13 febbraio 2015

Céline, Bagatelle per un massacro



Massacriamo Céline!

di Edoardo Pisani
Au roman
Parigi, inverno 2015
Nell’estate 1937 Céline scrive Bagatelle per un massacro. La stesura è febbrile, collerica, di getto, qu’on en parle plus, che non se ne parli più, pensa Céline, scrive Céline, rabbiosamente, vomitando sulla pagina, deciso a fare i conti con i borghesi, con i critici, con i comunisti, con gli americani, con Hollywood e naturalmente con loro, con gli ebrei, i mostri, i guerrafondai, il male, primo bersaglio della sua penna e del suo odio, della sua haine. “C’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste” scriveva l’anno precedente in esergo a Mea culpa, un furioso pamphlet antisovietico, rompendo con gran parte degli intellettuali francesi, a partire da Aragon/Larengon, che fino a qualche tempo prima lo invitava pubblicamente a “studiare la filosofia del proletariato” e a “prendere posizione”, ossia a convertirsi al comunismo, come lui, come tutti. E chissà che con le Bagatelle Céline non abbia finalmente trovato il suo motivo di odio ideale, appunto, ossia gli ebrei, l’Ebreo, la “cricca ebraica”, gli youtres, colpevoli di ogni guerra e di ogni male, popolo di cospiratori e di massoni, di incantatori, di demoni, di mostri.
Il mostro ebraico è presente in ogni pagina di Bagatelle per un massacro. Sono ebraici il cinema e la critica, l’arte, i teatri, i giornali, i governi, le banche, gli editori, i comunisti, i capitalisti e via di seguito; Céline mastica, inghiotte e rigurgita gli odi e i pregiudizi del suo tempo, peraltro oggi di nuovo in voga, specie in Francia (e proprio per questo non possiamo ignorare il Céline antisemita), amplificandoli e distorcendoli e talvolta estetizzandoli, gridando che anche lui finirà “ebraizzato mio malgrado, sotto i loro nomi, sotto le loro etichette, da parte di mille altri piccoli ebrei internazionali” – perché non si sfugge alla congiura ebraica. Gli ebrei, afferma Céline, allineandosi inconsapevolmente alle paure della piccola borghesia che tanto detesta, sono “camuffati, travestiti, camaleontici”; su venti soldi spesi, “quindici vanno ai finanziatori ebrei”; “ogni tentativo antiebraico ravviva istantaneamente il prurito ebreo”; “dopo l’affaire Dreyfus, la Francia appartiene agli ebrei, beni, corpo e anima”; “la Francia è una colonia del potere internazionale ebraico”, eccetera eccetera. Molti lettori e critici tendono a disgiungere il Céline romanziere, autore di Viaggio al termine della notte e di Morte a credito, da questo Céline panflettista, descrivendo il primo come un grande scrittore e additando il secondo quale libellista esecrabile, delirante, razzista, accecato dall’odio e a tratti illeggibile, inutile, nocivo, un pazzoide da buttare. A tal proposito Giovanni Raboni, già traduttore della Recherche mondadoriana, parlava di “finti tonti”, di “sordi”, che pur di non farsi trascinare dalla petite musique di Céline, dai gorghi violenti e iperbolici e a tratti banali del suo furore antisemita, preferivano riempirsi le orecchie di cera, come Ulisse di fronte alle Sirene, per tema di finirne vittime o complici, conniventi dell’orrore. La prosa céliniana infatti può rivelare al lettore la parte più oscura di sé, strappando l’etica dall’estetica e spingendolo negli abissi del pregiudizio e dell’odio, piazzandolo di fronte alla Medusa fino ad accecarlo e ipnotizzarlo, travolgendolo, disorientandolo. Per Céline la rivoluzione russa, la prima guerra mondiale, la Grande Depressione, Hollywood, il Fronte Popolare e via dicendo non sono altro che il frutto di un complotto giudaicomassonico, volto a consegnare il mondo alla piovra e al prismatismo ebraici e a fregare i francesi, spedendoli nel macello di una nuova guerra. Alcuni passi del pamphlet in effetti sono talmente retorici o razzisti da dare ragione ai sordi e ai finti tonti descritti da Raboni; e tuttavia nelle Bagatelle ci sono anche dei brani esteticamente riusciti, addirittura necessari, con furiose tirate antiaccademiche e visioni e invenzioni uniche, linguistiche, raccolte da un argot in perenne mutazione, come il famigerato bla bla bla céliniano, comparso per la prima volta proprio in Bagatelle per un massacro, nel paragrafo contro il cinema, “piovra mondiale dei cervelli”, e ormai diventato di uso comune, nei fumetti, nei giornali, nella letteratura, ovunque – barocco è il Céline, barocco è il mondo, barocco è il bla bla bla!
D’altra parte, originariamente, per quanto ciò possa sembrare paradossale, le Bagatelle volevano essere un testo contro la guerra, un libello rabbioso ma pacifista, irresponsabile ma giusto, persino altruistico, nelle intenzioni di Céline, un avvertimento ai francesi, al popolo; il massacro del titolo non è lo sterminio della razza ebraica bensì la carneficina che attende la Francia, nel caso di un nuovo conflitto. Nel 1937 Céline è terrorizzato dall’avvento della seconda guerra mondiale, cerca rifugi ovunque, è convinto che sarà l’ultima, un’apocalisse, che stavolta si ammazzeranno tutti, e che se per evitarla bisogna allinearsi alla Germania e detestare, vomitare gli ebrei – beh, lui è pronto a farlo. “Non ama gli ebrei, Hitler” scrive nelle Bagatelle, “e neanch’io!” E più avanti: “L’Ebreo mente più di quanto respiri… Siete un youtre, per caso?… Ma no, via!… Che immaginate?… Sono catalano!… Vedete come sono bruno?… Sono basco!… Albanese!… Giocatore di bocce, venditore ambulante, pompiere, qualunque cosa, ma ebreo?… Mai!” E ancora: “La faccia tosta diabolica, le miriadi di porcherie cataclismiche ebree… Vampiri delle caverne! Servi da circo! Persecutori di martiri! Carnefici della miseria umana!” Eccetera eccetera.
“Come si diventa razzisti, antisemiti?” si chiede Frédéric Vitoux ne La vie de Céline, la biografia céliniana forse più esaustiva e lucida, uscita per Gallimard nel 1988. E tenta di rispondersi con un elenco, fra ragioni biografiche e culturali (il padre antisemita, il “capo” ebreo nell’ambulatorio di Clichy, supposti nemici ebraici, il governo di Léon Blum, etc), ragioni umane e mediche (la solitudine, le ossessioni, la labirintite, le allucinazioni auditive) e ragioni letterarie – la cattiva accoglienza di Morte a credito, il rifiuto dei suoi balletti da parte di diversi teatri, la lingua morta dei vari Gide, Valery, Aragon, il gusto per l’eccesso e l’oltraggio della sua prosa. Céline di fatto eccede e oltraggia sempre, vomita, stroppia, urla, si contorce, si raggomitola e poi scatta su di nuovo, ovunque, come un gatto impazzito, un Bébert incontrollabile, che si tratti di picchiare suo padre o di insultare gli ebrei, e se deve essere antisemita non può esserlo come tutti gli altri, en passant, educatamente, nei ranghi, deve esserlo nel modo più profondo e feroce possibile, allucinato, paranoico, anarchico, massacrante. In Lucette, un coro a più voci visionario e danzante scritto da Marc-Édouard Nabe e incentrato per l’appunto sulla moglie di Céline, Lucette Destouches, la Lili della Trilogia del Nord, incontrata anche da Alberto Arbasino – “Gli italiani sono sempre stati i migliori, con mio marito” afferma Lucette, “vispissima e cortesissima”, offrendo ad Arbasino la Pléiade della Trilogia –, uno dei personaggi, il regista Jean-François Stévenin, dice provocatoriamente che per Céline l’unico modo di diventare ebreo, ossia solo e perseguitato, dannato per il resto dei suoi giorni, era di diventare antisemita. E Lucette aggiunge: “Voleva essere libero di dire ciò che voleva, cioè il peggio e il suo contrario, dei pagliacci tristi che lo avvicinavano…” Quanto allo stesso Céline, compare in un filmato, dichiarando: “Sono stato spogliato, derubato, saccheggiato, insozzato e infamato per ogni dove da gente di poco conto, ecco ciò che penso, precisamente, senza complessi di inferiorità o colpevolezze. Credo che tutti gli altri siano colpevoli. Non io. Ecco come la penso.”
Céline sarebbe innocente, quindi, al massimo un po’ ingenuo, vittima degli eventi, calunniato e oltraggiato? Molti suoi lettori e seguaci, antitetici ai sordi e ai finti tonti di Raboni (e in fin dei conti sordi anch’essi), tendono a giustificare e persino a glorificare il suo antisemitismo, la sua solitudine e la sua tragedia, paraocchiati dalle sue opere e dalla sua vita, facendone una vittima dei benpensanti, un martire, talvolta un eroe. Bisogna però dire, pur amando le sue opere e riconoscendone la grandezza, che prima e durante la seconda guerra mondiale Céline era in parte isolato dal mondo letterario ma di certo non solo, non nel suo odio né tantomeno nel suo antisemitismo, anzi, di antisemiti e di razzisti ce n’erano a grappoli, La Rochelle, Brasillach, Rebatet, in modo più tiepido e “borghese” Morand, Jouhandeau, Benoit, Anouilh, Gaxotte, Giraudoux; i libelli antisemiti vendevano bene e le Bagatelle erano state il maggior successo di Céline dopo il Voyage. Sotto l’Occupazione nazista il suo editore Robert Dënoel, che sarà assassinato da ignoti alla Liberazione, continuava a ristampare e vendere i suoi pamphlet e pubblicava libri del tipo Come riconoscere l’Ebreo, di tal dottore Montandon, mentre lui, Céline, che di certo non sapeva dell’Olocausto, dava alle stampe Les beaux draps, I bei drappi, il suo ultimo libello, forse il meno riuscito e di sicuro il più colpevole, il più infame, perché scritto fra i tedeschi, senza l’alibi del pacifismo… Insomma, durante la guerra il “maledetto” Céline era in ottima compagnia, a suo modo allineato, tanto da ricevere visite incensanti di Rebatet, il quale però si stupiva del suo disfattismo, e poter scrivere, rilasciare interviste, comparire sui giornali, vendere, firmare manifesti e articoli.
“Centomila urla: Viva Pétain! non valgono un piccolo: Via gli youtres! Un po’ di coraggio, perdio!” Questo appello al courage, per esempio, il coraggio di liberare la Francia dagli ebrei, porta la sua firma, nel 1941, e in fondo basta che un solo poliziotto lo abbia letto o ricordato durante la Rafle du Vélodrome d’Hiver per rendere Céline colpevole non solo di fronte alla storia ma anche di fronte alla letteratura; e in questo caso non ci sono paraventi estetici o linguistici che tengano, specie se si pensa che scrittori ben più coraggiosi di lui, come Romain Gary, negli anni Trenta rifiutavano sprezzantemente di collaborare a giornali antisemiti, riducendosi alla fame e alla disperazione, che scrittori o futuri scrittori ben meno fortunati di lui, come Primo Levi o Irène Némirovsky, venivano deportati e a volte morivano ad Auschwitz, e che scrittori forse meno geniali ma anche più sinceri e onesti di Céline si uccidevano dopo la vittoria degli Alleati, come Pierre Drieu La Rochelle – “Voglio morire perché la Francia che ho amato è finita” scriveva a André Malraux, “perché il fascismo è finito, perché la Germania, che sta cedendo per la sua debolezza politica, è finita, e perché dunque l’Europa non si farà…”
Céline se ne fregava dell’Europa. Sua moglie dice che se ne fregava anche della Francia e dei francesi, ma non della loro lingua, del francese, che deflagra e si infuoca nelle sue opere, ravvivandosi in quel nulla feroce e insensato che collega le prime pagine del Voyage al finale apocalittico di Rigodon, un dilaniante grido contro la guerra, contro ogni guerra, fra le bombe e il caos e i pang! pff! ouàah!… E leggendolo e rileggendolo, fuggendo con Céline, Lili e il mitico Bébert – “è mica un felino qualunque, conosce le nostre condizioni…” – attraverso la Germania in rovina, fra branchi di bambini selvaggi e cadaveri e personaggi smarriti e indimenticabili, è difficile non urlare con lui, non sentirlo vicino, ingenuo, spaesato, umano. “Louis-Ferdinand Céline, un grande scrittore e anche un figlio di puttana” dice Roberto Bolaño ne L’ultima conversazione. “Era un essere abietto. È incredibile, i momenti peggiori della sua abiezione sono ammantati da un’aura di nobiltà, e questo si può attribuire solo al potere delle parole…”
Il potere delle parole, infatti. Ecco qual è la forza delle opere e persino delle opinioni di Céline – il potere delle parole, la petite musique dei suoi paragrafi, i suoi ritmi rimbalzanti e incalzanti, le sue visioni. Ecco la sua pericolosità e il suo splendore: Céline ottenebra, ipnotizza, affascina, contorce. È uno scrittore estremo, guidato dall’istinto e dall’umore, un visionario capace di scrivere pagine autentiche e vibranti ma anche idiozie del tipo: “Oh, se Proust non fosse stato ebreo nessuno ne parlerebbe! il culone! ossessionato da inculate. Non scrive in francese ma in un franco yiddish arzigogolato e assolutamente fuori da ogni tradizione francese”, peraltro nel 1949, in una lettera a Jean Paulhan, direttore dei cahiers della Pléiade (invocato e deriso pure in Colloqui con il professor Y), a cui chiederà più volte di essere pubblicato nel catalogo della Pléiade da vivo, “fra Bergson e Cervantes”, come ripeterà a Gaston Gallimard, prima di trovare il suo interlocutore ideale in Roger Nimier, presente anche nella Trilogia. Quanto alle accuse di antisemitismo, dinanzi al suo editore Céline continuerà a dirsi innocente, una vittima, un martire, dipingendosi come una specie di Gesù Cristo in croce o di Giovanna D’Arco al rogo: “È ora che i francesi si ficchino nelle loro teste di porci imbecilli venduti a ogni schifezza del mondo che sono uno dei pochi ad aver tutto perso, tutto sofferto, tutto rischiato affinché si risparmi, si preservi e si perpetui la loro schifosa e degenerata specie…”
Céline otterrà la sua Pléiade, naturalmente. Sarà ripubblicato e riconosciuto in vita come il grande scrittore che era, poco prima di morire, dopo l’esilio in Danimarca e la prigione e nonostante i pamphlet e i deliri, grazie al successo di Da un castello all’altro e Nord, i primi due volumi della Trilogia, unanimemente considerati dei capolavori. La sua rinascita letteraria susciterà degli imbarazzi tanto a destra quanto a sinistra, fra reazioni sdegnate, lettere di protesta e insulti all’editore; sarà il ritorno di un fantasma, di un genio, di un pazzo, di una carogna, di un grande scrittore. E ancora oggi, a oltre cinquant’anni dalla morte, il suo è uno spettro con cui gli scrittori e gli intellettuali francesi faticano a fare i conti – uno scrittore ingombrante, geniale, ammaliante e mostruoso, impossibile da ignorare. Qualche esempio: il Bruno de Le particelle elementari di Michel Houellebecq a un certo punto propone un articolo al direttore de L’infini, Philippe Sollers, in cui scrive, fra l’altro: “Noi ammiriamo e invidiamo i negri perché sul loro esempio vorremmo tornare animali, animali dotati di un grosso cazzo e di un minuscolo cervello da rettile, appendice del loro cazzo…” e Sollers ride e glielo rifiuta, spiegando che “non siamo più all’epoca di Céline”; lo stesso Sollers d’altronde ha scritto diversi saggi su Céline e ne è stato molto influenzato, anche nei romanzi (il narratore di Femmes si definisce un massacratore dell’umanità, rifacendosi ai pamphlet céliniani), fino a studiarne l’estetica, il personaggio, le ossessioni e la strategia postuma, ne La Guerre du Goût, affermando che Céline è “un virtuoso parodistico della pubblicità, ne rovescia e ne dirotta l’energia, sa, da buon stratega, che bisogna sempre sostituire la difesa con l’attacco…”; e il premio Nobel Claude Simon, a chi gli diceva che Céline era un salaud, un poco di buono, un antisemita, ribatteva che in arte la parola salaud, carogna, non significa nulla, e che Proust e Céline erano i più grandi scrittori francesi del Novecento; quanto a Marc-Édouard Nabe, il già citato autore di Lucette, sembra quasi ricalcare la biografia céliniana, aggredendo il mondo letterario parigino e assumendo posizioni estreme, talvolta indifendibili (Nabe, figlio del jazzista Michel Zanini, nasce peraltro come vignettista – negli anni Ottanta era uno dei protetti di Wolinski, assassinato nella redazione di Charlie Hebdo…); e lo scrittore e editore Richard Millet, a sua volta romanziere e panflettista “maledetto”, è ormai considerato da molti un razzista, proprio come Céline, non antisemita bensì islamofobo, cacciato dal Comitato di lettura di Gallimard per aver scritto Elogio letterario di Anders Breivik, pur avendo scoperto e editato Le Benevole di Jonathan Littell – e ancora: ne Le Benevole di Littell, come nel suo saggio su Leon Dégrelle, è impossibile non sentire la turbante presenza/assenza di Céline, di nuovo, nella Germania devastata, fra i generali tedeschi e i bambini mostruosi del finale, simili a quelli che circondano e pisciano su Céline in Rigodon
Per fortuna in Italia lo spettro di Céline è meno ingombrante; possiamo leggerlo con più distacco. Tralasciando qualche nostalgico farneticante – come il prefatore dell’edizione Aurora delle Bagatelle, che scrive: “Celine… uno di noi…”, pasticciando un coro da stadio ma sbagliando più volte l’ortografia del nome – molti scrittori italiani del Novecento, minori e maggiori, hanno saputo cogliere il ritmo e la petite musique céliniana senza perdersi in un maledettismo ideologico, da Gadda a Arbasino (in Parigi o cara l’enfant terrible Arbasino massacra tutta la scena letteraria parigina successiva a Céline, definendola fiacca e piatta), da Calasso a Mari, fino a un artista geniale e inclassificabile (è uno scrittore? è un attore? è una voce?) come Carmelo Bene, che a proposito delle Bagatelle dirà, un anno prima di esibirsi – di massacrarsi? – al Maurizio Costanzo Show: “Automassacro di Céline: quest’urgenza di prostituirsi pur di non farsi istituzionalizzare. Sta accadendo anche a me…”
Ma uno degli scrittori e intellettuali italiani che ha combattuto con maggior coraggio le pagine più atroci di Céline, pur senza sminuirne l’impatto estetico, è Claudio Magris. Céline e Magris: difficile immaginare due uomini più distanti fra loro, il primo visionario e distruttivo e il secondo razionalista, costruttivo, perfino autenticamente etico, responsabile, autore di un libro mondo come il Danubio, che affronta lo sfascio mitteleuropeo, e quindi europeo, ante litteram, cercando di ricostituire il tutto dal suo interno, metodicamente, risalendo dalla sorgente allo sbocco del fiume e affrontando la storia e la geografia danubiane, le sue tragedie, le sue opere, le sue vite, i suoi fantasmi. Céline compare nel finale del primo capitolo, nel castello di Siegmaringen, uno dei luoghi disastrati della Trilogia del Nord, punto di sosta del governo di Vichy in fuga e dunque anche di Céline, di Lili e di Bébert – “Tutto sto castello Siegmaringen” scrive Céline in Da un castello all’altro, “fantastico bislacco inganna-l’occhio ha tenuto botta tredici… quattordici secoli!…” Mentre Céline fugge attraverso la Germania e la Storia, ricorda Magris, Radio Londra lo ha già definito “un nemico dell’uomo”, un traditore, un complice dei nazisti, un antisemita. Céline di fatto è braccato, disperato, in qualche modo sconfitto, impaurito. Cura i malati lungo il fiume, distribuisce morfina ai sofferenti e cianuro ai moribondi, osserva il castello e le acque sgorganti e pensa agli orrori e al sangue che le hanno attraversate, che le riattraverseranno – “Danubio!… tuffo!… la Dinastia, madre dell’Europa, pensate un poco a ogni modo che è questione di più di mille assassinii al giorno! e per undici secoli!…” Nel Danubio Claudio Magris risale e studia il fiume e tenta di ricostruire il mondo e la sua mappa, l’uomo, l’umanità; Céline invece ne percorre le sponde urlante, ululante, pessimista, devastante. Per Magris Bagatelle per un massacro è una delle poche opere davvero colpevoli e punibili del Novecento, un libro pieno di pregiudizi e di orrori ma anche, afferma, “una geniale e stravolta istantanea del secolo ventesimo”, come ogni libro céliniano. “Céline si è lasciato abbagliare dalla rivelazione del male” scrive ancora Magris, stavolta riferendosi alla Trilogia del Nord. “Ha ascoltato la voce dell’abiezione, diceva Bernanos, come un confessore in un quartiere miserabile; tuttavia non è stato capace, come lo sono talora i vecchi confessori, di appisolarsi fra un penitente e l’altro, stufo della ripetizione di prevedibili peccati, non ha visto la stereotipa banalità del male…”
Il male e l’odio vissuti e sofferti da Céline possono esserci preziosi, oggi, non solo letterariamente. I passi più orridi delle Bagatelle mettono in scena, denudandoli, la banalità e il fascino del male, fotografando l’orrore nel suo formarsi, l’abbaglio osceno e insensato di ogni pregiudizio e odio. Forse per questo Céline, che per inciso ha pagato un prezzo molto alto per i suoi libri (basti pensare ai supplizi delle Féerie), continua a turbare i francesi e la Francia, sbattendole in faccia, ossia sulla pagina, ciò che è stata l’Europa in un certo momento storico, negli anni Trenta, e quindi le nostre colpevolezze, i nostri errori e terrori e ciò che potremmo perfino tornare a essere, soprattutto adesso, a dispetto di qualsiasi marcia pacifista o valore repubblicano – perché non si è mai al riparo dal proprio odio. Le opere di Céline, che folle non era, possono dunque essere lette come una dichiarazione di follia del primo Novecento, un atto di accusa nei confronti della Storia, dell’umanità, il fiume universale e tumultuoso di ogni orrore umano, dalla Senna del Voyage fino agli orrori del Danubio, la fuga atroce e disperata della Trilogia del Nord. Anche per questo, oltre che per evidenti motivi letterari, bisogna leggere e rileggere Céline, per sprofondare nell’orrore e capire, finalmente, in modo da non ripeterlo. Travolgendoci e terrificandoci, Céline ci rende consapevoli, responsabili. Fra una quindicina d’anni scadranno i diritti d’autore delle sue opere, liberando nuove e necessarie traduzioni e la pubblicazione dei pamphlet antisemiti, da Bagatelle per un massacro a Les Beaux draps, finora proibiti dalla moglie, secondo la volontà dello stesso Céline. Quindici anni: cosa sarà diventata l’Europa, allora? E il mondo? Ci saranno altre guerre, altre devastazioni, altri orrori? L’Europa imparerà dai propri sbagli o vi finirà nuovamente impigliata, preda dell’odio e dei tumulti, complice la crisi economica, ormai sempre più accostabile, per profondità e durata, alla Grande Depressione? Difficile saperlo. Negli ultimi anni alcuni comici assurti a politici o a viscerali capipopolo, tanto in Francia quanto in Italia, non fanno sperare in meglio; se non sono apertamente razzisti è soltanto perché non possono permettersi di esserlo, non ancora – ma il linguaggio è quello, lo stesso delle Bagatelle, seppure banalizzato, dal “vecchia puttana” lanciato a Rita Levi-Montalcini a complottismi e accuse di varia specie, contro i banchieri, contro i politici, contro gli scienziati, contro gli intellettuali, contro i farmacisti, contro i clandestini, contro gli stranieri, eccetera. In Francia imperano il malcontento e la fobia dell’Altro, che sia arabo o ebreo, africano, cinese, polacco, rumeno, e così in Italia, mentre l’Ucraina e la Grecia sprofondano nel caos e partiti quali Alba Dorata o il Front National salgono nei sondaggi, portando alla ribalta nuovi e dimenticabili antisemiti, come Alain Soral, “opinionista” della peggior risma, capace di ripetere la quenelle, una sorta di saluto romano rovesciato, davanti al Memoriale della Shoah di Berlino…
La Storia dilaga, la Storia strazia, lacerando paesi e culture e forse non insegnando niente, se non ai morti o ai figli delle vittime, ai muti, ai silenziosi, ai disperati. Nei prossimi anni potrebbe veramente succedere di tutto, in Europa e altrove, fra bambini rapiti e uccisi in Medio Oriente e massacri nelle redazioni e nei villaggi africani, bombe, fucilate, odi, tragedie, caos. E intanto, nelle opere, lo spettro massacrato e massacrante di Céline urla e si dibatte e si dispera ancora, si dispererà per sempre, e noi dobbiamo leggerlo e rileggerlo, senza remore o paure, magari unendo la sua potenza visionaria e apocalittica alla pietà e al raziocinio di Claudio Magris, rivivendo gli orrori céliniani ma vaccinandoci dal suo odio, prevenendolo – perché dietro la cartapesta dei pregiudizi non c’è niente, niente oltre alle grida e al terrore, ai fiumi danteschi che trascinano via tutto, il sangue, le vite, le parole, i morti, il linguaggio, Céline stesso, la sua tragedia, l’ultimo fiume, il nostro tempo, e che non se ne parli più.

testo ripreso da   venerdì, 13 febbraio 2015

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