A Varese le fotografie
del regista tedesco sull'America profonda. Una grande mostra, da non
perdere.
Manuela Gandini
Wim Wenders
Scatti americani tra
sogno e incubo
«All’improvviso vidi una luce diversa splendere attraverso la polvere e il fumo. Sollevai lo sguardo e mi resi conto che il riflesso del sole aveva immerso per qualche istante Ground Zero in una luce accecante. Era ancora mattina, e fino a quel momento i grattaceli intorno avevano impedito ai raggi del sole di illuminare direttamente lo spazio rado di Ground Zero. Ma adesso gli edifici circostanti contribuivano a deviare la luce».
A voce bassa, con una
dedizione totale alla percezione dello spirito dei luoghi, Wim
Wenders racconta la propria concezione del mondo, della bellezza e
dei conflitti contemporanei all’apertura della sua personale,
intitolata «America», in corso a Villa Panza a Varese.
Curata dalla direttrice, Anna Bernardini, la mostra – che consta di 34 fotografie di vario formato – rimanda alla passione del conte Panza di Biumo per il paesaggio, l’arte e la cultura statunitensi. Panza e Wenders: due diverse visioni europee che hanno vissuto con stupore e amore gli immensi spazi degli Stati Uniti, i deserti e i cieli, le case e la promessa del sogno americano.
Quel sogno, misto a nostalgia, prorompe dai paesaggi orizzontali e solitari, dislocati sulle pareti della villa, tra arredi ottocenteschi e grandi lampadari. La mimesi - tra i muri scrostati di un vecchio edificio di Paris (in Texas); un cimitero indiano in Montana; una strada deserta puntellata dai pali dell’elettricità, e le stanze di Dan Flavin e di Turrell - è un’esperienza (riuscita) di trasposizione temporale e fisica.
Nel caso dei minimalisti
americani, collezionati da Panza, lo spettatore è immerso nella luce
di spazi impalpabili e fa un’esperienza sensoriale completa; mentre
le foto di Wenders lo risucchiano in uno spazio aperto, esistente,
visivamente connotato. «Faccio grandi foto – ha detto Wenders -
perché voglio portarvi altrove; i paesaggi danno forme alle nostre
vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione
umana e, se sei attento a loro, acuisci la tua sensibilità nei loro
confronti, scopri che hanno storie da raccontare che sono molto di
più che semplici luoghi».
Il regista, come
sdoppiato nella propria intenzionalità, non fotografa mai quando
gira un film e non gira quando fotografa. Cosa cerca nei luoghi? «La
verità» e per trovarla si sbarazza dei preconcetti – «come
fotografo sono vuoto» - non usa il digitale per non falsare il
messaggio e adopera la pellicola con la Leica o la Makina-Plaubel.
Le foto, colorate o in bianco e nero, grandissime o piccole, sembrano film fatti di un solo fotogramma nel quale – come in un racconto di Raymond Carver o in un quadro di Edward Hopper – il quotidiano è fulminante: è uno scatto, è una fascinazione o una perdita secca. Il quotidiano è il muro di un vecchio bar nel Texas dall’insegna stinta e dai locali vuoti, oppure è una donna seduta a una finestra a Los Angeles, in mezzo alla solitudine delle case hopperiane.
Ma cosa troviamo in
quello stereotipo americano quasi interamente spogliato di ogni
presenza umana? Rispolveriamo in technicolor la nostra memoria fatta
di immagini mediatiche, culturali e di esperienze fisiche, perché,
nelle foto di un giardino kitsch o della sala d’aspetto di un
vecchio Motel, sfila il ricordo di Paris Texas o Alice nelle città;
e nelle macerie fumanti di Ground Zero riappaiono i telegiornali e
l’umanità braccata di Salgado, il fotografo raccontato nell’
ultimo film di Wenders Il sale della Terra.
Ed è con questa lente,
quella dei propri ricordi e delle proprie epifanie mista alle
narrazioni wendersiane, che si produce una percezione manierista, che
ci riporta sul luogo del delitto. «America» è una mostra speciale,
fatta di relazioni e sovrapposizioni multiple tra persone, storie,
periodi e luoghi.
È un viaggio in quella
bella America di fine ’900, fatta di innumerevoli «Yes, I can»;
ma è anche l’America della fine. L’America della violenza più
atroce e distruttiva che si potesse immaginare, quella dell’11
settembre. «I giorni dopo la tragedia avevo gli incubi, mi sentivo
malato. Dovevo placare questa inquietudine. Così andai a New York
convinto che avrei potuto curare questa malattia solo vedendo le cose
con i miei occhi», ha raccontato il regista.
Era l’8 novembre, due
mesi dopo l’attentato, l’amico Joel Meyerowitz, unico fotografo
accreditato a documentare lo sgombro di corpi e macerie ancora
fumanti, lo fece entrare. Le immagini che, ancora increduli, vediamo
a fine mostra sono enormi e la devastazione fuori scala. Si chiude
così «America», con uno squarcio irricomponibile, un raggio di
sole e una domanda: il terrore permanente è davvero la nuova
condizione di vita dell’umanità?
La Stampa - 14 febbraio
2015
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