Un’analisi del New
Labour di Tony Blair. L’incerta eredità di un’esperienza che ha
aderito allo «spirito nuovo» della globalizzazione. Una chance per
un partito che individuava nel governo la sua fonte di
legittimazione.
Claudio Vercelli
Quella sinistra
incantata dal mercato
Matteo Renzi è un
B&B. Sta esattamente nella metà di una ipotetica
linea continua che abbia, ai suoi due capi estremi,
Berlusconi e Blair. Peraltro, riguardo alle
reciprocità tra questi ultimi due non si nutrivano
troppi dubbi. Entrambi hanno concorso ad un obiettivo,
raggiungendolo in pieno: svuotare le culture
politiche d’origine e sostituirvi una
mucillagine di suggestioni, a tratti
populista.
Del mutamento
globale in atto nelle società a sviluppo avanzato,
peraltro, non sono causa ma effetto, non male bensì sintomo.
Che si prolungano, l’uno e l’altro, al di là di
ogni ragionevole sopportazione.
Dopo di che, lasciando da
parte le vicende di casa nostra, è interessante
spostare il fuoco dell’attenzione su qualcosa che si
è già consumato e che tuttavia rimane
come un tracciato ineludibile. Le fortune
del partito di Tony Blair ritornano in un volume di grande
interesse qual è quello firmato da Florence
Faucher e Patrick Le Galès, L’esperienza del New
Labour. Un’analisi critica della politica e delle
politiche (Franco Angeli, pp. 192, euro 25). In fondo
è già tempo di farne la storia, ricostruendone
il profilo sociologico e l’imprinting
ideologico. Perché il lascito e l’eco della
sua impostazione ritorna nelle vicende odierne.
Gli spunti sono quindi
molteplici. Dalla lettura del percorso
neolaburista, infatti, si colgono gli
aspetti di lungo corso dell’egemonia culturale della
società di mercato e degli effetti dei processi di
governo post-democratici. Tre sono i tracciati a partire
dai quali gli autori articolano le loro riflessioni.
Il primo è il convincimento, diffuso nella
leadership di Blair, che si sia pervenuti ad un
«nuovo tempo», quello della globalizzazione,
dove gli indirizzi di fondo dei grandi processi
macroeconomici, nonché i loro riflessi
sociali, siano non solo non governabili politicamente
ma che incorporino in sé un’ineluttabilità per molti
aspetti positiva. Da ciò, quindi, l’idea che qualsiasi
impianto riformista possa misurarsi solo con gli
effetti di tali trend, mai con le cause, e che debba agire sui
destinatari passivi del mutamento, la società
stessa, e non sugli agenti attivi, i centri di potere.
Ideologia
utilitarista
Il secondo elemento
rimanda all’avversione verso i corpi intermedi, ossia
i soggetti della rappresentanza e della
mediazione, a favore invece di un rapporto diretto tra
decisore e cittadino, quest’ultimo inteso come
un consumatore. A ciò si riconnette una
sostanziale indifferenza, se non la deliberata
diffidenza, verso qualsiasi idea di società che non
corrisponda alle proprie immagini ideologiche.
Di qui al passo che considera la società medesima
come un vincolo, e non una risorsa, nel nome del
microcomunitarismo
e dell’individualismo più puri, la distanza è breve
e si sposa con la concezione utilitarista,
che vede nelle collettività un ostacolo al
raggiungimento degli obiettivi del singolo.
Tuttavia, da ciò non è derivata una
contrazione del ruolo dello Stato ma, piuttosto,
una ridefinizione, in chiave fortemente
restrittiva, della sfera della partecipazione
politica. Quest’ultima, infatti, sempre più spesso
è stata occupata dai professionisti
della comunicazione.
L’ossessione per
l’immagine di sé ha quindi scavalcato e offuscato
la capacità stessa di produrre un immaginario
pubblico. Il terzo fattore è dettato dal
centrismo come atteggiamento mentale, prima
ancora che per la sua natura di collocazione nel
quadro politico. Nel momento stesso in cui si ponevano
le premesse della sua crisi in tutto il continente
europeo, un’indistinta idea di «classe media» veniva
identificata come l’approdo obbligato per ciò
che restava del laburismo.
Forse è stato
questo l’errore più clamoroso, derivante
dall’incapacità di cogliere l’effetto delle politica
liberiste, destinate semmai a polarizzare
le differenze sociali ed economiche. Ma di
queste ultime, gli uomini di Blair avevano sposato più
aspetti, confondendo il discorso sulla «meritocrazia»
con le pratiche acquisitive, e predatorie,
dei mercati finanziari, nonché ritenendo che la
cittadinanza fosse sempre più spesso una
variabile dipendente dalla capacità di consumo,
eletta a vero e proprio indice dell’integrazione
e della coesione sociale.
Il popolo sovrano, in
piena sintonia con l’approccio populista, si
è quindi trasformato in popolo-elettore, destinato
a plebiscitare le intuizioni delle élite
e del leader. All’interno del partito di Blair, come
sta avvenendo oggi nel Pd di Matteo Renzi, la
modernizzazione si è pertanto orientata
essenzialmente verso tre esiti: la guerra
intergenerazionale dei «giovani»
contro le vecchie oligarchie, ottenendo un
effetto di alternanza dei primi, costituitisi come
ceto, alle seconde; una velocizzazione della
comunicazione politica, qualcosa al limite
della frenesia, che ha assorbito gli stessi
contenuti delle peraltro fragili proposte
di riforma, sostituendosi infine ad essi; la ricerca, ai
limiti dell’esasperazione, della disintermediazione,
ossia della rescissione dei rapporti con l’ampio
arcipelago di organismi del collateralismo,
a partire dai sindacati, identificando
nell’esecutivo l’autentico ed unico soggetto politico
in grado di decidere, indipendentemente da
qualsiasi concertazione, quest’ultima
giudicata solo come potere di ricatto o comunque
di improprio condizionamento.
Sul versante degli
equilibri sociali ne è derivata un’inedita
miscela tra enfatizzazione del «mercato» come
luogo delle libertà concrete e centralizzazione
del comando politico. Al discorso sull’equità e sulla
giustizia redistributiva si è così
alternato, e poi sovrapposto, quello sul binomio
tra efficacia ed efficienza, in una visione
tecnocratica che, a ben vedere, ha concorso
attivamente nel mettere in difficoltà lo
stesso ceto dirigente neolaburista,
ancorato sempre più spesso a parametri di
valutazione derivati dall’economia marginalista
e neoclassica, avulsi dalla concretezza dei
problemi e dalla specificità degli
interessi in gioco.
Scivolose
semplificazioni
La nozione di conflitto
sociale si è però dissolta, celebrata come un
residuo del tempo che fu, venendo quindi sostituita dalla
negoziazione e dal contratto tra utenti
e fornitori. La stessa idea di «impresa» ha
ricalcato questo modulo esclusivo di scambio,
tralasciando del tutto l’articolazione e la
stratificazione delle molteplici forme
della produzione, così come dell’identità di
produttori e imprenditori. Ciò che resta
dell’esperienza del New Labour è la scivolosa
fascinosità delle semplificazioni, al
limite della banalizzazione, della complessità
dei percorsi di mutamento sociale.
Rispetto al difetto di
prodotto finale la sua leadership, peraltro ben
presto in crisi di legittimazione davanti
all’elettorato, che non ha tardato a cogliere i limiti
della sua seduzione, ha schiacciato il tasto del processo
e dell’immaginario come vero nucleo dell’azione politica.
In altre parole, il movimento è tutto. Peccato che
dentro di esso vi siano solo dei fantasmi, che pur
continuano a girare per l’Europa, trovando chi
ne accredita un’inesistente tangibilità.
Il manifesto – 15
gennaio 2015
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