11 febbraio 2015

QUANDO IL PROGRESSO ERA IN MARCIA



Franco Giudice

È il progresso, si stampi!


Mai forse l’Inghilterra fu così prossima alla rivoluzione come nei decenni precedenti l’ascesa al trono della regina Vittoria (1837). Certo, estendendo, anche se non di molto, il numero degli aventi diritto al voto, il Reform Act del 1832 mise fine ai peggiori abusi del vecchio sistema politico. Ma gli accesi dibattiti sulla riforma avevano rivelato una nazione sull’orlo di un abisso, profondamente turbata da manifestazioni di massa spesso sfociate in violenti tumulti.

D’un tratto, il mondo decoroso della provincia inglese descritto da Jane Austen, popolato perlopiù da uomini e donne delle classi medio-alte, cedeva il passo alle strade affollate della Londra di Dickens, con la tremolante illuminazione a gas che proiettava le ombre inquietanti di personaggi come il Fagin di Oliver Twist.

Insieme alle apprensioni sociali, si nutrivano però anche grandi speranze per un futuro di maggiori libertà civili e di progresso tecnologico. Un clima colto con arguzia da una caricatura del 1828, appartenente alla celebre serie di vignette intitolata The March of Intellect, che raffigura un automa gigante. È un mostro che ricorda i dipinti di Arcimboldo: due lampade a gas per occhi, una macchina da stampa a vapore come corpo, la testa fatta di libri, con sopra l’edificio della London University a mo’ di corona, ossia la prima università britannica, fondata nel 1826, che ammetteva studenti senza distinzioni di sesso, razza o fede religiosa.

Incarnava la grande macchina dell’intelletto, simbolo della disponibilità universale del sapere, che nel suo incedere implacabile impugnava un’enorme scopa con cui spazzava via l’ordine stabilito e cambiava ogni cosa. E che James A. Secord, attento studioso dell’impatto delle teorie scientifiche sulla società inglese del XIX secolo, ha scelto come copertina del suo libro.

Siamo all’alba dell’età vittoriana, tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, quando le innovazioni tecnologiche, come appunto la macchina da stampa a vapore, avevano reso i libri più economici e accessibili a un pubblico di massa. Fu in questo contesto che nacquero movimenti come la Society for the Diffusion of Useful Knowledge, animati dalla convinzione, di matrice baconiana, che il sapere doveva essere di pubblica utilità.

Non sembravano esserci dubbi: l’atteggiamento razionale della scienza era l’unico rimedio al malessere sociale, politico e religioso del paese. Ecco perché bisognava favorirne la diffusione: la scienza aveva il potere di trasformare non solo il modo di leggere, ma anche i pensieri più intimi e le azioni delle persone.

Al culmine di questi cambiamenti, ci fu un proliferare di libri che riflettevano sulla natura e sul significato della scienza, dando luogo a un più ampio dibattito che coinvolgeva questioni di natura politica e religiosa. Non sfuggiva infatti che le nuove scoperte potevano essere usate sia per sostenere sia per demolire istituzioni e concezioni tradizionali.

Furono libri influenti e controversi. Apparvero tutti in una manciata di anni, tra il 1830 e il 1836, e proponevano tutti una visione del futuro basata sulle possibili conseguenze della scienza per la vita quotidiana. Secord li analizza in dettaglio uno per uno, prestando attenzione al modo in cui furono presentati, al prezzo di copertina, alla qualità della carta, al formato e, soprattutto, a come vennero letti dai contemporanei. E nell’immergersi nel vortice di idee e di reazioni che sollevarono, ci restituisce una vivida rappresentazione di «un momento storico unico» in cui il futuro della civiltà sembrava a portata di mano.
Ma proprio sul tipo di futuro che ci si doveva aspettare, le opinioni erano assai diverse. Così, quando nel 1830 uscirono postume le Consolations in Travel, or the Last Days of a Philosopher, i lettori si trovarono di fronte a un’opera piuttosto curiosa. L’autore era Humphry Davy, il più celebrato uomo di scienza dell’epoca, a lungo presidente della Royal Society, che aveva scoperto nuovi elementi chimici e inventato la lampada di sicurezza per i minatori.
La stessa persona che ora nelle Consolations, il suo testamento intellettuale, si lanciava in ardite disquisizioni sull’immortalità, sul ruolo dei grandi uomini nella storia e nella scienza, senza risparmiarsi viaggi fantastici su altri pianeti e incontri visionari di varia natura. Era la risposta di Davy alla crisi, che prendeva le distanze dai tentativi di democratizzare la conoscenza, facendo appello invece a quei pochi spiriti eletti cui bisognava affidare il destino della nazione.

Una concezione top-down del sapere dunque, condivisa anche da Charles Lyell, sebbene con altre finalità. Lyell intendeva anzitutto rivendicare il carattere di scienza alla geologia, la più controversa delle discipline emergenti, liberandola dall’accusa di essere troppo speculativa e rifondandola su solide basi induttive. Fu con quest’ambizione che scrisse i Principles of Geology, pubblicati in tre volumi tra il 1830 e il 1833.

Ma non era appunto a lettori comuni che Lyell si rivolgeva, esclusi a priori dalla scelta di mettere sul mercato l’opera a un prezzo troppo elevato. I suoi destinatari erano le classi medio-alte e le autorità politiche e accademiche; l’obiettivo rassicurarle che la geologia non costituiva affatto una minaccia per la religione, e la si poteva quindi inserire tra gli insegnamenti universitari, divulgandone poi i risultati presso il volgo.

Un’impresa per nulla semplice, poiché la prima cosa che colpiva nei Principles era il rifiuto di considerare attendibile il racconto biblico. Per Lyell, la conformazione attuale della Terra non era il risultato di catastrofi geologiche come il diluvio universale, bensì di processi naturali e uniformi operanti su intervalli di tempo inimmaginabilmente più lunghi dei seimila anni contemplati da quel racconto.

Non tutti però approvavano la strategia elitaria di Davy e Lyell. Anzi, altri autori auspicavano che la scienza diventasse popolare e che i loro libri raggiungessero un pubblico quanto più ampio possibile. Il tono generale di tali opere era esemplificato dal Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy (1831) dell’astronomo John Herschel.

Un testo chiaro, equilibrato e molto economico, che ebbe pertanto un enorme successo. Ma che, a differenza di quanto pensiamo oggi, non fu considerato un contributo alla riflessione epistemologica sull’induzione. Per i numerosi lettori dell’epoca, come ci spiega Secord, il Discourse fu soprattutto un “manuale di comportamento”: una guida a pensare secondo i criteri di razionalità tipici della pratica scientifica.

A ispirare questi autori era la fede democratica che la scienza potesse essere esercitata da chiunque, forse perfino dalle donne.

Lo dimostrava lo straordinario caso di Mary Sommerville, una matematica scozzese autodidatta, che nel 1834 si conquistò la ribalta con un’opera intitolata On the Connexion of the Physical Sciences. Un libro ambizioso, subito diventato un best seller, dove si proponeva una visione unitaria delle scienze, quando le discipline stavano giusto iniziando a definire i propri territori d’indagine.

L’autrice non annunciava nuove scoperte, ma la sua originalità consisteva nello spaziare dall’astronomia alla fisica, dall’elettricità al magnetismo, con uno stile narrativo accattivante e accessibile, trattando argomenti complessi senza usare nemmeno un’equazione. Insomma, un libro alla portata di tutti, che la rivista popolare «Mechanics’ Magazine» promuoveva ed esaltava: «Leggetelo! Leggetelo!»

La «Marcia dell’Intelletto», come sottolinea Secord, procedeva in realtà lungo sentieri non ancora del tutto esplorati, molti dei quali avrebbero condotto a vicoli ciechi. Eclatante, in tal senso, fu la parabola della frenologia, la “scienza” che sosteneva di individuare le attitudini morali e intellettuali dall’organizzazione del cervello quale risultava dalla forma esteriore del cranio.

A decretarne il successo in Inghilterra fu The Constitution of Man di George Combe. Un’opera pubblicata nel 1828, ma che suscitò un enorme interesse soltanto nel 1836, quando venne ristampata in un’edizione economica, vendendo in pochi mesi 43.000 copie. La frenologia sembrava offrire la possibilità di prevenire i crimini, di riformare la scuola e più in generale la società. Queste potenziali applicazioni impressionarono politici e primi ministri, ma destarono anche tanto scetticismo, non privo di affilata ironia.

Al punto che la frenologia fu parodiata come «Toe-tology», la scienza cioè che definiva il carattere degli individui dalla forma dei loro piedi. Secord ricostruisce con mano sicura il clima culturale dell’Inghilterra previttoriana, catturando l’intenso entusiasmo del pubblico di massa per la nuova letteratura scientifica in un’epoca in cui lo scienziato non esisteva ancora come una riconosciuta figura professionale.

Mancava perfino il termine, che fu coniato da William Whewell nel 1834: scientist appunto, in analogia con artist e journalist. Ma, per quanto strano ci possa apparire, la parola non aveva affatto un valore positivo. Per Whewell, gli scienziati si occupavano soltanto di dati e di esperimenti, mentre spettava ai filosofi naturali come lui riflettere sulle implicazioni morali e metafisiche del loro lavoro. A suo avviso la differenza tra lo scienziato e il filosofo naturale era «come quella tra un grande generale e un buon ingegnere».

Il sole 24 ore – 8 febbraio 2015

James A. Secord
Visions of Science: Books and readers at the dawn of the Victorian age
Oxford University Press,
£ 18. 99 

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