È uscito da poco il volume Gianfranco Contini 1912-2012. Attualità di un protagonista del Novecento (a cura di Lino Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2014), che contiene gli atti del convegno tenutosi a Pisa, alla Scuola Normale Superiore, e a Firenze, alla Fondazione Ezio Franceschini e al Gabinetto G.P. Vieusseux, dall’11 al 13 dicembre 2012. Si presenta qui il testo della relazione di Andrea Cortellessa. Gli altri interventi contenuti nel volume, dopo la premessa del curatore e di Gloria Manghetti, sono di Roberto Antonelli, Marco Mancini, Lino Leonardi, Claudio Giunta, Arnaldo Soldani, Rosanna Bettarini, Domenico De Martino, Paola Italia, Franco Zabagli e Giancarlo Breschi.
Il telescopio dell’anacronista. Contini contemporaneo
di Andrea Cortellessa
Sono di due principali fattispecie i capi d’imputazione ascritti, per solito, al modus operandi di
Gianfranco Contini (in vita, con tutte le cautele del caso; in morte,
di contro, in maniera ribalda e quasi sempre villana). Il primo gli
attribuisce modi solo superficiali, paghi in misura
arrogantemente esclusiva della patina stilistica dei testi, della
descrizione della loro apparecchiatura formale; il secondo un’attitudine
gelidamente microscopica, laboratoriale, disinteressata alla
visione d’insieme di un’opera e, tanto meno, di un periodo storico, un
genere letterario o un plesso teorico. Precipitato ultimo, scandaloso
come-volevasi- dimostrare di questa doppia, presunta inadeguatezza, le
scelte “militanti” del contemporaneista (in primis, per entità dell’opera e suo impatto culturale, nonché per spregiudicatezza e oltranza idiomatica delle scelte, l’antologia Letteratura dell’Italia unita del 1968)[1].
Quanto al mito d’un Contini superficiale, in altra occasione[2]
ho provato a mostrare quanto poco regga a fronte di certi nuclei
d’investimento primario, da parte del critico, come quello Longhi-Cecchi
a proposito del quale si trovò a coniare il sintagma «libro segreto»[3].
Che rappresenta in un’opera non solo, e non tanto, il nucleo
qualitativamente rilevato, l’acropoli, la sua «zona più veridica e
decisa»; quanto piuttosto il suo nucleo vibrante e incandescente; o,
diciamo con formula ermeneutica cara a Spitzer, il suo «etimo
spirituale». Quello che sta al critico indagare ed estrarre – con
l’attitudine metodica definita, in una lettera allo stesso Cecchi,
«onestà sperimentale»[4] – così doppiando l’operazione dello stesso autore nei confronti della sua realtà.
Ma direi che su questo punto si possa considerare passata in giudicato,
ormai, la premessa di Pier Vincenzo Mengaldo al «profilo» del ’98:
«contrariamente ai detti volgari, Contini non era per nulla un critico
edonista e impressionistico, ma era in sostanza un critico
intellettuale, filosofico, benché avverso ad ogni forma di
speculativismo»[5].
Passando al secondo (e più
problematico) corno del problema, richiamandosi all’interpretazione
spitzeriana del “circolo ermeneutico” già Adelia Noferi nel suo
pionieristico saggio del ’68 sulla «Visione legislativa» di Gianfranco Contini
aveva buon gioco a far notare come «la “parzialità”», inevitabilmente
indotta proprio dal metodo “sperimentale” della «critica verbale», da
Contini non venga affatto «posta come inattingibilità dell’oggetto,
trascendente nella sua totalità (e quindi raggiungibile, nell’ambito di
diverse esperienze culturali, solo per tramiti irrazionali), ma al
contrario, come strumento razionale necessario (necessaria definizione
di limiti) per poter raggiungere una conoscenza concreta, che,
simbolicamente, possa rappresentare la totalità»[6].
Strumento da impiegare in vista d’altro e di concerto con altro, o per continianamente dire in funzione d’altro dunque, e non «ferro» del mestiere fine a se stesso e passepartout universale: ma che il microscopio
facesse parte dell’attrezzatura apprestatasi da Contini, non può essere
messo in dubbio. Lo dice lui stesso, del resto – con quel quanto di
provocazione che ben gli si conosce, nei confronti della più
tradizionale sensiblerie umanistica –, in diversi luoghi del corpus. Si ricorderà come, non senza il suo più tipico frisson terroristico appunto, nella celebre intervista a Renzo Federici sui Ferri vecchi e quelli nuovi,
del ’67, Contini dichiarasse «morta la critica come genere letterario,
in senso umanistico», per constatare che «la critica, tanto la buona
quanto la cattiva, si trasferisce in laboratorio»[7]. E una simile attitudine, per venire a giorno, non dovette certo attendere l’affermarsi dei ferri nuovi dello strutturalismo («l’attuale fanatismo […] per la linguistica strutturale»)[8]:
se è vero che nella prolusione alla Facoltà di Magistero fiorentina del
’53, sulla «Vita» francese di Sant’Alessio, Contini già ironizzava su
se stesso come colui, «mi pare di sentir mormorare», che «ha trasformato
l’Aula Magna in laboratorio» (per proseguire a spiegare, senza scherzi
stavolta, come l’adozione di certe «macchine», nelle «officine
di noi umanisti», non miri ad altro che alla «salvaguardia delle proprie
operazioni»: ed equivalga insomma ad «amore della verità»)[9].
Ma già nella famosa, citatissima protasi teorica delle Lettura su Michelangelo
del ’37 Contini definisce «l’antologista», cioè se stesso, «un
naturalista che vi porta i suoi strumenti, il suo microscopio», appunto:
e che proprio tale strumento usa per mostrare, ingrandita sino
ad apparire del tutto evidente, il manifestarsi della poesia agli
astanti (non senza, beninteso, «una cert’aria d’intimidazione»)[10].
Altrove però la consuetudine collo stesso apparecchio appare, a chi lo
impiega, assai meno appagante. Nelle bellissime lettere a Cecchi il mood
spleenetico (che in esse sorprende, se non altro, per intensità) gli fa
definire spesso in termini di frustrazione e alienazione, il diuturno
lavoro filologico; in una dell’agosto ’42 si legge, in clausola: «Lavoro
molto, ma ai miei microscopî e così mi tesso veli tutt’intorno per
otturare gli orizzonti dell’immaginazione»[11]. Come se la severa divisa del filologo equivalesse a una specie di cilicio punitivo, ben tessuto velo metodologico a bella posta indossato, con atteggiamento ascetico, da un critico viceversa tentato dai demoni dell’immaginazione.
E come se appunto le identità del
filologo romanzo e del critico «nato contemporaneista» equivalessero
davvero a un Contini Uno e un Contini Due, come pirandellianamente s’è
espresso di recente Cesare Segre (aggiungendo – a sintesi fra i
precedenti? – un Terzo Uomo nel Contini “politico”)[12];
se non addirittura a un Jekyll e uno Hyde l’un contro l’altro armati:
l’uno che ruba tempo ed energie all’altro, che frustra gli entusiasmi e,
col proprio rigido carapace metodologico, ottura gli orizzonti dell’altro. È possibile che la dicotomia del Croce della Poesia di Dante, «o si legge o si commenta», a più riprese ripresa da Contini[13], valesse per lui proprio a distinguere gli atti (o «esercizî») di lettura, appunto – ascritti al godimento musicale dell’esecuzione [14]–, dai lavori specificamente ecdotici e di commento.
In realtà, come proprio Segre ha limpidamente mostrato, Contini era del
tutto consapevole di come questi due campi – quello del «romanista» e
dell’«italianista» da una parte, e dall’altra quello del «critico
militante», come egli stesso si definisce in un curriculum
inviato a Luigi Russo nel ’42, ricordato a questo convegno anche da
Roberto Antonelli – fossero collegati dal «ponte di congiunzione» della
«critica linguistica»[15]; e che insomma il suo primato consistesse proprio nella passione contemporaneistica importata nella filologia («senza un poco di magnetismo, o di poesia, non si dà neppure scienza», suona memorabile il Ricordo di Joseph Bédier del ’39)[16]: almeno pari, s’intende, alla tanto più evidente e dichiarata operazione inversa. Nella Risposta a un’inchiesta sull’università
pubblicata su «Primato» nel ’41, Contini afferma – lo si ricorderà –
che «nessuna ricerca critica e, in genere, linguistica è didatticamente
concepibile, ai suoi inizî, se non come esercizio sui contemporanei»; ma
è solo «provvisoria e di comodo», in tale attività, la «soppressione
del primo termine»: in quella che Contini chiama «quella dialettica di
filologia e di presenza che fa la vita della cultura»[17].
In linea generalissima si può ricondurre a questa doppia tensione di filologia e presenza,
questa doppia carica elettrica (più che doppia identità) che
rappresenta davvero – nella storia della critica non solo italiana – il proprium di Contini. Ossia il principio della differenzialità da lui enunciato (connotato oltretutto dall’attributo sperimentale,
che ci suona ormai strategico) in un altro passaggio dell’intervista a
Federici: «non esistono categorie a-priori in critica, in qualunque tipo
di critica. Mi sembra che ci sia un primum, ma assolutamente
sperimentale: cioè il critico, posto innanzi a un tessuto poetico,
reperisce una differenzialità. Ora, questa differenzialità può esistere
tutta all’interno del tessuto, si ha cioè una sorta di salto, di junctura,
per un verso; e per l’altro si ha uno stacco del testo rispetto a
quella che si suol chiamare la media, insomma uno stato di tensione»[18].
Che è, questa addotta dall’interessato, la migliore spiegazione del
gusto prevalente in Contini (di là da manieristiche «poligamie»
tardivamente ammesse)[19] per le scritture discontinue, in stato di tensione, e difformi dalla media – diciamo insomma per l’espressionismo d’ogni grado e maniera. Ma se dalla parte objecti ci spostiamo a quella subjecti,
ci accorgiamo come non venga meno, nelle concrete pratiche di lettura,
questa «tensione differenziale […] che si ritrova nell’esperienza prima
del critico»[20].
Nella protasi autoreferenziale a un
altro saggio importante sul piano del metodo (livello, questo, da
Contini quasi sempre tenuto nella sfera dell’implicito) – Serra e l’irrazionale del ’47 – si legge di un’adesione alla sua «udienza impregiudicata ai testi» e al suo «processo di approssimazione successiva»[21];
ma anche di un discostarsi dal suo «proporsi il testo puro,
vicinissimo», il quale in Serra comporta la relativizzazione della
«componente essenziale, l’auscultazione dell’opera»[22].
Viceversa, ha osservato Adelia Noferi, Contini opta per una «“tensione
di allontanamento” (specificamente scientifica) che permette, nella
“chiusura” della indagine, la “intelligibilità” dell’oggetto»[23].
Ma di contro è nello stesso Serra, qualche pagina prima, che Contini
poteva trovare inaugurata «una parte dell’atteggiamento della critica
moderna», ossia appunto la tensione, la «differenzialità» di
cui sopra. Per descrivere la quale viene evocato, dallo sbrigliato
metaforeggiare continiano, un ulteriore strumento ottico: «la
gerarchizzazione, la messa in prospettiva e il rilievo come
stereoscopico […] del testo letto»[24]. Il quale mette in grado l’orecchio attento dell’interprete di differenziare, appunto, la liscia superficie rappresentata dal testo: per d’improvviso avvertirne il rilievo tridimensionale.
Sia come sia, quel che è certo è che si
comincia a constatare, nell’officina di Contini, la presenza di una
quantità d’altri strumenti percettivi: in aggiunta al microscopio
ominoso. Nel breve Avviso premesso agli Altri esercizî
nel ’72 (la raccolta appunto in cui figura il corpo a corpo con Serra)
alla tipologia fattasi seriale dell’«esercizio», dall’artefice avvertito
ormai come «genere», viene giustapposto il momento in cui «allo
sguardo miope e microscopico se ne sostituiva uno macroscopico o
grandangolare, e alle analisi l’apodissi di concentrati epigrammatici,
con un connesso senso delle proporzioni»[25]. Anche se non è tanto in questo libro che si possono trovare esempi, di tale apertura grandangolare, quanto nell’immediatamente precedente Varianti e altra linguistica: che accoglieva infatti, come recitava l’Avviso relativo, gli scritti che «non
appartengono alla mera tecnica filologica o che, se hanno intenzione
critica, non usano gli strumenti tradizionali nella prima metà del
secolo»[26]. È dunque nell’ingens sylva
adunata nel ’70 – prima raccolta di saggi licenziata dall’autore da
quasi trent’anni a quella parte – che si trovano i capitoli più
trasgressivi, per oltranza interpretativa e innovazione metodologica,
mai vergati dal loro autore. Diciamo insomma le sue «bombe»,
parafrasando l’attacco del saggio del ’49 Sul metodo di Roberto Longhi[27]; o insomma i suoi contributi più macroscopici o grandangolari (tranne il capitolo maggiore, entro questa serie, che è da considerarsi la “voce” Treccani sull’Espressionismo letterario, giunta tardi – nel ’77 – e allegata dunque ai successivi Ultimi esercizî ed elzeviri).
Quattro sono, per il percorso che vado affrontando, tali passaggi-chiave: il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare del ’43 – posto dall’autore, nel volume, in sede incipitaria –; il dittico di quella che si sarebbe poi chiamata critique génétique, applicata a Proust fra il ’47 e il ’53; il gran saggio su Dante come personaggio-poeta della «Commedia» del ’57; e infine l’Introduzione alla «Cognizione del dolore» di Gadda, del ’63. Si noti intanto la somiglianza, all’incipit,
dei saggi strategici sui due capostipiti della nostra letteratura: a
proposito della traiettoria correttoria e variantistica di Petrarca
viene evocata da Contini «la scuola poetica uscita da Mallarmé, e che ha
in Valéry il proprio teorico» (la quale «considera la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile»)[28]; a proposito invece della Commedia
e della scissione, in essa osservabile, fra «personaggio che dice “io”»
e quello che la narratologia a venire definirà “autore empirico”,
Contini chiama a teste, come «metafora», l’esperienza del «più grande
scrittore dei nostri tempi» cioè Proust[29] (premettendo in abbrivo in forma quasi scaramantica, a giustificare questo suo tentativo di richiamarsi all’attualità per illuminare eventi di culture sopite o remote, la formula crociana secondo cui ogni storia, si sa, è storia contemporanea; ma subito dopo badando ad allontanare da sé la vitanda macchia dell’anacronismo – pur ammettendo, qualche riga sotto, quella d’una strumentale catacresi: dall’indesiderato effetto ingrato, e si dica pure snobistico)[30]. Ma già nell’introduzione alle Rime, che è addirittura del ’39, il nome di Eliot – seppure evocato en passant – era potuto suonare non meno ingrato, si capisce, all’orecchio di qualche lettore meno avventuroso[31].
Ma è nella grande Introduzione
del ’63, in cui si ricapitola nel nome di Gadda la «funzione» che porta
il suo nome, e lungo di essa si risale – per li rami d’un albero
genealogico d’immane estensione e profondità – sino a Dante e oltre
(come chiudendo il circolo ermeneutico aperto sei anni prima), che il
metodo stereoscopico di Contini compie la sua esperienza
decisiva – nonché, ai miei occhi, la più gravida di futuro. Il primo
incontro, fra lo scrittore e il suo critico, risaliva a quasi trent’anni
prima ed è testimoniato da una lettera incredula – fatta conoscere
tempo fa da Maria Antonietta Grignani – di Gadda a Silvio Guarnieri:
«Abbiamo conosciuto a Roma e qui Gianfranco Contini, critico e
poliglotta e pozzo di scienza a 22 anni, e ne siamo tutti un po’
emballés. Si occupa di Bonvesin della Riva, oltre che di Montale e
Bonsanti, nonché Gadda»[32]. A sbalordire ed emballer, nell’autore del Castello di Udine, è dunque la capacità, da parte di quel giovane pozzo di scienza,
di padroneggiare repertori così distanti fra loro da essere, sino ad
allora, generalmente vegliati da corporazioni di addetti ai lavori
gelosi, allora non meno di oggi, del proprio claustrofobico specialismo;
sicché la qualifica di poliglotta, ai nostri occhi almeno, non
vale solo e tanto per la stupefacente padronanza delle diverse lingue
storiche da parte del filologo, bensì appunto per quella del critico nei
confronti dei diversi, e fra loro così distanti, sistemi espressivi
(Gadda non lo poteva sapere, ma era quello pure il tempo – davvero
leggendario, visto dalla nostra prospettiva – dei non meno poliglotti, in tutti i sensi, Spitzer e Curtius e Auerbach).
Il termine funzione rimonta
certo al lessico scientifico (nella fattispecie matematico) di
preferenza adibito da Contini nelle sue scorribande metaforiche. Ma può
essere letto alla luce del suo precedente uso in altri due luoghi
strategici. Nel già citato Serra e l’irrazionale del ’47, uno dei punti di massima distanza dall’autore dell’Esame di coscienza di un letterato
non ci sorprende sia nel ravvisare la sua scarsa o nulla sensibilità
alla «differenza fra abbozzo e correzione»: talché, commenta Contini
piccato, «non siamo lontani, parrebbe da un concetto della letteratura
come ornato, antipoda alla vera critica linguistica che persegue una funzione»[33]. Ma è soprattutto nel Longhi prosatore del ’55 che fa la sua comparsa un’altra mirabile invenzione stereoscopica di Contini, l’enuclearsi di una “funzione Longhi”, diciamo, che contempla «scrittori “in funzione d’altro”»[34], da Galilei in avanti. Il termine funzione,
qui, torna al suo senso denotativo: che però non dobbiamo mancare di
leggere, in filigrana, in presenza del suo survoltaggio connotativo. La funzione Gadda, detto in altri termini, è quel gesto concettuale che prende Gadda in funzione
del rilevamento d’una tradizione di lungo periodo – quella appunto del
plurilinguismo espressionistico – senza però perdere di vista, con ciò,
il referente primo. Al modo stesso in cui l’uso di Proust in funzione di quella che Contini chiama la sua Idea di Dante non vuole certo ridurre il primo, com’è noto da lui amatissimo, a un mero uso strumentale.
Nel grande saggio variantistico del ’47
su Proust, sostiene Contini che errato sarebbe limitarsi alla visione
«minuziosa e microscopica della realtà», nella Recherche, facendosi sfuggire l’altra, la «visione telescopica e perciò legislativa»[35]
che conoscitivamente, nel testo, assume un’importanza tanto maggiore.
Come si ricorderà, Adelia Noferi aveva eletto proprio questa pagina a
segno della capacità continiana di «percepire sincronicamente le
direzioni evolutive, diacroniche dell’oggetto»[36]; e in seguito Roberto Antonelli ha accostato con finezza il metodo di Contini al «procedimento teorizzato da Proust nel Jean Santeuil e nella Recherche e descritto da Contini in due saggi specifici»: ossia l’intermittence du coeur che rivela l’essence des choses quale «contatto d’un passato e d’un presente»[37]: per cui «il tempo […] diviene “il mediatore fra identità e alterità”»[38]. E ha altresì accostato i pastiches proustiani alla categoria impiegata da Contini nel suo primo attacco alla testualità di Gadda, il celebre e fulminante Carlo Emilio Gadda, o del ‘pastiche’ con questo titolo uscito su «Solaria» nel ’34 (prima di confluire nei primi Esercizî col titolo Primo approccio al «Castello di Udine»)[39]. Che del resto «il caso Carlo Emilio Gadda», per usare appunto le parole memorabili di quell’incipit[40], sia per Contini accostabile a quello proustiano lo dice proprio, e anche in questo caso sin dall’incipit, l’Introduzione del ’63 (associazione talmente intima da turbare, come da famigerata aneddotica epistolare, il diretto interessato)[41].
Ma pare a me che la visione telescopica – con l’introdurre nell’arsenale del nostro pozzo di scienza
un terzo strumento ottico: fra tutti il più formidabile – possa
candidarsi a sigla di tutta quella che, si sarà capito, preferirei
chiamare critica contemporanea, di Contini (onde evitare il già di per sé antipatico sintagma critica militante: che nel caso specifico mi pare – a dirla tutta – clamorosamente limitativo). Sempre nel “traumatico” incipit proustiano di Dante come personaggio-poeta,
provvede del resto lo stesso Contini ad affiancare (contro l’ipotesi
«alternativa o disgiuntiva») «la dimensione del microscopio e quella del
telescopio», stavolta esplicitamente attribuendo la metafora a Proust
(e da lui “traducendo”, in glossa: «la dimensione dell’aneddoto e la
dimensione della legge», che «si condizionano reciprocamente»)[42].
Il passo in questione si trova nel finale dell’ultimo volume della Recherche, Le Temps retrouvé.
Che è fra l’altro l’unica pagina di Proust in cui l’“io-personaggio” e
il “narratore empirico” (per dirla in gergo narratologico) si avvicinano
sino, forse, a coincidere. Nel passo in questione, si ricorderà,
rievocata è la pubblicazione del primo volume dell’opera, e con
puntiglio l’autore vi protesta come, al fine di svolgere le osservazioni
dai suoi primi lettori definite «al microscopio», lui avesse piuttosto
impiegato, appunto, «un telescopio»: «per scorgere cose piccolissime, è
vero, ma per il fatto d’essere situate a una grande distanza, e ciascuna
delle quali era un mondo»[43].
In effetti nel cosmo di Proust, in quello che Georges Poulet ha
definito (così marcando, fra l’altro, il proprio decisivo scarto da
Bergson) il suo tempo spazializzato[44], una distanza pura
accomuna gli oggetti osservati rispetto all’osservatore; ma intercorre
anche fra l’uno e l’altro degli stessi oggetti: nel primo volume le due
«parti» che si spartiscono l’universo fuori da Combray, il côté
di Méséglise e quello di Guermantes, sono «l’una lontana dall’altra,
l’una inconoscibile all’altra, nei vasi chiusi e non comunicanti di
differenti pomeriggi»[45]. Proprio per questa duplicità
– che non si colloca dunque solo fra piani temporali, ma connota la sua
intera gnoseologia – si è potuto parlare, anche a proposito di Proust,
di visione stereoscopica[46].
Il telescopio serviva a Proust per superare grandi distanze,
nello spazio non meno che nel tempo. Lo si può considerare un
formidabile potenzialmente modernista del cannocchiale metaforico a suo
tempo vagheggiato dal barocco Emanuele Tesauro. Ma non era considerata
da Contini appunto una metafora se non addirittura una catacresi, l’esperienza proustiana, nel saggio su Dante personaggio-poeta? Proprio tale catacresi, questo inciampo della metafora su se stessa, è il segno di un anacronismo:
da intendersi in senso ben più profondo di quello da sé allontanato da
Contini nel ’57. Ma è soprattutto il segno, più in generale, della sua
critica contemporanea: che è tale, voglio dire, non solo quando
si dedica a Gadda o a Pizzuto – ma pure, quando è grande,
nell’affrontare Dante o Petrarca. In una conferenza del 2006 assurta già
a piccolo classico, ha scritto Giorgio Agamben che «appartiene
veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non
coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è
perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio
attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli
altri di percepire e afferrare il suo tempo»[47]. Più decisamente, la contemporaneità viene da lui definita «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo»[48]. Non si può non pensare alla tensione differenziale inseguita da Contini nei “suoi” autori: nonché a quella da lui stesso incarnata nel sottoporli ai propri infaticabili esercizî[49].
È verosimile che Agamben prenda questa sua definizione di anacronismo
da un grande pensatore contemporaneo (cioè anacronistico) dell’arte
come Georges Didi-Huberman, un cui straordinario saggio del 2000 è stato
tradotto, da noi, come Storia dell’arte e anacronismo delle immagini:
i suoi spiriti-guida sono Aby Warburg e Walter Benjamin ma
Didi-Huberman non manca di convocare, entro la propria costellazione, la
memoria involontaria di Proust[50]. L’incipit
del saggio descrive un’immagine che si trova qui a Firenze, nel
convento di San Marco: un riquadro dell’affresco del Beato Angelico, la Madonna delle ombre,
«picchiettato di macchie erratiche, produce come una deflagrazione: un
fuoco d’artificio colorato che reca ancora traccia del suo scoppiettio
originario (il pigmento fu schizzato a distanza, a pioggia, in un
attimo) e che, da allora, si è reso perenne come una costellazione di
stelle fisse». Didi-Huberman ne induce – con mossa anacronistica
che non può non ricordare quella di Contini che legge Dante alla luce
di Proust – una connotazione della «superficie pittorica» del Beato
Angelico «facilmente riconducibile all’etichetta di arte “astratta”»[51]. Ma a me preme soprattutto trattenere l’immagine della costellazione di stelle fisse
cui il critico paragona la superficie picchiettata dell’affresco.
Perché anche Agamben – a sua volta lettore di Dante come di Proust,
ovviamente – impernia la sua conferenza Che cos’è il contemporaneo
su un’immagine siderale. Poco prima aveva detto che «può dirsi
contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e
riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità»[52],
e ora aggiunge: «Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle
risplendono circondate da una fitta tenebra». Questa tenebra si deve al
fatto che «nell’universo in espansione, le galassie più remote si
allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non
riesce a raggiungerci». Sicché «quel che percepiamo come il buio del
cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non
può raggiungerci». Essere contemporanei «significa essere
capaci di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di
percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana
infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che
si può solo mancare»[53].
È vero: la visione telescopica –
quella di un’autentica contemporaneità – è capace di superare le
distanze più spaventevoli. Ma la vicinanza alla quale ci ammette è
ingannevole. Le luci che ammiriamo nel firmamento corrispondono a eventi
consumatisi in un tempo infinitamente remoto, in uno spazio
infinitamente distante. Ma all’appuntamento al quale ci invitano,
ancorché irrealizzabile – e anzi, proprio perché tale –, è impossibile resistere.
Note
[1] Sull’antologia del ’68, le più condivisibili restano per me le pagine del compianto Guglielmo Gorni, Letteratura dell’Italia unita e letteratura della nuova Italia, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi letterari del secondo Novecento, Atti del convegno di Napoli, 2-4 dicembre 2002, a cura di A. R. Pupino, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. 157-71.
[2] Rinvio al mio Cecchi, Longhi, Contini: il libro segreto, in Andrea Cortellessa, Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 61-76.
[3] Gianfranco Contini, Cecchi e il «libro segreto», in «Letteratura», aprile-giugno 1941; poi in Id., Un anno di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1942; infine in Id., Esercizî
di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non
contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 19743, pp. 291-301.
[4] Contini a Cecchi, Domodossola, 12 novembre [1932], in Id., L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano, Adelphi, 2000, p. 4.
[5] Pier Vincenzo Mengaldo, Gianfranco Contini, in Id., Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 50-56: 51 (e ancora, dello stesso, l’ulteriore e più argomentata messa a punto: La critica militante di Gianfranco Contini, in «Strumenti critici», n.s., XVII, 2, maggio 2002, pp. 191-206: specie alle pp. 192-200).
[6] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini [1968], in Ead., Le poetiche critiche novecentesche, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 53-135: 60-61.
[7] I ferri vecchi e quelli nuovi. Ventuno domande di Renzo Federici a Gianfranco Contini [1968], in Gianfranco Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ricordo di A. Roncaglia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, pp. 43-66: 64-5.
[8] Ivi, p. 44.
[9] Id., La «Vita» francese «di Sant’Alessio» e l’arte di pubblicare i testi antichi [1970], in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica, 1932-1989, a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, vol. II, pp. 957-85: 983-4.
[10] Id., Una lettura su Michelangelo [1937], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 242-58: 242.
[11] Contini a Cecchi, Domodossola, 27 agosto [1942], in Id., L’onestà sperimentale, cit., p. 51.
[12] Cfr. Cesare Segre, Gianfranco Contini uno, due e tre [2011], in Id., Critica e critici, Torino, Einaudi, 2012, pp. 64-76.
[13] Cfr. per esempio Gianfranco Contini, Filologia ed esegesi dantesca [1965], in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1970),
Torino, Einaudi, 1970, pp. 407-32: 409 (post-saussurianamente
“traducendo”, nella pagina seguente: «Un atto critico determinato o
riguarda la sfera dell’espressione pura o concerne la plaga dei rapporti
linguistici»).
[14] Cfr. I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 65; Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1989, p. 223.
[15] «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 47-9.
[16] Gianfranco Contini, Ricordo di Joseph Bédier [1939], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 358-71: 360.
[17] Id., Risposta a un’inchiesta sull’università [1941], ivi, pp. 387-9: 387.
[18] I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 53.
[19] Cfr. Diligenza e voluttà, cit., p. 131.
[20] I ferri vecchi e quelli nuovi, cit., p. 54.
[21]
La nota è premessa all’edizione del saggio di Contini su «L’immagine»,
6-7, gennaio-febbraio 1948, p. 345; posposta in quella in Scritti in onore di Renato Serra, Milano, Garzanti, 1948, p. 114; tagliata nella sua sede d’approdo in Altri esercizî (l’ha riproposta e valorizzata Franco Contorbia, Una scheda per Contini politico, in Incontri con Gianfranco Contini, Domodossola, Città di Domodossola, 2011, pp. 31-8: 34).
[22] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale [1948], in Id., Altri esercizî (1942-1971), Torino, Einaudi, 1972, pp. 77-100: 92.
[23] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini, cit., p. 61n.
[24] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale, ed. cit., p. 83.
[25] Id., Avviso, ivi, pp. VII-VIII: VIII.
[26] Id., Avviso, in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. VII-VIII: VIII.
[27] Id., Sul metodo di Roberto Longhi [1949], in Id., Altri esercizî, cit., pp. 101-10: 101 (la longhiana «bomba» in questione è il Giudizio sul Duecento pubblicato nel 1948).
[28] Id., Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare [1943], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 5-31: 5.
[29] Id., Dante come personaggio-poeta della «Commedia» [1958], pp. 335-61: 335. Naturalmente il sesto grado di questa metafora
trascendentale non era sport per tutti. Proprio a proposito di Dante,
in una lettera del ’46 a Theophil Spörri resa nota da Ottavio Besomi,
pronunciava Contini – nel ringraziare il corrispondente per l’invio d’un
suo scritto dantesco – il suo caveat contro «un certain anachronisme spirituel» cui rischia di condurre la «prodigieuse faculté d’“actualisation”»: Ottavio Besomi, Introduzione alla giornata zurighese: come lavorava Contini, in «Filologia e critica», XV, 2-3, maggio-dicembre 1990, numero monografico Su / Per Gianfranco Contini, pp. 185-90: 189-90.
[30] Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», cit., p. 335.
[31] Cfr. Id., Introduzione alle Rime di Dante
[1939], ivi, pp. 319-34: 325-6. Nel suo bel ricordo di Contini Giulio
Ungarelli ha di recente ricordato l’episodio come una «felice sorpresa»,
«bella e un po’ provocatoria»: Lettori di Contini, in «Belfagor», LXV, 389, 30 settembre 2010, pp. 521-46: 527.
[32] Carlo Emilio Gadda a Silvio Guarnieri, 12 maggio 1934 (cit. da Maria Antonietta Grignani, Introduzione alla giornata pavese: Gianfranco Contini e Pietro Ciapessoni. Un alunno d’eccezione, un rettore lungimirante, in Su / Per Gianfranco Contini,
cit., pp. 179-84: 182). Sei giorni dopo prende le mosse il carteggio
fra i due (raccolto una prima volta da Contini presso Garzanti nel 1988,
si legge ora in Gianfranco Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini e G. Ungarelli, Milano, Garzanti, 2009).
[33] Gianfranco Contini, Serra e l’irrazionale, ed. cit., p. 89. Corsivo mio.
[34] Id., Longhi prosatore [1955], ivi, pp. 111-22: 111.
[35] Id., Introduzione alle «paperoles» [1947], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 69-110: 73.
[36] Adelia Noferi, La «visione legislativa» di Gianfranco Contini, cit., p. 112.
[37] Gianfranco Contini, Jean Santeuil, ossia l’infanzia della Recherche [1953], in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 111-37: 120.
[38] Ivi, p. 136. I due passi sono ben collegati e valorizzati da Roberto Antonelli, Esercizî di lettura di Gianfranco Contini, in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, Le Opere, vol. IV, Il Novecento, tomo II, La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 339-406: 367-8.
[39]
Non è stato l’unico suo lettore, Antonelli, a proporre il modello
gnoseologico (come in questo caso) di Proust, alle spalle dei
procedimenti di Contini. In termini invece stilistico-retorici, Pier
Vincenzo Mengaldo ha potuto parlare per esempio di un debito nei
confronti del «modo di comporre dell’artista moderno costruttivo e
intellettuale per eccellenza, e il più caro a Contini, Proust»,
«arcimodello della tecnica critica di Contini (o di una sua parte
cospicua)»: quella che procede per definizione di un fenomeno (per es.,
l’espressionismo) + rilevamento dei suoi tratti specifici in un
determinato autore + ulteriore definizione, corretta e arricchita +
ampliamento ulteriore del concetto (Profili di critici del Novecento,
cit., p. 55). Ancora su Proust, e più in generale «la sua gnoseologia
poetica» come «bussola fondamentale di Contini», cfr. dello stesso La critica militante di Gianfranco Contini, cit., p. 195.
[40] Gianfranco Contini, Primo approccio al «Castello di Udine» [1934], in Id., Esercizî di lettura, ed. cit., pp. 151-7: 151.
[41]
Si vedano le due lettere scritte in rapida successione da Gadda a
Contini, nell’aprile 1963, una volta ricevuto in anteprima «lo stupendo
saggio» destinato a introdurre di lì a poco la princeps della Cognizione del dolore (in Gianfranco Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, ed. cit., pp. 189-92).
[42] Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», cit., p. 336.
[43] Marcel Proust, Il Tempo ritrovato [1927], in Id., Alla ricerca del tempo perduto,
traduzione di G, Raboni, edizione diretta da L. De Maria, commento di
A. Beretta Anguissola e D. Galateria, vol. IV, Milano, Mondadori, 1993,
pp. 335-761: 752.
[44] Cfr. Georges Poulet, Lo spazio di Proust [1963], traduzione di G. M. Posani, Napoli, Guida, 1972.
[45] Marcel Proust, Dalla parte di Swann [1913], in Id., Alla ricerca del tempo perduto, ed. cit., vol. I, prefazione di C. Bo, Milano, Mondadori, 1983, pp. 3-515: 165.
[46] Cfr. Roger Shattuck, Proust’s binoculars. A study of memory, time, and recognition in «A la recherche du temps perdu», New York, Random House, 1963; Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna, il Mulino, 1991; Sara Guindani, Lo stereoscopio di Proust. Fotografia, pittura e fantasmagoria nella Recherche, presentazione di M. Carbone, Milano, Mimesis, 2005.
[47] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, nottetempo, 2008, pp. 8-9. Corsivo mio.
[48] Ivi, p. 9.
[49] Vale la pena ricordare che a Contini è dedicato il più celebre saggio letterario di Agamben: Pascoli e il pensiero della voce [1982], in Id., Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura [1996], Roma-Bari, Laterza, 20102, pp. 61-72.
[50] Cfr. Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini [2000], traduzione di S. Chiodi, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, per esempio a p. 22 e a p. 219.
[51] Ivi, pp. 11-3. Naturalmente il pensatore francese bada a distinguere la disciplina anacronistica che identifica tout court con la «storia dell’arte» (nella quale l’anacronismo
costituisce «la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, la
complessità, la sovradeterminazione delle immagini»: p. 18) da quello
che potremmo definire anacronismo volgare («regola d’oro: non
“proiettare”, come si dice, le nostre realtà – i nostri concetti, gusti,
valori – sulle realtà del passato, oggetto della nostra indagine
storica»: p. 16) contro il quale, come abbiamo visto, Contini era il
primo a mettere in guardia. Ma appunto: «Per accedere ai molteplici
tempi stratificati, alle sopravvivenze, alle lunghe durate del
più-che- passato mnestico, è necessario il più-che-presente
di un atto reminiscente: uno choc, uno strappo nel velo, un’irruzione o
un’apparizione del tempo, quel che Proust e Benjamin hanno
efficacemente ricondotto alla specie della “memoria involontaria”»: p.
22.
[52] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, cit., p. 14.
[53] Ivi, pp. 15-6.
Testo ripreso da | 20 febbraio 2015
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