Esce nelle sale Selma,
il primo film sulla figura di Martin Luther King. Un film
attualissimo e non solo per gli Stati Uniti.
Giulia D'Agnolo Vallan
Una marcia del 1965
che parla al presente
Una folla di
afroamericani brutalizzati
selvaggiamente dalla polizia, la lotta
contro la discriminazione razziale nel
diritto di accesso al voto, la sporca realtà della trattativa
politica, un leader visionario che però tradiva
la moglie, un presidente che dice: «Non c’è un
problema dei neri, un problema del Sud e un problema
del Nord. C’è un problema dell’America»…..Selma è un
film ambientato nel 1965 ma che parla del 2015.
Infatti, il limite
dell’intelligente, elegante, ambizioso, a tratti
emozionante, lavoro di Ava DuVernay, prodotto
dalla Plan B di Brad Pitt (che l’anno scorso ci aveva dato 12
anni schiavo) è forse proprio quello di voler imbrigliare
così strettamente lo spirito del (nostro) tempo da
togliergli il respiro. Un anno dopo «il caso Steve McQueen»,
nel pieno di un’altra campagna Oscar, Selma arriva
accompagnato anche lui da un’aura (extrafilmica)
di calcolata inevitabilità , e da
qualche controversia sulla fedeltà storica.
In un perfetto
incontro tra giustezza poetica e timing,
dopo che la sceneggiatura dell’inglese Paul Webb era
già passata per le mani, di Stephen Frears, Michael Mann
e Lee Daniels, è stato affidato a una donna
afroamericana il compito di dirigere il
primo film mai realizzato su Martin Luther King.
Grandi leader del movimento come Malcolm X (Spike Lee,
1992) e Medgar Evers (Ghost of Mississipi di Rob
Reiner, 1996,) sono già stati soggetti di biopic
hollywoodiani; e la storia della lotta per
i diritti civili è stata trattata in film
diversissimi tra loro, come L’odio esplode a Dallas
di Roger Corman (1962), Mississippi Burning di
Alan Parker (1988), e, solo l’anno scorso, The Butler, di Lee
Daniels.
Lo stesso King è apparso
spesso come personaggio, al cinema e in tv :
da The Private Files of Edgar J. Hoover di Larry Cohen ,
a Crazy in Alabama di Antonio Banderas,
a Alì di Michael Mann, fino a un episodio di
Twilight Zone e parecchi di Saturday Night Live.
Ma Selma è il primo film incentrato interamente
sulla sua figura.
Non si tratta, come
succede spesso con un personaggio di questa
statura, di una bio/agiografia panoramica: Selma (che
ha un budget da 20 milioni di dollari e negli Stati
uniti è distribuito dalla Paramount) si concentra
su un episodio specifico, la marcia da Selma
a Montgomery che, nel marzo del 1965, rese possibile
una legge federale, il Voting Rights Act, intesa a proteggere
il diritto al voto di tutti i cittadini Usa,
a prescindere dal colore della pelle.
L’attore inglese David
Oyelowo è Martin Luther King, Tom Wilkinson
(inglese anche lui) la sua nemesi, Lyndon Johnson; sempre
dall’Inghilterra, Carmen Ejogo è Coretta Scott King
e Tim Roth il governatore razzista George
Wallace; mentre Dylan Baker interpreta un
viscidissimo Edgar J. Hoover e Oprah Winfrey
(anche co-produttrice) Annie Lee Coper, un’infermiera che perse il
lavoro dopo aver tentato più volte, e invano, di
iscriversi alle liste elettorali.
Fondamentale,
dietro alla macchina da presa, è il lavoro del
direttore della fotografia Bradford Young,
l’occhio più colto ed elettrizzante del nuovo black
cinema (Mother of George, Pariah, Restless e, già al fianco di Du
Vernay, per Middle of Nowhere ) che porta alla luce e al
taglio delle inquadrature la prospettiva
storico/culturale profonda del suo maestro alla Howard
University, Haile Gerima.
Costruito su infinite
sfumature di nero, intorno ai volti dei personaggi
fotografati come se fossero paessaggi, al
contorno delle loro teste, alle silhouettes scure dei corpi
contro la luce bianca di una finestra o i fari di
un’auto della polizia che li picchierà a sangue,
Selma ha la stoffa maestosa di un kolossal intimista,
un senso di scala e tempo epico che sfugge clamorosamente
a produzioni molto più grandiose, «alla»
Exodus. Come Lincoln e House of Cards, il film di
DuVerney (che è stata per anni una nota publicist
hollywoodiana) investe sull’attuale
fascinazione per il processo politico, nei suoi
dettagli meno idealistici.
La spregiudicatezza
strategica di King (piuttosto che la sua
dimensione di leader carismatico) è infatti
al cuore del film, giocato intorno a un serrato duetto
tra lui e Johnson, in cui il presidente vorrebbe
dare priorità alla sua guerra contro la povertà ,
mettendo in secondo piano la legge sul voto, e King lo
costringe ad agire diversamente organizzando –
a beneficio dei media nazionali — una
manifestazione pacifica sotto il naso di uno
sceriffo razzista che, inevitabilmente,
la farà finire nel sangue.
Trasmesse dalla Abc,
il 7 marzo 1965, interrompendo la messa in onda di Il
processo di Norimberga, le immagini dei poliziotti
dell’Alabama che picchiavano ferocemente una
folla inerme di afroamericani sull’Edmund Pettus
Bridge misero alle strette la Casa Bianca e il Congresso.
Quella domenica la marcia si fermò a Selma.
Per scelta di King, e prima che scoppiassero altre violenze, i dimostranti si fermarono al ponte anche due giorni dopo. Al terzo tentativo, e grazie alla sentenza di un giudice, la manifestazione ebbe finalmente il suo corso fino a Montgomery. Entro agosto Johnson avrebbe firmato la nuova legge. Insieme a King, Johnson, Hoover, Wallace, DuVernay arricchisce la texture del suo film popolandolo di altri protagonisti del movimento, come il futuro ambasciatore all’Onu e sindaco di Atlanta Andrew Young (allora un membro della Southern Christian Leadership Conference), il deputato della Georgia John Robert Lewis (allora dello Student Nonviolent Coordinating Committee) e Amelia Boyton, la leader degli attivisti di Selma che invitò King in città.
Le donne, in generale,
sembrano più importanti, rispetto alla storiografia
ufficiale, a partire da Coretta Scott King. Ed
è proprio sul dato storiografico che Selma
sta sollevando delle critiche, prima fra tutti
quella di aver trattato con eccessiva durezza Lyndon
Johnson. In difesa del presidente sono scesi suoi ex
collaboratori come George Califano, o il
direttore della LYondon Johnson Library Mark
Updegrove e lo storico Gary May: Johnson sarebbe
stato un alleato di King e non un avversario, come
invece appare nel film.
Il manifesto – 12 febbraio 2015
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