16 febbraio 2015

TIMBUKTU, un film da vedere


Laura Putti

Con "Timbuktu" denuncio la violenza: mostrarla non serve»

 La Timbuktu di Abderrahmane Sissako è una festa di luce e un angolo pittoresco in una città di sabbia martoriata dagli islamisti. Nel suo “Timbuktu” candidato all’Oscar per il film straniero (e vincitore lunedì sera di due Lumières, premi della stampa estera al cinema francese: miglior film e miglior regia), uscita italiana il 12 febbraio, non c’è una carta per terra, niente bambini per i vicoli, nessuno degli affanni della vita quotidiana in una piccola città africana. Il tempo si è come fermato in un film poetico che racconta un assedio e la resistenza pacifica di una comunità.

Il mauritano Abderrahmane Sissako (che con il senegalese Ousmane Sembene, i maliani Souleymane Cissé e Oumar Sissoko, e Idrissa Ouedraogo del Burkina Faso, è uno dei più importanti registi e produttori africani) ambienta la sua storia in quei nove mesi - da aprile 2012 a gennaio 2013 - durante i quali la meravigliosa Timbuktu, “la perla del deserto”, cadde prima nelle mani di gruppi di ribelli tuareg e poi in quelle dell’Aqmi e di Ansar Dine, i “difensori della religione” guerriglieri e salafisti diretti dal ribelle tuareg Iyad Ag Ghali.

Prima di essere cacciati dalle truppe francesi e maliane nel gennaio 2013, gli islamisti distrussero monumenti meravigliosi (Timbuktu è patrimonio mondiale dell’umanità Unesco), bruciarono una delle più antiche e preziose biblioteche islamiche, imposero divieti, stuprarono, installarono il terrore.

Nel film la città è in mano agli jihadisti i quali impongono la sharia: il velo alle donne e anche guanti e calzini, le forzano a matrimoni non desiderati, vietano la musica e il gioco del pallone, lapidano una coppia adultera; ma si preoccupano anche delle medicine che deve prendere un ostaggio bianco, corteggiano timidamente, parlano di calcio e, prima di giustiziare un tuareg assassino involontario (la cui tenda sembra la pubblicità di un viaggio nel deserto), si inteneriscono per la sua bimba che rimarrà orfana.

Il film di Sissako ha emozionato, meravigliato, ma ha anche suscitato critiche. Si può raccontare una tragedia simile in modo poetico? «Faccio film, non articoli di giornali», dice per telefono dalla sua Mauritania, dove ha appena avuto un figlio dalla bellissima moglie senegalese Kessen Tall, cosceneggiatrice del film (prodotto da Sylvie Pialat). «Il mio è solo un film e vuole essere il primo piano di un fatto. E non ho mai pensato che un film fosse un atto perfetto».

Dopo cinque anni (’83-’89) trascorsi a Mosca alla Vgik, la più prestigiosa scuola russa di cinema - dalla quale sono usciti anche Tarkovskij, Sokurov e Iosseliani - Sissako sembra poco interessato al realismo. «Di realismo non c’era bisogno», dice. «I fatti erano noti. Credo che anche le persone più politicizzate, più informate sulla cronaca abbiano la capacità di analizzare e di capire lo stile del mio film. Si può anche avere un’opinione forte, inamovibile, su quel che è accaduto a Timbuktu, ma io ho scelto di raccontarlo attraverso l’emozione, l’umanità, la speranza».

Durante le riprese, con la realtà ha dovuto fare i conti. Il regista ha dapprima cercato di girare a Timbuktu, ma ha poi dovuto rassegnarsi a lavorare in Mauritania, a Oualata, non lontana dal confine con il Mali. Le riprese sono state protette dall’esercito mauritano. Sissako ha raccontato di non essersi mai sentito tranquillo, di aver temuto attacchi suicidi. Era stato più volte a Timbuktu, aveva parlato con la gente.
    Abderrahmane Sissako

L’esercito aveva cacciato i jihadisti armati, non quelli in borghese; nella zona tutti oramai conoscevano l’argomento del film. Ma ha tenuto il punto, mostrando a suo modo lo scontro tra un Islam di pace - la figura dell’imam di Timbuktu che non ha paura dei salafisti e che, anzi, cerca un dialogo con loro è la più bella del film - e un Islam di guerra. Abderrahmane Sissako è stato accusato di essere stato indulgente con gli jihadisti.

«Sono esseri umani, quindi hanno un’umanità. Questo non giustifica il loro folle oscurantismo. Nel film lapidano, condannano a morte, obbligano le donne a sposarsi. Sono evidentemente persone che sbagliano. Non ho voluto mostrare la violenza perché spesso il cinema la banalizza. Ma il fatto di avere avuto sugli jiadhisti uno sguardo umano non mi ha impedito di denunciarne la barbarie». 

La Repubblica – 4 febbraio 2015

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