16 febbraio 2015

CHE COSA E' IL DESIDERIO?





Il saggio che segue fa parte di A come animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, a cura di Felice Cimatti e Leonardo Caffo, uscito in questi giorni per Bompiani. Si tratta di una interessante rilettura del celebre Simposio platonico che mi sembra utile confrontare con il pensiero di San Paolo  postato ieri:

 Desiderio
di Luca Illetterati


1. desiderio di
Quando nel Simposio deve da ultimo prendere la parola per proporre anch’egli un encomio di Eros, prima di procedere con la sua proposta, Socrate pone una domanda ad Agatone, a colui, cioè, in onore del quale la festa è stata organizzata, che è venuto immediatamente prima di lui nella serie dei discorsi sapientemente costruita da Platone e che ha in qualche modo raccolto, nel suo, il senso di tutti i discorsi precedenti:
«è amore (Eros) così fatto da essere amore di…?»[1]
Ovvero ancora:
«Amore ciò di cui è amore lo desidera o no?»[2]
Come noto, Agatone acconsentendo a questo abbozzo di argomento proposto da Socrate, decreta, seduta stante, la vacuità del proprio discorso, ovvero di quel discorso, elegante e forbito, in cui a Eros, volendo far sintesi di tutti i discorsi precedenti, venivano attribuite tutte le proprietà positive possibili. Ma se Eros è sempre desiderio di qualcosa che non possiede, come Agatone stesso acconsente, è evidente che non può, a un tempo, essere caratterizzato proprio da ciò in direzione di cui si volge.
Ciò che Agatone non ha compreso o non ha saputo vedere, e con lui ovviamente anche coloro che Agatone in qualche modo riunisce all’interno del proprio encomio, è la struttura essenzialmente desiderativa di Eros, il suo essere nel suo nucleo essenziale desiderio, tensione in direzione di ciò che non possiede, brama che risponde a una mancanza. E non avendo compreso questo, non ha capito la natura di quegli animali desideranti che sono gli umani, non ha compreso che la vita, dalle sue strutture più semplici fino a quelle più complesse, è appunto questo conatus: questo rivolgersi ad altro per conservare se stesso.
La critica ad Agatone è a un tempo, dunque, una confutazione di tutti i discorsi che hanno segnato il percorso del Simposio. Ovvero, per meglio dire, di tutti i discorsi, tranne uno. Quello di Aristofane è infatti l’unico degli encomi che ha preceduto quello di Socrate che non cade sotto l’ascia della sua confutazione. Aristofane, infatti, è l’unico ad avere riconosciuto la struttura desiderativa di Eros, l’unico ad aver posto la funzione desiderante come ciò che dice il modo d’essere degli animali umani, come quell’essenza, cioè, tolta la quale tolto tutto. E non a caso tutta la parte successiva dell’impresa socratica è rivolta a proporre un’alternativa a quell’unico discorso che aveva saputo guardare e tenere fisso lo sguardo sulla natura autentica di Eros, che aveva cioè riconosciuto il suo essere, nella sua struttura più profonda, desiderio.
In qualche modo il formidabile racconto che Platone mette in bocca ad Aristofane e l’altrettanto formidabile dialogo con Diotima che egli fa rievocare a Socrate si presentano come due strategie, certamente antagoniste, ma che si muovono su uno sfondo comune, per cercare di rendere conto della struttura del desiderio e del senso che tale tensione ancestrale può assumere per gli umani.

2. far di due uno
Per capire in che senso Eros sia fra gli dei «il più amico degli uomini» – dice infatti Aristofane – «prima di tutto, bisogna che sappiate qual è la natura umana e quali sono state le sue vicende»[3]. Il tentativo di Aristofane è dunque fin dall’inizio quello di radicare il senso della natura desiderante all’interno del modo d’essere stesso degli umani. Per certi versi il tentativo di Aristofane è quello di porre questa brama che sembra sfuggire a qualsiasi ragione all’interno di un quadro di senso dentro il quale essa può ricevere, così, un significato altrimenti inattingibile. Per aggrappare la struttura del desiderio a un qualche significato è dunque necessario, per Aristofane, ancorare il desiderio alla natura dell’uomo, alla sua costituzione, al suo statuto ontologico, ovvero, ancora più decisamente, alla condizione esistenziale dentro la quale gli umani si trovano gettati a vivere. L’esistenza degli umani è segnata originariamente, secondo Aristofane, dal tentativo, disperato eppure incessante, di essere l’unità che non riescono ad essere, di trovare in un’altra esistenza ciò che dovrebbe essere in grado di riempire la mancanza che essa sente fin dall’inizio, fin dal suo primo respiro e dal suo primo ingresso nel mondo. Come se l’altro potesse in qualche modo curare la ferita che ognuno è. Il desiderio, questa dimensione ancestrale e originaria, per essere accolta deve essere affidata, secondo Aristofane, a un senso in grado di accomodarlo, in grado di rendere in qualche modo razionalmente comprensibile la sua natura irrazionale.
Eros è infatti per Aristofane la forza desiderativa che spinge gli umani «gli uni verso gli altri, e che (…) tenta far di due uno e risanare la natura umana»[4].
Se da un lato, dunque, Aristofane riconosce la radice desiderativa dell’esistere, riconosce cioè il desiderio come struttura inaggirabile della vita, dall’altro per poterlo accettare ed accogliere deve necessariamente incapsularlo dentro un orizzonte di senso che mira all’annullamento del desiderio stesso. Un orizzonte segnato da un’origine e da uno scopo. Quegli esseri desideranti che sono infatti gli umani hanno come loro archè la scissione dell’interezza che erano, come loro passato archeologico una perfezione poi infranta, e come loro telos, come loro aspirazione e progetto, la ricomposizione della frattura, il ritorno a una interezza che è la sola condizione di possibilità di una qualche forma di sensatezza dell’esperienza desiderativa dell’esistenza.
Il desiderio, in questo senso, è nella prospettiva aristofanea, tanto la tensione in direzione della pienezza infranta, dell’unità perduta, quanto la manifestazione più radicale della ferita e della lacerazione. Se la vita è desiderio e il desiderio implica mancanza, la vita è infatti, strutturalmente, il movimento di una mancanza. E l’unico modo che, secondo Aristofane, è dato agli umani per dare una direzione sensata a questa brama è quello di pensarla come un’azione volta alla riconquista di quell’intero che erano, quello holon che non sono più, alla ricomposizione dell’armonia perduta, alla ricostituzione della integrità violata. In questo senso, quando Aristofane dice che Eros è per l’uomo «medico di mali, la cui guarigione costituirebbe per la stirpe umana la felicità più grande»[5] intende dire, appunto, che Eros è la spinta e l’impulso alla guarigione, che mai può giungere in realtà a pieno compimento, di quella malattia originaria che è per l’uomo la sua incompletezza, il suo vivere nella mancanza e nel bisogno. Eros è in qualche modo il segno di una nostalgia che produce significato: segno evidente della mancanza e tentativo e tensione di colmarla.
Secondo Aristofane, dunque, l’esperienza desiderativa trova un suo senso solo nel momento in cui viene pensata e vissuta come una tensione in direzione della propria cancellazione, solo, cioè, se essa viene a stagliarsi su uno sfondo, che assume appunto la funzione di condizione di senso, caratterizzato dall’assenza di desiderio, da una dimensione di totalità autonoma, autosufficiente e autosussistente rispetto a cui solamente il desiderio sembra poter essere significato.

3. colui che riempie l’intervallo
Il punto di partenza dell’argomentazione socratica non è diverso da quello di Aristofane. Ciò che è diverso è lo sfondo di significazione dentro il quale Socrate pone quella struttura desiderativa che è Eros.
Il punto di partenza, per Socrate, è che Eros, in quanto desiderio, non può essere identificato con l’oggetto o le proprietà che desidera. E dunque: se Eros, in quanto tensione verso la bellezza, non può essere definito né bello né brutto, se in quanto tensione verso la bontà non può essere definito né buono né cattivo, se in quanto tensione verso la sapienza non può essere definito né sapiente né ignorante, egli allora non può nemmeno essere definito, così come avevano fatto tutti i simposiasti fino a quel momento, come un dio. Ma ancora una volta il fatto che Eros non possa essere detto ‘dio’ non significa, secondo un’opposizione che potrebbe apparire come naturale, che Eros sia dunque un mortale. Eros, sostiene Socrate riportando il dialogo con Diotima, è un daimon e come ogni daimon «sta di mezzo (metaxù) fra il mortale e il dio»[6]. Il daimon è l’intermediario tra il mortale e il dio, è ciò che trova il suo spazio nella distanza che separa il mortale dal dio e che, proprio in quanto si pone in questa distanza, in questo limite, è anche ciò che consente una qualche forma di comunicazione e di tangenza tra gli estremi di cui segna la differenza. Il demone, per usare le parole di Platone, è colui che «riempie l’intervallo»[7] e in questo senso ha una funzione di mediazione fra due mondi. Proprio in quanto non è né mortale né immortale, ma si pone nella distanza che separa le due dimensioni, non è propriamente nessuna delle due e partecipa però di entrambe.
Il desiderio è l’esperienza di questo limite. Il modo d’essere di ciò che vive nel desiderio non è riducibile ad alcuna delle due dimensioni fra le quali trova il suo spazio; partecipa di entrambe senza poter essere ricondotto a una sola di esse: vive in bilico, nello spazio interstiziale fra sé e l’altro di sé, in una posizione che è sempre liminare tra il proprio e l’estraneo. Il desiderio ha, in questo senso, un carattere contradditorio che non può essere pacificato fuori da una sua radicale distorsione o dalla sua nientificazione. Come scrive Jacques Derrida «lo statuto del daimon – e quindi quello della natura desiderante, aggiungiamo noi – appare come quello di un individuo che nessuna “logica” può fissare in una definizione non-contradditoria»[8]. Eros infatti, proprio perché segnato strutturalmente dalla mancanza e dall’indigenza, non è mai compiuto. Ma questo suo non essere compiuto non corrisponde a un essere niente. La natura desiderante è questa esperienza della mancanza, è cioè quella natura che è solo nella misura in cui è mancante, che trova nella mancanza stessa e non nel suo toglimento, la sua condizione di possibilità. Eros, per usare ancora le parole di Diotima, «ha la natura della madre», Penìa, ed è dunque «accasato col bisogno»[9] – vive nella condizione del bisogno, ha il bisogno come costituente la propria natura, come strutturante il proprio modo d’essere – ma ha anche la natura del padre, Poros, per cui è cacciatore, desideroso d’intendere, continuamente teso al superamento del bisogno, che pure lo costituisce così intimamente[10].
Il desiderio è l’esperienza della mancanza e il movimento che tale esperienza produce.
Secondo Socrate, dunque, la natura desiderativa non riceve senso dalla presupposizione di una unità originaria e dalla memoria di una natura intonsa che si fa movimento in vista della sua ricostituzione. Il desiderio non è il tendere all’unità perduta, non è un doloroso e nostalgico volgersi in direzione della pienezza infranta, di ciò che si era e non si è più. Nel mito narrato da Aristofane ogni essere umano è una metà che nel caso riuscisse a ricongiungersi con l’altra metà riformerebbe l’unità originaria in un percorso che vorrebbe trovare in questa ricomposizione la sua conclusione e la sua chiusura. L’Eros di cui parla Diotima è invece il tendere in quanto tale, un tendere che appare connaturato alla struttura stessa della finitezza dell’esistenza e che, anzi, è ciò che la fa essere ciò che essa è, che la differenzia tanto dalla divinità, quanto dal semplice sussistere ignaro di se stesso. A differenza di quanto accade nella narrazione aristofanea, dove il desiderio viene riconosciuto come il disperato tentativo di riappropriarsi di ciò che impedisce all’uomo di essere davvero ciò che è, in Socrate esso si configura piuttosto come tensione nel senso di una costitutiva apertura all’altro in un processo che si conclude non con la ricomposizione, con la agognata chiusura in se stessa dell’unità infranta, bensì nella generazione, nel «generare in bellezza», sia nella sfera del corpo, sia nella sfera dell’anima. Quanto vi è di divino e di immortale «in ogni essere che ha vita ed è destinato a morire», dice Diotima, è «gravidanza e generazione»[11], dove è evidente che la potenza di Eros è rivolta non alla possibilità della ricomposizione di una innocenza violata, di un’armonia successivamente lacerata, e dunque non nella chiusura in se stesso, ma nell’apertura all’altro, nella possibilità, che questa apertura dischiude, di far essere l’altro, ovvero ancora in un movimento che è produzione di differenza e che invita a pensare la differenza come costitutiva della possibilità stessa di essere.

4. l’attività della mancanza
Il vivente è dunque un modo d’essere che ha il bisogno come costitutivo della sua essenza. Dove dire che è essenziale significa dire che nel momento in cui a un vivente fosse estranea la condizione del bisogno, esso non sarebbe più un vivente. Qualsiasi organismo vivente, infatti, ha bisogno, per sussistere e mantenersi in quanto vivente, di demolire e ricostruire i propri “materiali” costitutivi in quelle attività metaboliche che consistono fondamentalmente nell’assimilazione, nella trasformazione e nell’eliminazione, le quali possono essere lette, nella loro struttura di fondo, tutte come forme di articolazione di un bisogno. Il vivente ha cioè bisogno fin dall’inizio, per poter continuare ad essere se stesso, di trasformare e modificare se stesso, assumendo, in questi processi, anche l’altro da sé, utilizzando cioè, per la “costruzione” di sé, oltre che il “materiale” proveniente da se stesso, anche ciò che è esterno a sè. Si potrebbe dire che questo essere l’attività della mancanza (die Tätigkeit des Mangels) – per usare una espressione particolarmente efficace di Hegel – è ciò che differenzia il vivente dal regno della pura materialità inorganica, la quale, non implicando alcuna mutazione che abbia origine da se stessa, è del tutto inidonea, per la sua stessa costituzione, a essere affetta attivamente da qualcosa come una mancanza[12].
Dire però che l’organismo vivente è segnato nel suo modo d’essere dal bisogno non significa perciò dire che esso necessita dell’altro da sé per potersi considerare un tutto allo stesso modo per cui un ente che si trova nella condizione della difettività manca di qualcosa per poter essere se stesso, o allo stesso modo per cui, ad esempio, la macchina al fine di funzionare ha bisogno del carburante. Il vivente, infatti, in quanto processo – e in quanto perciò struttura in continuo divenire – non è davvero mai lo stesso – al punto tale che, se due momenti successivi di questo processo risultassero assolutamente identici potremmo dire che esso ha smesso di vivere – ed è definibile come «un sistema che in ogni momento è l’unità nella sua pienezza»[13]. In una tale prospettiva, la mancanza non è, perciò, per la vita, la manifestazione di un difetto che possa essere riparato per consentire ad essa di sussistere nella sua forma compiuta o la constatazione del non esserci di un pezzo che impedisce al sistema di funzionare correttamente. Poiché la mancanza è costitutiva del modo d’essere della vita ed è perciò connaturata ad essa, l’esserci stesso della mancanza è un tutt’uno con la forma compiuta che la vita offre di se stessa.
Se è vero che noi consideriamo e chiamiamo compiuto l’ente cui non manca di nulla relativamente a ciò che è richiesto dalla sua propria costituzione, e che la vita è costitutivamente l’attività di una mancanza, ciò che alla vita non può mancare, per essere ciò che è, è il mancare stesso. Senza questa attività della mancanza, infatti, la vita stessa non sarebbe[14]. Il bisogno e la mancanza che appartengono alla vita non possono perciò essere letti come momenti difettivi o come interruzioni, il cui superamento, come presupposto nel modello aristofaneo, possa ricondurre a una positività preesistente. Ciò che la vita è, le sue capacità, le sue peculiarità e quindi la sua perfezione, non sono qualcosa d’altro rispetto alla negatività che si manifesta nel bisogno e nella mancanza che sono intrecciati al suo modo d’essere.

5. sopportare la contraddizione
E’ questo che fa secondo Hegel dell’animale – e Hegel qui si riferisce significativamente all’animalità in generale, non esclusivamente all’animale umano – un soggetto. Il fatto cioè che l’organismo animale non è semplicemente l’essere mancante, quanto piuttosto la capacità di sentire e vivere in se stesso la mancanza. E proprio in quanto è questa capacità di vivere e sentire il proprio stato di indigenza, e quindi la propria contraddizione e la propria dolorosa lacerazione come elemento determinante la propria costituzione ontologica, esso è davvero soggetto:
un essere siffatto – dice infatti Hegel – che è capace di avere in sé la contraddizione di se stesso e di sopportarla, è il soggetto; ciò costituisce la sua infinità[15].
L’infinità che viene qui attribuita al modo d’essere del soggetto non è da intendersi evidentemente come la possibilità da parte del soggetto di mettersi alle spalle le forme concrete della mancanza e del bisogno che le sono invece costitutive, ovvero, detto diversamente, di porsi al di là della sua natura. L’infinità del soggetto consiste piuttosto nella sua capacità di sentire il proprio essere finito, di esperire la propria negatività, di vivere il proprio limite come mancanza e come tensione. L’infinità del soggetto ­– l’infinità di cui l’animale in quanto tale è espressione compiuta – si rivela in questo senso come la capacità del finito di trascendersi proprio nell’atto stesso in cui esso si avverte, nel desiderio, appunto, come soggetto finito.
Ecco: il desiderio è ciò che consente di pensare l’aporia del finito che vive, ovvero la sua verità; il suo essere tale solo in quanto fa esperienza, nel desiderio e nella mancanza, allo stesso tempo di sé e dell’altro da sé, ovvero per meglio dire, della relazione inscindibile tra il sé e l’altro, della tensione che dal sé lo spinge in direzione dell’altro da sé. Il desiderio è in questo modo, verrebbe da dire, la condizione di possibilità del mondo. Non perché l’attività desiderante in quanto tale istituisca o costruisca il mondo, quanto piuttosto nel senso che il mondo è sempre una relazione e una concatenazione di un modo d’essere che lo vive e lo abita.
Il desiderio è perciò il segno proprio e peculiare di quel finito che fa esperienza di se stesso, di quel finito, cioè, che coglie il proprio limite e che nel coglierlo si è perciò già necessariamente posto in qualche modo anche al di là di esso. Di quel finito, cioè che nella sua struttura aporetica è anche sempre infinito proprio perché, in questa attività della mancanza, nell’avvertire sé attraverso la carenza di sé e nell’apertura all’altro da sé, non è mai semplicemente un finito, perché in questo movimento è già da sempre un attivarsi, un essere fuori di sé, un cogliersi attraverso l’attrito e la resistenza con l’altro da sè.
Il desiderio è ciò che fa del finito che avverte se stesso una trascendenza immanente: un movimento di oltrepassamento, un tendere cioè sempre e incessantemente oltre se stesso, in direzione non tanto di un’infinità nella quale la mancanza è tolta o annullata, quanto piuttosto di un’infinità nella quale il finito si riconosce per ciò che esso è.
 Note
[1] Platone, Simposio, 199 d (trad. it. di C. Diano, introduzione e commento di D. Susanetti, Marsilio, Venezia, p. 125).
[2] Ivi, 200 a (trad. it. cit., p. 125).
[3] Ivi, 189 d (trad. it. cit., p. 101).
[4] Ivi, 191 d (trad. it. cit., p. 105).
[5] Ivi, 189 d (trad. it. cit., p. 101).
[6] Ivi, 202 e (trad. it. cit., p. 135).
[7] Ivi, 202 e (135).
[8] J. Derrida, La farmacia di Platone, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 1985, p. 100.
[9] Symp. 203 d (trad. it. cit., p. 137).
[10] Ivi, 203 d-e (trad. it. cit., p. 137).
[11] Ivi, 206 c (trad. it. cit., p. 143).
[12] L’espressione attività della mancanza (Thätigkeit des Mangels) è usata da Hegel nella determinazione della struttura dell’impulso (Trieb) che appartiene all’organismo vivente: cfr. G.W.F. Hegel, Zum Mechanismus, Chemismus, Organismus und Erkennen, in Gesammelte Werke, Bd. 12, hrsg. v. F. Hogemann u. W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1985, pp. 259-298, in part. p. 280. In relazione a questo testo e alla sua rilevanza sia dal punto di vista teorico sia in relazione all’evoluzione del pensiero hegeliano, rinvio al mio commento all’edizione italiana: G.W.F. Hegel, Sul meccanismo, il chimismo, l’organismo e il conoscere, trad. it. con introduzione e commento a cura di L. Illetterati, Verifiche, Trento 1996, p. 54.
[13] H.R. Maturana – F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, trad. it. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 1985, p. 142.
[14] Nel chiarire i diversi significati in cui si dice necessario, Aristotele porta come esempio, per chiarire il primo di questi modi – «necessario significa ciò senza il cui concorso non è possibile vivere» – la respirazione e il nutrimento per l’animale, «perché questo non può esistere senza di quelli» (Aristot., Metaph., V, 1015 a 20 sgg). Poiché nutrimento e respirazione costituiscono l’articolazione di una mancanza, è possibile dunque dire che è la mancanza stessa ad essere necessaria.
[15] G. W. F. Hegel, enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1907, § 359 An.).

Questo testo è stato pubblicato oggi anche dal sito  http://www.leparoleelecose.it/

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