26 febbraio 2015

MERAVIGLIOSO BOCCACCIO. Intervista ai fratelli Taviani




Arriva al cinema Meraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani. Paola Zanuttini li ha incontrati e raccontati sul Venerdì di Repubblica

 Meraviglioso Boccaccio, meravigliosi Taviani
 di  Paola Zanuttini
 
Roma. Nel Maraviglioso Boccaccio, il Decameron dei fratelli Taviani, c’è un grande attore: un falcone che pianta in macchina uno sguardo da Anna Magnani. Stupito, deluso, tristissimo. Sentimenti comprensibili, perché il suo adorato padrone Federico degli Alberighi, già dissipatore di patrimoni in feste e giostre per amore dell’inespugnabile Monna Giovanna, ha deciso di arrostirlo. Anche Federico va capito. La Giovanna delle sue brame gli è capitata a casa all’improvviso e si è pure invitata a pranzo, ma in dispensa non c’è niente per farle onore: così le sacrifica l’ultimo bene, il compagno di cacce solitarie che, fra l’altro, gli aveva procurato chissà quanti arrosti prima di finire allo spiedo.
Nella lunghissima carriera di Paolo e Vittorio Taviani questo è il cast più numeroso, quindi pare brutto chiedere solo del falcone, ma loro condividono l’entusiamo: «È il più bravo di tutti: quando ha fatto quello sguardo ci siamo emozionati, sembrava dicesse ma che mi faaai?». Mentre scrivevano la sceneggiatura, i due erano preoccupati di come rendere il rapporto d’amicizia fra l’uomo e il falco, ma confidavano nella tecnologia «che è molto più avanti di quel che ne sappiamo noi» e chiedevano alla produttrice di «rivolgersi agli americani». Invece, l’eccentrica produttrice Donatella Palermo (capelli grigi un po’ a cespuglio, stivali di gomma, calzettoni e cagnolina – meticcia – al seguito) nicchiava: «Ad Anguillara, vicino a casa mia, ho un amico che alleva falconi». Loro diffidavano e insistevano con gli americani, poi hanno ceduto. Ora professano eterna gratitudine all’amico di Anguillara.
Paolo ha 83 anni e Vittorio 85. Paolo ha ancora tutti i capelli, «perché lui è bello» commenta acidino Vittorio, che da tempi immemorabili copre la residua chioma (l’avrebbe voluta folta e ribelle, da musicista romantico) con un cappello da nostromo «di chachemire!» diventato un marchio di fabbrica, ma ormai difficile da rinnovare in seguito alla chiusura della premiata ditta Viganò, che ha creato sconquassi fra le teste brulle della scena romana. Nel 2012 i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro a Berlino con Cesare deve morire, docudrama di un Giulio Cesare allestito a Rebibbia che, girato quasi per caso in 20 giorni, è stato venduto in 96 Paesi. Quest’anno, Maraviglioso Boccaccio ha mancato Berlino perché i fratelli non erano pronti, cincischiavano in post produzione sul loro mirabile affresco. Così affollato di protagonisti che, per citarli evitando l’effetto elenco telefonico, conviene riportare solo i cognomi, rischiando però il contreffetto formazione di calcio: Arena, Cortellesi, Crescentini, Parenti, Puccini, Riondino, Rossi Stuart, Scamarcio, Smutniak, Trinca, Vagni. Più dieci giovani narratori che introducono le cinque novelle scelte fra le cento della raccolta.
Nel Decameron pasoliniano del 1971 di novelle ce n’erano dieci e una in comune con il film dei Taviani: quella della badessa e delle braghe del prete. Storia boccaccesca, appunto, in cui una badessa è svegliata dalle suore che hanno sorpreso una consorella in peccato naturale con un giovanotto. La superiora, interrotta anche lei nei suoi peccatucci notturni col prete, vestendosi in fretta si ficca in testa le mutande dell’amante invece del velo; poi fa una pubblica sfuriata alla monachella, che però nota, e le fa notare, quello strano copricapo. Smascherata, la badessa cambia predica: ai piaceri della carne non si può resistere, neppure in convento, provvedano quindi le pie donne spione a procacciarseli anche loro. Ecco, questo è l’unico punto di contatto con il film di Pasolini perché, per il resto, i due Decameron non potrebbero essere più lontani. E soprattutto per una ragione: il Boccaccio dei Taviani oltre che maraviglioso, armonioso, luminoso, toscanissimo e per nulla napoletano, è estremamente casto.
L’aggettivo non gli piace: «Non sono casto né lo è mai stato il nostro cinema» protesta Paolo. «Penso che nel film ci sia una sensualità sotterranea. Suggerita senza esibirla più di tanto, è più coinvolgente. In tempi di battaglie per la liberazione sessuale, Pasolini ha costruito il suo bellissimo Decameron sulla rappresentazione del sesso, sul racconto dei corpi. Alla presentazione alla Sala Palatino, eravamo i soliti sette o otto e alla fine della proiezione ci fu un silenzio pieno di rispetto. Perché, nonostante le scene che facevano o dovevano far ridere, si sentiva la sofferenza. E Pasolini, reduce del Festival di Berlino, ci disse: “Sentite, è vero che anche in questo film c’è il mio dolore, ma a Berlino ridevano tutti”. Poi, infatti, il pubblico ha riso ed è stato un successo, però in quell’anteprima il senso per noi era un altro, la rappresentazione del corpo violentemente aggressivo contro la repressione sessuale. Pasolini faceva questa battaglia, lui era una battaglia».
Sì, va bene, ma i Taviani insistono molto più del Boccaccio sulla castità che si autoimpone l’onesta brigata dei giovani novellatori (sette donne e tre uomini) transumati in una villa di campagna per sfuggire la peste che decima Firenze e intrattenersi, in dieci giorni che rifondano la convivenza, con banchetti, danze, canti e novelle, appunto. Piene di eros felice e infelice, beffe e arguzie. Per esempio: nel film, due innamorati che sfruttano l’eccezionale libertà del momento per imbandire un furente pomicio vengono subito interrotti. Spiega il fratel giovane: «Boccaccio introduce questa regola con la formula del non voler dar materia agl’invidiosi». Citazione per citazione, a un certo punto le fanciulle fanno il bagno nude nel fiume e i loro corpi candidi sono nascosti dall’acqua come una vermiglia rosa un sottil vetro, cioè per niente: e allora perché i registi le fanno immergere con la sottoveste? «Era un’immagine bella, con le ragazze nude avrebbe avuto un altro significato». E il maggiore: «Non è alterigia, ma a un certo punto ce ne freghiamo di quel che c’è sul Decameron: ci importa all’inizio, poi si cambia strada. Dicono che i nostri film sono pieni di riferimenti letterari, ma non è vero. Noi siamo fatti di cinema, cinema, cinema». (A volte, i fratelli chiedono agli intervistatori di farli parlare in prima persona plurale, ma non è giusto perché sono molto diversi e per  garantire la loro identità osservano una rigida disciplina. Si sa che girano un’inquadratura a testa e che chi è di turno è padrone assoluto del set. Ma chi  gira la prima inquadratura? «Dipende da chi l’ha girata nel film precedente: è tutto scritto!» (Vittorio).
Comunque al Decameron ci hanno sempre pensato. Da quando il loro babbo antifascista indicava Certaldo, il paese di Boccaccio, dal terrazzo della casa di famiglia a San Miniato. Ma c’è una motivazione più profonda dietro questo film girato solo adesso: la peste. Che a Firenze disgregava il tessuto sociale, i buoni costumi, gli affetti, e che ora si ripresenta con una faccia nuova ma terribile, quella di un disagio diffuso capace di togliere senso alla vita e al futuro. «La sofferenza dei giovani di oggi è davvero grande, abbiamo intorno figli, nipoti, amici dei figli che ci incolpano per il mondo che gli consegnamo. Con loro parliamo di questa sofferenza, ma anche della disperata volontà di non arrendersi, del bisogno di sogno, fantasia e speranza». L’ottimismo dei Taviani: Pasolini disse che era più tragico del suo pessimismo.
Questo ottimismo cosmico ha prodotto un’amicizia forte quanto inaspettata per due vecchi comunisti (critici però col Pci dai fatti d’Ungheria): con papa Francesco. «A un gesuita siciliano che gli chiedeva se conosceva la sua isola il Papa ha risposto che la conosceva “Grazie a Kaos, un bellissimo film dei fratelli Taviani”. È nato un certo rapporto ed è arrivato l’invito a parlare alla Festa della famiglia a piazza San Pietro, davanti a 200 mila persone. Che c’entriamo noi? abbiamo chiesto. Ci hanno risposto che in Padre padrone e La notte di San Lorenzo ci sono le famiglie. Così siamo andati e abbiamo citato Dostoevskij, sapendo che a Francesco piace molto, infilando nel discorso il dolore delle famiglie povere, senza cibo, e una frase presa da L’idiota che suona più o meno così: se non sai risolvere un problema, chiedi a un bambino e lui ti saprà dare la risposta. Non è detto che sia vero, ma non lo scriva. Comunque questo è un grande Papa, un maestro, e siamo contenti di essere campati tanto per averne uno così. Speriamo che faccia da maestro anche a Mattarella, tanto cattolico pure lui».
I tempi cambiano: molti anni fa, in certe zone della Spagna, la filastrocca di San Michele aveva un gallo era il canto di riconoscimento degli antifranchisti cinefili, oggi i fratelli che non volevano morire democristiani cercano di riconoscere in questo centrosinistra pieno di ex Dc il compimento del compromesso storico.
Che altro? L’oroscopo. Sì, i sobri Taviani sono in fissa con le stelle. Celiano, dicono di non crederci, ma in fase di sceneggiatura attribuiscono un segno zodiacale a ogni personaggio, per dargli un carattere. La buttano sul colto tirando fuori un epistolario Schiller-Goethe in cui il primo scriveva di essersi bloccato con il suo Wallenstein. Goethe gli suggerì di fare come lui, che distribuiva arieti, scorpioni e tori alle sue creature letterarie.
All’inizio delle riprese di un film, Paolo ha curiosato nei documenti della troupe per vedere le date di nascita, poi, a cena, ha finto di indovinare il segno zodiacale dei commensali sparando consigli: «Dopo cinque minuti erano tutti in ginocchio davanti all’oracolo».

Testo ripreso da   http://www.minimaetmoralia.it/

Nessun commento:

Posta un commento