In Uomini e paesi dello zolfo, saggio del 1985 inserito nel volume Di là dal faro (Mondadori 1999), Vincenzo Consolo ci offre pagine di storia e poesia congiunte, come solo lui sapeva fare, ricostruendo la realtà di una società scomparsa. Di seguito proponiamo un brano del saggio.
UOMINI E PAESI DELLO ZOLFO
di Vincenzo Consolo
Siamo nel regno del latifondo, del feudo, quel regno che gli stessi antenati di Lampedusa, che così bene lo descrive ne Il Gattopardo, hanno contribuito, col loro assenteismo, con la loro incuria, con i loro criteri economici medievali, a desolare, a desertificare, renderlo quella distesa infinita di solitudinee miseria che è.
E’ l'eucaliptus,
di cui parla lo scrittore, l'unico albero che s'incontra in quella
distesa, solitario, in gruppi, in boschetti nelle valli e per i dirupi
franosi, l'eucaliptus,
quest'albero maligno e velenoso come un serpente, che "si trasforma in
una vera e propria pompa vivente che, se in un primo momento può
risultare utile a bonificare certi terreni acquitrinosi, finisce con il
diventare poi un mostro insaziabile, capace di prosciugare in breve
tempo sorgenti, disseccare falde sotterranee, depauperare il suolo
sottostante..." scrive Fulco Pratesi. L'eucaliptus
diventa simbolo del gabelloto del feudo, del soprastante, del campiere,
del picciotto, di quella gerarchia che, per delega del proprietario
lontano, ha angariato il contadino, il bracciante, ha sfruttato il
lavoro di questi e ha spogliato spesso il proprietario della terra;
simbolo del gabelloto mafioso, come le alte, snelle palme davanti alle
masserie, alle ville dei feudatari erano simbolo di proprietà e
d'aristocrazia.
Ma continuiamo il nostro viaggio
all’interno dell’isola, dove altre piante, altri simboli s’incontrano. E altro
paesaggio. Ci accorgiamo che, a poco a poco, le curve dei colli calvi, che si
sciolgono in pendìi, in vallate, si spezzano, s’increspano, s’accavallano, si
fanno dure e aspre: dai bruni o grigi terreni a mano a mano s’alzano frastagli
di rocce calcaree, i fianchi dei colli, ora ripidi, mostrano le radici di
quelle rocce, gli strati; le fiumare hanno tagliate netti quei fianchi, hanno
scavato tra un colle e l’altro profondi abissi.
E quelle rocce biancastre, lungo i
fianchi, sui profili delle alture sembrano residui d’ossa calcinate di giganteschi
animali preistorici. Nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino,
l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di
Sodoma... E sopra vi volteggiano i neri corvi... Sembrano luoghi, questi, di
maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per
Ifigenia, terra dei Tauri (“in questa terra estrema, desolata”, dice Euripide).
E qui, dove la roccia si frantuma e s’allarga, è il chiarchiàru [...]
Ma andiamo avanti, avanti, e, come in
una paurosa digressione onirica, in una metafisica discesa agli Inferi, arriviamo
in luoghi ancora più desolati, se è possibile, più disumani. Là, dove il
calcare si sfalda, si fa poroso, friabile, argilla e gesso giallognolo,
cristalli di gesso, tuffu niuru (tufo nero), marna turchina, là è lo
zolfo. Siamo nel cosiddetto altipiano dello zolfo, quello che va da
Caltanissetta ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Sicilia,
come la francese Carte Sulfurière de la Sicile del 1874, dove i
giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce,
partendo dalla periferia, dal Palermitano (Calatafimi, Lercara Friddi), dal
Catanese e dall’Ennese (Assoro, Licodia Eubea), a mano a mano s’infittiscono,
s’addensano, tra Cianciana e Valguarnera, divengono un continuo lago rosso
attorno a Girgenti, da Aragona a Serradifalco.
Vasto luogo infernale, crosta, volta
d’un mondo sotterraneo dove malvagie divinità catactonie si manifestano in
alto per acque salmastre, gorgoglìi di pozze motose, soffi di vapori gassosi;
dove Plutoni sarcastici si acquattano in attesa di Kore innocenti che non
saranno mai rese alla luce, alla pietà delle madri. Siamo scivolati
insensibilmente nel mito, ma avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo,
religioso e magico il suo uso. “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea: / —
Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali; portami il fuoco: / voglio
solfare la sala” (Odissea, XXII). Così Odisseo purifica i luoghi dove
sono stati uccisi i Proci. Solo sotto i Romani abbiamo notizia che lo zolfo
affiorante viene raccolto, quello sotterraneo viene scavato, fuso (E cuniculis
effusum, perficitur igni, Plinio), solidificato in pani (è attestato dalle
lastre di terracotta con marchio delle officine di Racalmuto conservate al
Museo nazionale di Palermo), largamente impiegato in medicina e nell’industria
tessile. E c’è un piccolo particolare nella storia della Sicilia sotto i
romani, nel II secolo a.C., di un frammento di zolfo che si fa simbolo di
rivolta e di riscatto. Racconta Diodoro Siculo, e con lui ripetono gli storici
ottocenteschi siciliani, da Nicolò Palmeri a Isidoro La Lumia, che lo schiavo
Euno, per acquistar prestigio presso i compagni, emetteva dalla bocca fiamme
miste ad oracoli, fiamme con l’artificio di una noce svuotata e riempita di
zolfo. E fiamme di zolfo uscivano dalla sua bocca guidando gli schiavi ribelli
alla conquista di Enna. Altre fiamme di zolfo, altre rivolte vedremo più
avanti, in tempi molto più vicini, se non di schiavi, di quelli che possiamo
chiamare i dannati del sottosuolo: gli zolfatari.
Sì,
si hanno ancora notizie della conoscenza in Sicilia dei giacimenti di zolfo nel
periodo arabo, normanno, angioino e ancora nel Quattro, Cinque, Seicento, ma
quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’isola,
dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia nel
Settecento, sotto i Borboni, con la prima rivoluzione industriale, con la scoperta
di un nuovo metodo per la preparazione dell’acido
solforico, che larghissimo impiego aveva nell’industria tessile, e della soda
artificiale. Zolfo allora si chiedeva alla Sicilia, da dove veniva inviato su
velieri fino al mercato di Marsiglia. Sul finire del Settecento, miniere attive
erano a Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo,
Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Novantamila cantàri
se ne esportavano, al prezzo di un ducato a cantàro. Ed ecco che le sotterranee
divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformano in
benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi
e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure
metafisiche, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’allagamenti, di scoppi,
di incendi. La febbre dello zolfo prende tutti, proprietari terrieri,
gabelloti, partitanti, picconieri, commercianti, bottegai, magazzinieri,
carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira avveduti stranieri, esperti di
speculazioni e di profitti.
È una febbre, quella dello zolfo, che
cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due
secoli, tra congiunture, crisi, crolli di prezzi, riprese e miracoli, raggiunge
il suo acme tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, decresce
fino a sparire verso gli anni ‘50. Lasciando tutto come prima, peggio di
prima. Lasciando, sull’altipiano di cui abbiamo detto, la polvere della
delusione e della sconfitta, un mare di detriti, cumuli senza fine di ginisi,
di scorie, un vasto cimitero di caverne risonanti, di miniere morte, sopra
cui i tralicci arrugginiti, i binari contorti dei carrelli fischiano sinistri
ai venti dell’inverno; son tornati a ricrescere i cespugli spinosi del
deserto, a strisciare le serpi, a volteggiare i corvi. E tornata a regnare, su
quell’altipiano, la metafisica, eliotiana desolazione:
Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che
crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio
dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare,
perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove
batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo,
nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
Ma nell’arco di quei due secoli, dallo
zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di
lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere é nato e si è
sviluppato un nuovo modo d’essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e
per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura.
Idealmente restringendo nel tempo e
ipotizzando improvviso l’esplodere e lo svilupparsi dell’industria zolfifera,
c’è da immaginarsi la corsa di masse di uomini verso questa nuova possibilità
di lavoro, verso questa nuova speranza. Dai popolosi paesi dell’interno
dell’isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove da
secoli le possibilità di lavoro dipendevano dalla volontà, dal capriccio del
gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro, dove le giornate
lavorative si riducevano a poche nell’arco dell’anno, dove il contadino era
angariato, oltre che dalla iniqua divisione dei prodotti, da tasse, decime e
balzelli vari, a cui bisognava aggiungere le tangenti illegali, dove squadre
di lavoratori stagionali, mietitori o spigolatori, erano costretti al
nomadismo, dove la vita insomma raggiungeva inimmaginabili livelli di
sfruttamento e di miseria, la miniera, la zolfara appare come un miraggio nel
deserto. Tutti ora hanno possibilità di lavoro, dagli uomini più giovani, saldi
e robusti, agli anziani, ai deboli, ai menomati, alle donne, ai bambini. Nella
miniera, dentro la miniera, Come in esilio o in extraterritorialità, trova
rifugio finanche il disgraziato che ha appena saldato un debito con la giustizia
o che con questa ha ancora dei conti in sospeso.
Senonché la miniera riproduce
immediatamente, nella gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento,
nella precarietà, nel rischio, nei danni, nella stessa spirale di miseria,
quella che era la vita contadina in superficie, nel feudo. Come se la
situazione orizzontale della campagna, in una rotazione di novanta gradi, si
fosse verticalizzata: così la miniera, dalla sua bocca, e via via nei vari
livelli, fisicamente, visivamente, è la rappresentazione di un’ingiusta,
insostenibile situazione sociale. In superficie, dunque, invisibili, lontani,
in alto nei loro palazzi di Palermo, di Girgenti o di Catania, erano i
proprietari del suolo, che per legge erano anche proprietari del sottosuolo in
cui era imprigionato lo zolfo, che senza preoccupazione e rischio alcuno
ricevevano dal gabelloto, dal concessionario, l’estaglio, la grossa
quota del prodotto. Scriveva il professore Caruso-Rasà nel 1896 ne La
questione siciliana degli zolfi:
Quando, nello scorso febbraio, ebbi occasione di
conoscere qui a Torino il giovane Notarbartolo di Villarosa, il famoso lion palermitano,
che per una scommessa fatta con lo zio, duca di San Giovanni, compiva a piedi
il viaggio da Palermo a Torino [in codeste imprese, impegnati in simili fatue avventure
consumavano la loro vita molti giovani rampolli della nobiltà siciliana, ndr], volli, sapendolo proprietario
di molte zolfare in quel di Villarosa, chiedergli degli appunti e delle
notizie che avrebbero potuto servirmi in questo studio, sul quale allora già
lavoravo. L’intervista che io ebbi col giovane aristocratico palermitano fu per
me poco edificante. Egli sapeva di esser padrone di certe zolfare nel
territorio di Villarosa, ma non sapeva né il numero, né il nome e mi confessò
candidamente che né egli né suo padre erano mai andati a visitarle.
E ci immaginiamo quest’incontro tra lo scrupoloso
professore siciliano, insegnante di economia politica nella Regia Università
della capitale piemontese, e il “noncurante” Notarbartolo.
Ancora in alto, lontani, erano gli sborsanti,
i finanziatori dell’impresa, i gabelloti, i magazzinieri, gli esportatori:
tutta una categoria parassitaria che dal lavoro della miniera traeva profitti.
Sempre fuori della miniera,
carrettieri, fabbri ferrai, bottegai (la bottega apparteneva spesso al
proprietario della miniera, al gabelloto o a persona di fiducia che applicava
agli zolfatari il cosiddetto truck system). E ancora, più vicini, più
strettamente legati alla miniera: calcaronai e arditori, addetti
cioè alla preparazione dei calcaroni e alla fusione dello zolfo; i vagonari,
che spingevano i carrelli sui binari dalla bocca della miniera fino ai calcaroni.
E quindi, dentro la miniera, distribuiti a diversi livelli come i dannati nei
vari gironi: i capimastri, i picconieri, gli spesalori, i
pompieri, i carusi.
Ma, se si guarda bene, tutto questo
vasto apparato, tutta questa realtà economica poggia principalmente sulle
spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso. L’uno a colpi di
piccone estrae lo zolfo, l’altro dalle viscere della terra lo trasporta alla
superficie, alla luce. L’uno e l’altro legati tra loro indissolubilmente oltre
che da un contratto (spesso giudicato infame, disumano: il famoso soccorso
morto), da uno stesso destino di pena, di fatica, di dannazione, di
pericolo; l’uno e l’altro legato da inestricabili fili di dominio e
soggezione, violenza e passività, benevolenza e rancore, amore e odio,
acquiescenza e ribellione, fedeltà e tradimento. Sono gli ultimi due anelli, i
picconiere e il caruso, di una lunga catena che nelle tenebre più fitte della
miniera, all’estremo limite della condizione umana, sul confine tra vita e
morte, hanno messo a nudo, come i loro corpi, la loro anima, gli istinti
primordiali dell’uomo, al di là di ogni remora, di ogni regola di ogni
condizionamento sociale.
Attorno al picconiere e al caruso, vi
sono poi gli altri protagonisti, v’è il coro degli altri dannati.
Gli uomini della zolfara hanno operato
una rivoluzione (o involuzione: giudichi ognuno come vuole) culturale, in ogni
caso una rottura con quella che era l’arcaica, tradizionale cultura contadina.
La quale era di rassegnazione, portatrice di valori statici, immutabili, di
prudenza e “saggezza” ereditate dai padri, di conformità a una morale e a una
“dignità” piccolo-borghese. La quale si esprimeva in un dire sentenzioso, in
proverbi, in collaudate massime sapienzali. Tutta la letteratura siciliana,
d’estrazione e tema contadino (da Verga in poi, fino alla svolta di Vittorini)
esprime un sottoproletariato e proletariato in abiti e con aspirazioni
piccolo-borghesi. Così viene fuori dagli studi etnologici di un Pitrè, di un
Salomone-Marino, di un Guastella; così viene fuori nei romanzi e nelle novelle
di Verga, in quelli di Capuana, nelle novelle di Pirandello. L’unico libro in cui
i contadini non siano mascherati da piccolo-borghesi è I mimi siciliani di
Francesco Lanza. Ma questo si spiega forse col fatto che Lanza, e i suoi
contadini, sono d’un paese zolfifero, di Valguarnera.[…]
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