23 febbraio 2015

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO




L'anno zero dei fantasmi
di Cristina Piccino
 
Di tutti i film di Chri­stian Petzold, il regi­sta di punta in quella nuova gene­ra­zione tede­sca com­parsa negli anni Due­mila, que­sto Phoe­nix — in Ita­lia col titolo Il segreto del suo volto, dal romanzo Le retour des cen­dres di Hubert Mon­tei­lhet — è quello che più rimanda all’esperienza di Haroun Farocki, magni­fico arti­sta scom­parso all’improvviso lo scorso luglio, sce­neg­gia­tore di quasi tutti i suoi film, e prima suo mae­stro alla Scuola di cinema di Ber­lino (la stessa che oggi gli stu­denti chie­dono di sal­vare da tec­ni­ci­smo e buro­cra­zia della Ger­ma­nia mer­ke­liana), e che anche Farocki ha fre­quen­tato negli anni Ses­santa quando venne inaugurata.

E que­sto anche se ogni film di Petzold nelle sue linee di mes­sin­scena, sem­pre luci­da­mente raf­fi­nate, si rife­ri­sce al cinema del suo Paese, quasi a trac­ciare una Sto­ria che passa per l’immaginario — e non solo cine­ma­to­gra­fico. Era la Ger­ma­nia est della Stasi così come ce la mostra­vano i film dis­si­denti e non nel pre­ce­dente Bar­bara, sono in que­sto il caba­ret di Weill e Bre­cht, la dol­cezza dispe­rata delle eroine fas­sbi­de­riane che inietta nella sua pro­ta­go­ni­sta, a cui dà ancora una volta corpo — sof­ferto e sbi­lenco — la musa petzol­diana (splen­dida attrice) Nina Hoss.

Ma anche il Fritz Lang di Una donna sulla luna (Frau im Mond, 1929), scritto dalla moglie di Lang, Thea von Har­bou che entrerà nel par­tito nazi­sta, e natu­ral­mente Vertigo-La donna che visse due volte di Hit­ch­cock.

La pro­ta­go­ni­sta Nelly, infatti, come la Made­leine hit­choc­kiana (sep­pure in senso oppo­sto) è una «reve­nant», uno spet­tro di sé stessa che ritorna al mondo diven­tando un’altra. Al tempo stesso Petzold che in que­sto magni­fico film con­ferma ancora una volta il suo talento, non si limita alla «cita­zione», la sua imma­gine è geo­me­tria emo­zio­nale che spiazza e stride con­tro ogni reto­rica (e ico­no­gra­fia) del Bene e del Male.

Siamo nella Ber­lino occu­pata dagli ame­ri­cani alla fine della guerra, una città in mace­rie nella quale si soprav­vive can­cel­lando ogni trac­cia del pas­sato; il nazi­smo, lo ster­mi­nio dei campi di con­cen­tra­mento, i milioni di morti, ebrei e non solo ai quali nes­suna resi­stenza interna si è oppo­sta. Quel vuoto sarà poi lo stesso con­tro il quale lot­te­ranno negli anni Ses­santa i figli della guerra, quei bam­bini cre­sciuti — la gene­ra­zione di Farocki appunto o di Fas­sbin­der — che non pos­sono accet­tare un Paese in cui troppo poco è stato messo in discus­sione, e che ha rico­struito senza nes­suna esi­genza di con­sa­pe­vo­lezza.

Nelly (Hoss) è soprav­vis­suta alla depor­ta­zione, è viva anche se deva­stata nell’anima e col viso sfi­gu­rato da ustioni pro­fonde. Nell’ospedale in cui le rico­strui­ranno il volto il medico le chiede di sce­glierne uno ispi­rato a un’attrice famoso, ma Nelly vuole solo tor­nare come prima, vuole essere se stessa anche se que­sto può fare male, e se in quella Ger­ma­nia le sarebbe più utile sem­brare un’altra.

I suoi amici, la fami­glia sono tutti morti. Nelly è osses­sio­nata dal ricordo del marito, musi­ci­sta come lei che era una can­tante famosa e vuole ritro­varlo. «Solo il pen­siero di Johnny ( Ronald Zehr­feld,) mi ha aiu­tata a soprav­vi­vere» dice all’amica, atti­vi­sta sio­ni­sta che pia­ni­fica per entrambe di emi­grare in Israele. L’uomo l’aveva nasco­sta, pro­tetta anche quando tutti ave­vano comin­ciato a allon­ta­narsi. Ma è dav­vero così? E se fosse stato lui a denun­ciarla ai nazi­sti e a farla arre­stare?

I due si incon­trano in un locale per sol­dati ame­ri­cani, luogo irreale di peri­coli e per­di­zione, il Phoe­nix appunto, ma lui non la rico­no­sce e le chiede, vista la somi­glianza di diven­tare Nelly per riscat­tare l’eredità della donna. Le inse­gna a imi­tare la sua scrit­tura, a cam­mi­nare, pet­ti­narsi, vestirsi come lei, e la rico­stru­zione della società tede­sca coin­cide così con quella del viso di Nelly e della sua iden­tità.

Ma que­sto dop­pio piano nar­ra­tivo, che costi­tui­sce il movi­mento del film è in oppo­si­zione, stri­dente, ter­ri­bile, come ogni sma­sche­ra­mento. Il romanzo di for­ma­zione di Nelly non coin­cide con quello della Ger­ma­nia, lei saprà e potrà solo mostrare la sua con­sa­pe­vo­lezza, gli altri no, per­ché com­plici anche solo con la loro indif­fe­renza.

Petzold entra nella Sto­ria con la potenza del melo­dramma a sfu­ma­ture noir di un’illusione che è il biso­gno dispe­rato della donna di cre­dere che qual­cosa, almeno l’amore, si sia sal­vato. E per que­sto è dispo­sta a tutto, anche a nuove umi­lia­zione, a tor­nare a essere pri­gio­niera, a negare sè stessa in quel corpo che ha cono­sciuto la disu­ma­niz­za­zione.
Ma se il suo sguardo coin­cide con quello della pro­ta­go­ni­sta, Phoe­nix non è un film sullo ster­mi­nio o sul nazi­smo; ciò che il regi­sta mette al cen­tro, e con forza distur­bante, è l’anno zero della Ger­ma­nia, e la ver­ti­gine di fronte alla Sto­ria di chi non vuole sapere, ascol­tare chi è tor­nato, nem­meno «rico­no­scerlo» per­ché signi­fi­che­rebbe rico­no­scere le pro­prie colpe.

Disto­gliere lo sguardo può certo essere una stra­te­gia di sal­vezza, l’accanimento con cui Nelly vuole cre­dere all’uomo che ama, per­ché il dolore ti schianta come accade all’amica, deter­mi­nata e bat­ta­gliera che si spa­rerà un colpo in testa, lei che cono­sce non sop­por­tando più tanto orrore.

Ma disto­gliere lo sguardo, visto che è la Ger­ma­nia, coloro che sono stati nazi­sti e che osser­vano Nelly/Petzold signi­fica «dall’altra parte» rimuo­vere ogni colpa, alle orec­chie e agli occhi di Nelly — Nina Hoss rende con impres­sio­nante vio­lenza la fisi­cità del trauma — ogni tono di voce, ogni sguardo, ogni sor­riso davanti a lei ebrea che solo poco prima era da con­dan­nare ripor­tano al nazi­smo.

Chi erano poco prima que­gli uomini e quelle donne che oggi sem­brano sor­ri­dere indif­fe­renti? Per que­sti per­fetti ese­cu­tori della rico­stru­zione, lei e quelli come lei rap­pre­sen­tano un insulto, una sberla, una pre­senza insop­por­ta­bile. Mi chie­de­ranno dei campi, dice Nelly al marito inter­pre­tando se stessa. Invece no, per­ché nes­suno vuole sapere.


Il Manifesto – 19 febbraio 2015

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