Franco Giudice
È il progresso, si
stampi!
Mai forse l’Inghilterra fu così prossima alla rivoluzione come nei decenni precedenti l’ascesa al trono della regina Vittoria (1837). Certo, estendendo, anche se non di molto, il numero degli aventi diritto al voto, il Reform Act del 1832 mise fine ai peggiori abusi del vecchio sistema politico. Ma gli accesi dibattiti sulla riforma avevano rivelato una nazione sull’orlo di un abisso, profondamente turbata da manifestazioni di massa spesso sfociate in violenti tumulti.
D’un tratto, il mondo
decoroso della provincia inglese descritto da Jane Austen, popolato
perlopiù da uomini e donne delle classi medio-alte, cedeva il passo
alle strade affollate della Londra di Dickens, con la tremolante
illuminazione a gas che proiettava le ombre inquietanti di personaggi
come il Fagin di Oliver Twist.
Insieme alle apprensioni sociali, si nutrivano però anche grandi speranze per un futuro di maggiori libertà civili e di progresso tecnologico. Un clima colto con arguzia da una caricatura del 1828, appartenente alla celebre serie di vignette intitolata The March of Intellect, che raffigura un automa gigante. È un mostro che ricorda i dipinti di Arcimboldo: due lampade a gas per occhi, una macchina da stampa a vapore come corpo, la testa fatta di libri, con sopra l’edificio della London University a mo’ di corona, ossia la prima università britannica, fondata nel 1826, che ammetteva studenti senza distinzioni di sesso, razza o fede religiosa.
Incarnava la grande
macchina dell’intelletto, simbolo della disponibilità universale
del sapere, che nel suo incedere implacabile impugnava un’enorme
scopa con cui spazzava via l’ordine stabilito e cambiava ogni cosa.
E che James A. Secord, attento studioso dell’impatto delle teorie
scientifiche sulla società inglese del XIX secolo, ha scelto come
copertina del suo libro.
Siamo all’alba dell’età vittoriana, tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, quando le innovazioni tecnologiche, come appunto la macchina da stampa a vapore, avevano reso i libri più economici e accessibili a un pubblico di massa. Fu in questo contesto che nacquero movimenti come la Society for the Diffusion of Useful Knowledge, animati dalla convinzione, di matrice baconiana, che il sapere doveva essere di pubblica utilità.
Non sembravano esserci
dubbi: l’atteggiamento razionale della scienza era l’unico
rimedio al malessere sociale, politico e religioso del paese. Ecco
perché bisognava favorirne la diffusione: la scienza aveva il potere
di trasformare non solo il modo di leggere, ma anche i pensieri più
intimi e le azioni delle persone.
Al culmine di questi cambiamenti, ci fu un proliferare di libri che riflettevano sulla natura e sul significato della scienza, dando luogo a un più ampio dibattito che coinvolgeva questioni di natura politica e religiosa. Non sfuggiva infatti che le nuove scoperte potevano essere usate sia per sostenere sia per demolire istituzioni e concezioni tradizionali.
Furono libri influenti e controversi. Apparvero tutti in una manciata di anni, tra il 1830 e il 1836, e proponevano tutti una visione del futuro basata sulle possibili conseguenze della scienza per la vita quotidiana. Secord li analizza in dettaglio uno per uno, prestando attenzione al modo in cui furono presentati, al prezzo di copertina, alla qualità della carta, al formato e, soprattutto, a come vennero letti dai contemporanei. E nell’immergersi nel vortice di idee e di reazioni che sollevarono, ci restituisce una vivida rappresentazione di «un momento storico unico» in cui il futuro della civiltà sembrava a portata di mano.
Ma proprio sul tipo
di futuro che ci si doveva aspettare, le opinioni erano assai
diverse. Così, quando nel 1830 uscirono postume le Consolations in
Travel, or the Last Days of a Philosopher, i lettori si trovarono di
fronte a un’opera piuttosto curiosa. L’autore era Humphry Davy,
il più celebrato uomo di scienza dell’epoca, a lungo presidente
della Royal Society, che aveva scoperto nuovi elementi chimici e
inventato la lampada di sicurezza per i minatori.
La stessa persona che ora
nelle Consolations, il suo testamento intellettuale, si lanciava in
ardite disquisizioni sull’immortalità, sul ruolo dei grandi uomini
nella storia e nella scienza, senza risparmiarsi viaggi fantastici su
altri pianeti e incontri visionari di varia natura. Era la risposta
di Davy alla crisi, che prendeva le distanze dai tentativi di
democratizzare la conoscenza, facendo appello invece a quei pochi
spiriti eletti cui bisognava affidare il destino della nazione.
Una concezione top-down del sapere dunque, condivisa anche da Charles Lyell, sebbene con altre finalità. Lyell intendeva anzitutto rivendicare il carattere di scienza alla geologia, la più controversa delle discipline emergenti, liberandola dall’accusa di essere troppo speculativa e rifondandola su solide basi induttive. Fu con quest’ambizione che scrisse i Principles of Geology, pubblicati in tre volumi tra il 1830 e il 1833.
Ma non era appunto a
lettori comuni che Lyell si rivolgeva, esclusi a priori dalla scelta
di mettere sul mercato l’opera a un prezzo troppo elevato. I suoi
destinatari erano le classi medio-alte e le autorità politiche e
accademiche; l’obiettivo rassicurarle che la geologia non
costituiva affatto una minaccia per la religione, e la si poteva
quindi inserire tra gli insegnamenti universitari, divulgandone poi i
risultati presso il volgo.
Un’impresa per nulla
semplice, poiché la prima cosa che colpiva nei Principles era il
rifiuto di considerare attendibile il racconto biblico. Per Lyell, la
conformazione attuale della Terra non era il risultato di catastrofi
geologiche come il diluvio universale, bensì di processi naturali e
uniformi operanti su intervalli di tempo inimmaginabilmente più
lunghi dei seimila anni contemplati da quel racconto.
Non tutti però approvavano la strategia elitaria di Davy e Lyell. Anzi, altri autori auspicavano che la scienza diventasse popolare e che i loro libri raggiungessero un pubblico quanto più ampio possibile. Il tono generale di tali opere era esemplificato dal Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy (1831) dell’astronomo John Herschel.
Un testo chiaro,
equilibrato e molto economico, che ebbe pertanto un enorme successo.
Ma che, a differenza di quanto pensiamo oggi, non fu considerato un
contributo alla riflessione epistemologica sull’induzione. Per i
numerosi lettori dell’epoca, come ci spiega Secord, il Discourse fu
soprattutto un “manuale di comportamento”: una guida a pensare
secondo i criteri di razionalità tipici della pratica scientifica.
A ispirare questi autori era la fede democratica che la scienza potesse essere esercitata da chiunque, forse perfino dalle donne.
Lo dimostrava lo
straordinario caso di Mary Sommerville, una matematica scozzese
autodidatta, che nel 1834 si conquistò la ribalta con un’opera
intitolata On the Connexion of the Physical Sciences. Un libro
ambizioso, subito diventato un best seller, dove si proponeva una
visione unitaria delle scienze, quando le discipline stavano giusto
iniziando a definire i propri territori d’indagine.
L’autrice non
annunciava nuove scoperte, ma la sua originalità consisteva nello
spaziare dall’astronomia alla fisica, dall’elettricità al
magnetismo, con uno stile narrativo accattivante e accessibile,
trattando argomenti complessi senza usare nemmeno un’equazione.
Insomma, un libro alla portata di tutti, che la rivista popolare
«Mechanics’ Magazine» promuoveva ed esaltava: «Leggetelo!
Leggetelo!»
La «Marcia dell’Intelletto», come sottolinea Secord, procedeva in realtà lungo sentieri non ancora del tutto esplorati, molti dei quali avrebbero condotto a vicoli ciechi. Eclatante, in tal senso, fu la parabola della frenologia, la “scienza” che sosteneva di individuare le attitudini morali e intellettuali dall’organizzazione del cervello quale risultava dalla forma esteriore del cranio.
A decretarne il successo
in Inghilterra fu The Constitution of Man di George Combe. Un’opera
pubblicata nel 1828, ma che suscitò un enorme interesse soltanto nel
1836, quando venne ristampata in un’edizione economica, vendendo in
pochi mesi 43.000 copie. La frenologia sembrava offrire la
possibilità di prevenire i crimini, di riformare la scuola e più in
generale la società. Queste potenziali applicazioni impressionarono
politici e primi ministri, ma destarono anche tanto scetticismo, non
privo di affilata ironia.
Al punto che la
frenologia fu parodiata come «Toe-tology», la scienza cioè che
definiva il carattere degli individui dalla forma dei loro piedi.
Secord ricostruisce con mano sicura il clima culturale
dell’Inghilterra previttoriana, catturando l’intenso entusiasmo
del pubblico di massa per la nuova letteratura scientifica in
un’epoca in cui lo scienziato non esisteva ancora come una
riconosciuta figura professionale.
Mancava perfino il
termine, che fu coniato da William Whewell nel 1834: scientist
appunto, in analogia con artist e journalist. Ma, per quanto strano
ci possa apparire, la parola non aveva affatto un valore positivo.
Per Whewell, gli scienziati si occupavano soltanto di dati e di
esperimenti, mentre spettava ai filosofi naturali come lui riflettere
sulle implicazioni morali e metafisiche del loro lavoro. A suo avviso
la differenza tra lo scienziato e il filosofo naturale era «come
quella tra un grande generale e un buon ingegnere».
Il sole 24 ore – 8
febbraio 2015
James A. Secord
Visions of Science: Books
and readers at the dawn of the Victorian age
Oxford University Press,
£ 18. 99
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