Laura Putti
Con "Timbuktu"
denuncio la violenza: mostrarla non serve»
La Timbuktu di
Abderrahmane Sissako è una festa di luce e un angolo pittoresco in
una città di sabbia martoriata dagli islamisti. Nel suo “Timbuktu”
candidato all’Oscar per il film straniero (e vincitore lunedì sera
di due Lumières, premi della stampa estera al cinema francese:
miglior film e miglior regia), uscita italiana il 12 febbraio, non
c’è una carta per terra, niente bambini per i vicoli, nessuno
degli affanni della vita quotidiana in una piccola città africana.
Il tempo si è come fermato in un film poetico che racconta un
assedio e la resistenza pacifica di una comunità.
Il mauritano Abderrahmane
Sissako (che con il senegalese Ousmane Sembene, i maliani Souleymane
Cissé e Oumar Sissoko, e Idrissa Ouedraogo del Burkina Faso, è uno
dei più importanti registi e produttori africani) ambienta la sua
storia in quei nove mesi - da aprile 2012 a gennaio 2013 - durante i
quali la meravigliosa Timbuktu, “la perla del deserto”, cadde
prima nelle mani di gruppi di ribelli tuareg e poi in quelle
dell’Aqmi e di Ansar Dine, i “difensori della religione”
guerriglieri e salafisti diretti dal ribelle tuareg Iyad Ag Ghali.
Prima di essere cacciati
dalle truppe francesi e maliane nel gennaio 2013, gli islamisti
distrussero monumenti meravigliosi (Timbuktu è patrimonio mondiale
dell’umanità Unesco), bruciarono una delle più antiche e preziose
biblioteche islamiche, imposero divieti, stuprarono, installarono il
terrore.
Nel film la città è in
mano agli jihadisti i quali impongono la sharia: il velo alle donne e
anche guanti e calzini, le forzano a matrimoni non desiderati,
vietano la musica e il gioco del pallone, lapidano una coppia
adultera; ma si preoccupano anche delle medicine che deve prendere un
ostaggio bianco, corteggiano timidamente, parlano di calcio e, prima
di giustiziare un tuareg assassino involontario (la cui tenda sembra
la pubblicità di un viaggio nel deserto), si inteneriscono per la
sua bimba che rimarrà orfana.
Il film di Sissako ha
emozionato, meravigliato, ma ha anche suscitato critiche. Si può
raccontare una tragedia simile in modo poetico? «Faccio film, non
articoli di giornali», dice per telefono dalla sua Mauritania, dove
ha appena avuto un figlio dalla bellissima moglie senegalese Kessen
Tall, cosceneggiatrice del film (prodotto da Sylvie Pialat). «Il mio
è solo un film e vuole essere il primo piano di un fatto. E non ho
mai pensato che un film fosse un atto perfetto».
Dopo cinque anni
(’83-’89) trascorsi a Mosca alla Vgik, la più prestigiosa scuola
russa di cinema - dalla quale sono usciti anche Tarkovskij, Sokurov e
Iosseliani - Sissako sembra poco interessato al realismo. «Di
realismo non c’era bisogno», dice. «I fatti erano noti. Credo che
anche le persone più politicizzate, più informate sulla cronaca
abbiano la capacità di analizzare e di capire lo stile del mio film.
Si può anche avere un’opinione forte, inamovibile, su quel che è
accaduto a Timbuktu, ma io ho scelto di raccontarlo attraverso
l’emozione, l’umanità, la speranza».
Durante le riprese, con
la realtà ha dovuto fare i conti. Il regista ha dapprima cercato di
girare a Timbuktu, ma ha poi dovuto rassegnarsi a lavorare in
Mauritania, a Oualata, non lontana dal confine con il Mali. Le
riprese sono state protette dall’esercito mauritano. Sissako ha
raccontato di non essersi mai sentito tranquillo, di aver temuto
attacchi suicidi. Era stato più volte a Timbuktu, aveva parlato con
la gente.
Abderrahmane Sissako
L’esercito aveva
cacciato i jihadisti armati, non quelli in borghese; nella zona tutti
oramai conoscevano l’argomento del film. Ma ha tenuto il punto,
mostrando a suo modo lo scontro tra un Islam di pace - la figura
dell’imam di Timbuktu che non ha paura dei salafisti e che, anzi,
cerca un dialogo con loro è la più bella del film - e un Islam di
guerra. Abderrahmane Sissako è stato accusato di essere stato
indulgente con gli jihadisti.
«Sono esseri umani,
quindi hanno un’umanità. Questo non giustifica il loro folle
oscurantismo. Nel film lapidano, condannano a morte, obbligano le
donne a sposarsi. Sono evidentemente persone che sbagliano. Non ho
voluto mostrare la violenza perché spesso il cinema la banalizza. Ma
il fatto di avere avuto sugli jiadhisti uno sguardo umano non mi ha
impedito di denunciarne la barbarie».
La Repubblica – 4
febbraio 2015
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