È uscito nelle sale italiane Birdman, di Alejandro González Iñárritu, uno dei films considerati più importanti dell’ultima stagione cinematografica. Qualche settimana fa Pietro Bianchi ne aveva parlato all’inizio di una recensione a American Sniper di Eastwood.
Per la verità, pur riconoscendo la sua perfezione tecnica, il film non mi ha convinto. Come tante cose dei nosti tempi, non mi ha trasmesso nessuna emozione e mi ha lasciato perplesso.
Provo comunque a leggere questa recensione per vedere cosa mi è sfuggito.
Birdman, o la scomparsa del fuori campo
di Pietro Bianchi
È ancora possibile che il cinema sia
capace di stupirci? Che possa farci vedere un’immagine che non abbiamo
mai visto? È ancora possibile provocare il nostro sguardo e svegliarlo
da quella giungla di immagini di social network, serie televisive e
blablabla visivo dentro il quale pare essere intrappolati? Sono in molti
ormai a dire che il cinema abbia già detto tutto, abbia già fatto
vedere tutto: non c’è più nulla da inventare, solo da ripercorrere
quello che è già stato. E in effetti se pensiamo alla sua storia, è
dalla controrivoluzione conservatrice hollywoodiana che alla fine degli
anni Settanta ha spazzato via l’ultimo baluardo di innovazione
rappresentato dalla New Hollywood, che non esistono più movimenti
formali in grado di rivoluzionare nel profondo il linguaggio
cinematografico. È il destino beffardo di un’arte di cui si è sempre
dichiarata la gioventù e che invece pare essere improvvisamente
invecchiata, se è vero come dicono in tanti, che le nuove frontiere
tecnologiche degli smartphone e di Netflix ci stanno già portando verso
un mondo compiutamente post-cinematografico.
Diversi importanti e intelligenti critici cinematografici, tra gli altri Bruno Fornara di Cineforum,
ce lo ripetono spesso, e non senza ragioni: una volta che sono state
sperimentate tutte le possibilità del montaggio e dei movimenti della
macchina da presa è difficile pensare a delle grandi rivoluzioni
formali. Forse il cinema deve allora proprio mettersi il cuore in pace, e
riconoscere che la Storia con la maiuscola – quanto meno nel mondo del
visivo – è proprio finita, e che l’unica cosa che ci è rimasta da fare è
ricominciare a raccontare semplicemente delle storie (con la
minuscola)?
È questa ansia di fine della storia,
questa impossibilità di uscire dal già visto e dal già detto e questa
incapacità di riuscire ancora a stupirsi per un’immagine che Alejandro
González Iñárritu ci fa vedere in modo toccante e tuttavia lucido in Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza),
uno dei film più belli e intelligenti dello scorso anno. Ne parlava
Roberto Manassero all’indomani della premiere del film a Venezia
sottolineando come il regista avesse voluto mettere nel film
“praticamente tutto ciò che rimanda all’universo della cultura
americana, Hollywood, Broadway, Carver, New York, il jazz, Twitter, i
supereroi, il metodo, il mito della seconda possibilità, la
disintossicazione, la fine degli amori, la rivalsa…”. Birdman è
infatti un film angosciato della progressiva sparizione di un fuori e
di un vuoto: non è un caso che lo vediamo dispiegarsi di fronte ai
nostri occhi nella forma di un lungo piano-sequenza. Quando tutto è già
stato detto ed è già stato visto è inutile operare una partizione o una
scelta nel flusso continuo del reale, perché tutto deve starci dentro,
dai film di supereroi a Twitter, da Broadway a Raymond Carver, da
Michael Bay al teatro, dal comico al tragico. Tutto è senza soluzione di
continuità: tutto deve essere tuttoattaccato. È pieno di momenti in Birdman
dove un personaggio dice qualcosa di estremamente drammatico e poi
subito dopo si corregge “no, ma scherzavo” (indistinzione comico-reale);
o in cui qualcuno si mette a provare delle battute per uno spettacolo e
poi quando entra in un’altra stanza lo vediamo direttamente alla serata
della prima, senza stacchi di montaggio (indistinzione
passato-presente). Ma se l’intero mondo del visivo si dispiega di fronte
ai nostri occhi lungo una linea continua, senza tempo e senza
differenza di registro, è davvero ancora possibile che un’immagine si stacchi
e si differenzi dalle altre? È ancora possibile che un’immagine possa
materializzare nel visivo un evento completamente nuovo e non la
ripetizione del già detto e del già visto?
Birdman ci parla di una delle
questioni politicamente più importanti oggi e che interrogano
direttamente il visivo contemporaneo: la scomparsa del fuori campo;
ovvero l’idea che la visibilità sia stata tutta definitivamente
appropriata dai nostri occhi; che tutto sia stato definitivamente
illuminato; che l’intero nostro mondo sia finalmente stato deprivato da
qualsivoglia zona d’ombra. Non ci parla forse di questo la continua
messa in discussione del confine tra pubblico e privato? Il fatto che
l’intimità di qualsivoglia personaggio pubblico venga data continuamente
in pasto all’occhio assoluto dell’informazione? Non sono forse i social
network l’esempio più eclatante di una visibilità assoluta, che non
mette più alcuna gerarchia d’importanza all’interno di quello che si
vede, ma che livella tutto su un medesimo registro dell’esperienza?
D’altra parte è solo attraverso la re-introduzione di una minima zona
d’ombra e di un minimo di invisibilità che quello che appartiene al
visivo potrebbe ritornare a essere distinto al suo interno, a dividere i luoghi del visibile per far sì che emergano delle immagini differenti.
Da http://www.leparoleelecose.it/
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