Dallo studio dei
rapporti fra Impero Ottomano e Italia del Rinascimento esce
confermata la tesi di un mediterraneo luogo di incontro e di scambi
più che di guerra.
Giuseppe Galasso
Le civiltà si
incontrano sul mare
È noto che il Mediterraneo è stato da sempre un mare di culture, religioni, commerci, migrazioni, un mare-ponte. Il volume Incontri di civiltà nel Mediterraneo. L’Impero Ottomano e l’Italia del Rinascimento (Olschki, pp. 184, e 25), curato da Alireza Naser Eslami, docente di Architettura islamica e bizantina a Genova, lo conferma per un momento fra i più topici nella storia del vecchio Mare Internum romano.
Non credo che si possa affermare con Naser Eslami che finora Oriente e Occidente siano stati concepiti ciascuno «come realtà omogenee e sempre uguali a se stesse». Non so, e non mi pare, neppure nella storiografia islamica, ma certo in quella occidentale l’idea del «sempre uguale a se stesso» si è da tempo dileguata sotto l’urto sia del pensiero storicistico, sia di grandi spinte riformatrici o rivoluzionarie.
E neanche direi che è
nuovo il concetto del Mediterraneo come luogo di incontri e di
scambi, che era già chiaro a Greci e Romani. E altro ci sarebbe da
rilevare sul Rinascimento come «movimento» e non «evento» o sulla
cultura europea come una fra differenti culture interagenti fra loro
o sulla diversità della mediterraneità di Braudel rispetto a quella
di Horden e Purcell.
Naser Eslami ha, però, pienamente ragione di affermare che, per i rapporti fra Italia del Rinascimento e mondo ottomano, c’è molto da fare e da dire, ed è da ciò che deriva il merito, non piccolo, del volume da lui curato.
Quei rapporti portarono a interscambi materiali e culturali anche in forme a volte sorprendenti. Così accade con una prassi del dono, che va dalla «sella di splendida fattura», che il sultano Maometto II, in cerca di artisti e artigiani, invia a Lorenzo il Magnifico e che questi ricambia con «una magnifica medaglia realizzata da Bertoldo di Giovanni col ritratto del regnante», ai «cento tappeti degnissimi» inviati dallo stesso sultano a Ferrante I di Napoli o ai dipinti e ai cavalli inviati da Bayazet II a Francesco II Gonzaga.
Ben più dei doni, ovviamente, significa la politica. Papa Pio II voleva convertire al Vangelo Maometto II per farne un imperatore. Alessandro VI invocava il soccorso di Bayazet II per alleggerire la pressione di Carlo VIII di Francia, così come non sdegnava di fare Alfonso II di Napoli, mentre Ludovico il Moro gli offriva il suo vassallaggio.
Ha ragione perciò Giovanni Ricci a parlare qui di «ambiguo rapporto fra Stati italiani e Impero Ottomano» nel ’400 e ’500 (ma gli italiani erano in buona compagnia: nel 1536 i francesi strinsero con Costantinopoli un’intesa di lunghissima durata). Ambiguità che si apprezza di più grazie a Gabriella Airaldi («Genovesi e Turchi tra medioevo e età moderna») e alla densa rievocazione di Franco Cardini del trentennio fra l’assedio di Vienna (1683) e la pace del 1718, che diede un grave colpo alla potenza turca, senza però stroncarla, e segnò la vera fine dell’idea della crociata, preludendo al «tempo delle dolci, care, sorridenti turqueries».
Direi, comunque, che
l’interesse maggiore del volume sta nei molto interessanti saggi
sugli scambi culturali: ceramica, modelli decorativi, giardini,
tappeti, architettura. Quello sui giardini, di Luigi Zangheri, è
particolarmente suggestivo.
Si impara molto su un terreno storico ancora largamente da esplorare, purché, sia detto per inciso, non si dimentichi mai che il mare degli incontri e degli scambi fu anche sempre un mare di guerre e di battaglie, di razzie e di piraterie, che non furono sempre e soltanto frutto di volontà di potenza o di rapina. Alle armi e alle violenze si accompagnavano anche idee e religioni, valori e civiltà. Le nostre visioni di oggi non furono quelle del passato, anche a voler credere che oggi le nostre visioni siano per intero quelle che si dice.
Il Corriere della sera –
23 febbraio 2015
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