09 febbraio 2015

BIRDMAN



È uscito nelle sale italiane Birdman, di Alejandro González Iñárritu, uno dei films considerati  più importanti dell’ultima stagione cinematografica. Qualche settimana fa Pietro Bianchi ne aveva parlato all’inizio di una recensione a American Sniper di Eastwood. 
Per la verità, pur riconoscendo la sua perfezione tecnica, il film non mi ha convinto. Come tante cose dei nosti tempi, non mi ha trasmesso nessuna emozione e  mi ha lasciato perplesso.
Provo comunque a leggere questa recensione per vedere cosa mi è sfuggito.


Birdman, o la scomparsa del fuori campo


di Pietro Bianchi

È ancora possibile che il cinema sia capace di stupirci? Che possa farci vedere un’immagine che non abbiamo mai visto? È ancora possibile provocare il nostro sguardo e svegliarlo da quella giungla di immagini di social network, serie televisive e blablabla visivo dentro il quale pare essere intrappolati? Sono in molti ormai a dire che il cinema abbia già detto tutto, abbia già fatto vedere tutto: non c’è più nulla da inventare, solo da ripercorrere quello che è già stato. E in effetti se pensiamo alla sua storia, è dalla controrivoluzione conservatrice hollywoodiana che alla fine degli anni Settanta ha spazzato via l’ultimo baluardo di innovazione rappresentato dalla New Hollywood, che non esistono più movimenti formali in grado di rivoluzionare nel profondo il linguaggio cinematografico. È il destino beffardo di un’arte di cui si è sempre dichiarata la gioventù e che invece pare essere improvvisamente invecchiata, se è vero come dicono in tanti, che le nuove frontiere tecnologiche degli smartphone e di Netflix ci stanno già portando verso un mondo compiutamente post-cinematografico.
Diversi importanti e intelligenti critici cinematografici, tra gli altri Bruno Fornara di Cineforum, ce lo ripetono spesso, e non senza ragioni: una volta che sono state sperimentate tutte le possibilità del montaggio e dei movimenti della macchina da presa è difficile pensare a delle grandi rivoluzioni formali. Forse il cinema deve allora proprio mettersi il cuore in pace, e riconoscere che la Storia con la maiuscola – quanto meno nel mondo del visivo – è proprio finita, e che l’unica cosa che ci è rimasta da fare è ricominciare a raccontare semplicemente delle storie (con la minuscola)?
È questa ansia di fine della storia, questa impossibilità di uscire dal già visto e dal già detto e questa incapacità di riuscire ancora a stupirsi per un’immagine che Alejandro González Iñárritu ci fa vedere in modo toccante e tuttavia lucido in Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza), uno dei film più belli e intelligenti dello scorso anno. Ne parlava Roberto Manassero all’indomani della premiere del film a Venezia sottolineando come il regista avesse voluto mettere nel film “praticamente tutto ciò che rimanda all’universo della cultura americana, Hollywood, Broadway, Carver, New York, il jazz, Twitter, i supereroi, il metodo, il mito della seconda possibilità, la disintossicazione, la fine degli amori, la rivalsa…”. Birdman è infatti un film angosciato della progressiva sparizione di un fuori e di un vuoto: non è un caso che lo vediamo dispiegarsi di fronte ai nostri occhi nella forma di un lungo piano-sequenza. Quando tutto è già stato detto ed è già stato visto è inutile operare una partizione o una scelta nel flusso continuo del reale, perché tutto deve starci dentro, dai film di supereroi a Twitter, da Broadway a Raymond Carver, da Michael Bay al teatro, dal comico al tragico. Tutto è senza soluzione di continuità: tutto deve essere tuttoattaccato. È pieno di momenti in Birdman dove un personaggio dice qualcosa di estremamente drammatico e poi subito dopo si corregge “no, ma scherzavo” (indistinzione comico-reale); o in cui qualcuno si mette a provare delle battute per uno spettacolo e poi quando entra in un’altra stanza lo vediamo direttamente alla serata della prima, senza stacchi di montaggio (indistinzione passato-presente). Ma se l’intero mondo del visivo si dispiega di fronte ai nostri occhi lungo una linea continua, senza tempo e senza differenza di registro, è davvero ancora possibile che un’immagine si stacchi e si differenzi dalle altre? È ancora possibile che un’immagine possa materializzare nel visivo un evento completamente nuovo e non la ripetizione del già detto e del già visto?
Birdman ci parla di una delle questioni politicamente più importanti oggi e che interrogano direttamente il visivo contemporaneo: la scomparsa del fuori campo; ovvero l’idea che la visibilità sia stata tutta definitivamente appropriata dai nostri occhi; che tutto sia stato definitivamente illuminato; che l’intero nostro mondo sia finalmente stato deprivato da qualsivoglia zona d’ombra. Non ci parla forse di questo la continua messa in discussione del confine tra pubblico e privato? Il fatto che l’intimità di qualsivoglia personaggio pubblico venga data continuamente in pasto all’occhio assoluto dell’informazione? Non sono forse i social network l’esempio più eclatante di una visibilità assoluta, che non mette più alcuna gerarchia d’importanza all’interno di quello che si vede, ma che livella tutto su un medesimo registro dell’esperienza? D’altra parte è solo attraverso la re-introduzione di una minima zona d’ombra e di un minimo di invisibilità che quello che appartiene al visivo potrebbe ritornare a essere distinto al suo interno, a dividere i luoghi del visibile per far sì che emergano delle immagini differenti.

Da  http://www.leparoleelecose.it/


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