino, Einaudi, 1972, pp. 77-100: 92.
[23] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini, cit., p. 61n.
[24] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale, ed. cit., p. 83.
[25] Id., Avviso, ivi, pp. VII-VIII: VIII.
[26] Id., Avviso, in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. VII-VIII: VIII.
[27] Id., Sul metodo di Roberto Longhi [1949], in Id., Altri esercizî, cit., pp. 101-10: 101 (la longhiana «bomba» in questione è il Giudizio sul Duecento pubblicato nel 1948).
[28] Id., Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare [1943], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 5-31: 5.
[29] Id., Dante come personaggio-poeta della «Commedia» [1958], pp. 335-61: 335. Naturalmente il sesto grado di questa metafora trascendentale non era sport per tutti. Proprio a proposito di Dante, in una lettera del ’46 a Theophil Spörri resa nota da Ottavio Besomi, pronunciava Contini – nel ringraziare il corrispondente per l’invio d’un suo scritto dantesco – il suo caveat contro «un certain anachronisme spirituel» cui rischia di condurre la «prodigieuse faculté d’“actualisation”»: Ottavio Besomi, Introduzione alla giornata zurighese: come lavorava Contini, in «Filologia e critica», XV, 2-3, maggio-dicembre 1990, numero monografico Su / Per Gianfranco Contini, pp. 185-90: 189-90.
[30] Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», cit., p. 335.
[31] Cfr. Id., Introduzione alle Rime di Dante [1939], ivi, pp. 319-34: 325-6. Nel suo bel ricordo di Contini Giulio Ungarelli ha di recente ricordato l’episodio come una «felice sorpresa», «bella e un po’ provocatoria»: Lettori di Contini, in «Belfagor», LXV, 389, 30 settembre 2010, pp. 521-46: 527.
[32] Carlo Emilio Gadda a Silvio Guarnieri, 12 maggio 1934 (cit. da Maria Antonietta Grignani, Introduzione alla giornata pavese: Gianfranco Contini e Pietro Ciapessoni. Un alunno d’eccezione, un rettore lungimirante, in Su / Per Gianfranco Contini, cit., pp. 179-84: 182). Sei giorni dopo prende le mosse il carteggio fra i due (raccolto una prima volta da Contini presso Garzanti nel 1988, si legge ora in Gianfranco Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini e G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009).
[33] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale, ed. cit., p. 89. Corsivo mio.
[34] Id., Longhi prosatore [1955], ivi, pp. 111-22: 111.
[35] Id., Introduzione alle «paperoles» [1947], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 69-110: 73.
[36] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini, cit., p. 112.
[37] Gianfranco Contini, Jean Santeuil, ossia l’infanzia della Recherche [1953], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 111-37: 120.
[38] Ivi, p. 136. I due passi sono ben collegati e valorizzati da Roberto Antonelli, Esercizî di lettura di Gianfranco Contini, in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, Le Opere, vol. IV, Il Novecento, tomo II, La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 339-406: 367-8.
[39] Non è stato l’unico suo lettore, Antonelli, a proporre il modello gnoseologico (come in questo caso) di Proust, alle spalle dei procedimenti di Contini. In termini invece stilistico-retorici, Pier Vincenzo Mengaldo ha potuto parlare per esempio di un debito nei confronti del «modo di comporre dell’artista moderno costruttivo e intellettuale per eccellenza, e il più caro a Contini, Proust», «arcimodello della tecnica critica di Contini (o di una sua parte cospicua)»: quella che procede per definizione di un fenomeno (per es., l’espressionismo) + rilevamento dei suoi tratti specifici in un determinato autore + ulteriore definizione, corretta e arricchita + ampliamento ulteriore del concetto (Profili di critici del Novecento, cit., p. 55). Ancora su Proust, e più in generale «la sua gnoseologia poetica» come «bussola fondamentale di Contini», cfr. dello stesso La critica militante di Gianfranco Contini, cit., p. 195.
[40] Gianfranco Contini, Primo approccio al «Castello di Udine» [1934], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 151-7: 151.
[41] Si vedano le due lettere scritte in rapida successione da Gadda a Contini, nell’aprile 1963, una volta ricevuto in anteprima «lo stupendo saggio» destinato a introdurre di lì a poco la princeps della Cognizione del dolore (in Gianfranco Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, ed. cit., pp. 189-92).
[42] Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», cit., p. 336.
[43] Marcel Proust, Il Tempo ritrovato [1927], in Id., Alla ricerca del tempo perduto, traduzione di G, Raboni, edizione diretta da L. De Maria, commento di A. Beretta Anguissola e D. Galateria, vol. IV, Milano, Mondadori, 1993, pp. 335-761: 752.
[44] Cfr. Georges Poulet, Lo spazio di Proust [1963], traduzione di G. M. Posani, Napoli, Guida, 1972.
[45] Marcel Proust, Dalla parte di Swann [1913], in Id., Alla ricerca del tempo perduto, ed. cit., vol. I, prefazione di C. Bo, Milano, Mondadori, 1983, pp. 3-515: 165.
[46] Cfr. Roger Shattuck, Proust’s binoculars. A study of memory, time, and recognition in «A la recherche du temps perdu», New York, Random House, 1963; Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna, il Mulino, 1991; Sara Guindani, Lo stereoscopio di Proust. Fotografia, pittura e fantasmagoria nella Recherche, presentazione di M. Carbone, Milano, Mimesis, 2005.
[47] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, nottetempo, 2008, pp. 8-9. Corsivo mio.
[48] Ivi, p. 9.
[49] Vale la pena ricordare che a Contini è dedicato il più celebre saggio letterario di Agamben: Pascoli e il pensiero della voce [1982], in Id., Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura [1996], Roma-Bari, Laterza, 20102, pp. 61-72.
[50] Cfr. Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini [2000], traduzione di S. Chiodi, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, per esempio a p. 22 e a p. 219.
[51] Ivi, pp. 11-3. Naturalmente il pensatore francese bada a distinguere la disciplina anacronistica che identifica tout court con la «storia dell’arte» (nella quale l’anacronismo costituisce «la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, la complessità, la sovradeterminazione delle immagini»: p. 18) da quello che potremmo definire anacronismo volgare («regola d’oro: non “proiettare”, come si dice, le nostre realtà – i nostri concetti, gusti, valori – sulle realtà del passato, oggetto della nostra indagine storica»: p. 16) contro il quale, come abbiamo visto, Contini era il primo a mettere in guardia. Ma appunto: «Per accedere ai molteplici tempi stratificati, alle sopravvivenze, alle lunghe durate del più-che-               passato mnestico, è necessario il più-che-presente di un atto reminiscente: uno choc, uno strappo nel velo, un’irruzione o un’apparizione del tempo, quel che Proust e Benjamin hanno efficacemente ricondotto alla specie della “memoria involontaria”»: p. 22.
[52] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, cit., p. 14.
[53] Ivi, pp. 15-6.

Testo ripreso da | 20 febbraio 2015

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