20 febbraio 2015

I MATTI DEL DUCE





L'uso del manicomio come punizione e marchio d'infamia per i dissidenti non fu un'invenzione sovietica. Già dagli anni '20 il fascismo usò l'internamento come strumento di repressione.

Luca Pakarov
I condannati all'internamento

Una ricerca durata cin­que anni fra ospe­dali psi­chia­trici e Pre­fet­ture per capire come, nel Ven­ten­nio, la medi­ca­liz­za­zione del dis­senso fosse con­si­de­rata innan­zi­tutto una tutela sociale, come l’eterodossia diventò sino­nimo di malat­tia. Ne I matti del Duce. Mani­comi e repres­sione poli­tica nell’Italia fasci­sta (Don­zelli, pp. 238, euro 33) il pre­giu­di­zio entra nella psi­chia­tria e vice­versa giac­ché, ogni qual volta si devono com­bat­tere le idee con­tra­rie al pen­siero unico, la repres­sione si instaura age­vol­mente nelle pie­ghe dell’interpretazione scien­ti­fica.

Un punto di vista ine­splo­rato sul tota­li­ta­ri­smo fasci­sta, caduto nell’oblio con l’armistizio, anche, e com­pren­si­bil­mente, per volontà delle stesse vit­time che con­ti­nua­rono a per­ce­pire l’internamento come un mar­chio di infa­mia, tal­volta da nascon­dere agli stessi figli. A trac­ciarle mediante referti medici e giu­di­ziari, let­tere e testi­mo­nianze dei fami­gliari, con un’attenta e frui­bile nar­ra­zione, è stato lo sto­rico Mat­teo Petracci che, seguendo un’ingente mole docu­men­ta­ria, è riu­scito a rico­struire alcune delle vicende dei 475 anti­fa­sci­sti sche­dati nel Casel­la­rio Poli­tico Cen­trale e finiti in mani­co­mio giu­di­zia­rio. Di que­sti, 122 per­sero la vita.

La psi­chia­tria restrin­geva sem­pre di più il peri­me­tro della «nor­ma­lità» ma, se in Ger­ma­nia l’eugenetica fu uno degli stru­menti pre­di­letti con cui fomen­tare il raz­zi­smo, con gli «anor­mali» con­si­de­rati un freno allo svi­luppo bio­lo­gico della nazione, in Ita­lia si fermò alla repres­sione, giu­sti­fi­cata come cura delle dege­ne­ra­zioni sociali.

Ozio, alco­li­smo e vaga­bon­dag­gio erano valu­tati vizi ostili per­ché, scrive l’autore: «i poveri, gli esclusi e i dise­re­dati con­ti­nua­vano ad essere con­si­de­rati come mag­gior­mente peri­co­losi e refrat­tari ad accet­tare le regole di con­dotta sociale». Che, nella logica mec­ca­ni­ci­stica del pen­siero domi­nante, si tra­du­ceva in una pos­si­bile ade­sione ai valori socia­li­sti, gli emblemi cioè della deca­denza civile e morale. Lom­broso docet.

Uno dei ful­cri del discorso di Petracci è come l’ufficializzazione della paz­zia da parte dell’autorità (in molte dia­gnosi medi­che dei dis­si­denti si leg­geva «alco­li­smo», eppure non se ne tro­vava trac­cia nei fasci­coli della Pre­fet­tura), com­pro­met­tesse la cre­di­bi­lità del mili­tante, tra­mu­tando la con­vin­zione poli­tica in spro­lo­quio e scan­dalo, e per­tanto in morte civile. Spo­stare discordi pen­sieri poli­tici alla stato di devianza sociale da mani­co­mio ser­viva come stru­mento, veloce ed effi­cace, per con­te­nere gli ele­menti di disturbo del fascismo.

Si poteva essere rico­ve­rati con una sola testi­mo­nianza e la denun­cia del Tri­bu­nale spe­ciale, o per delle let­tere con cui, coe­ren­te­mente, si denun­cia­vano soprusi della poli­zia e con­trolli asfis­sianti, che però diven­ta­vano indi­scu­ti­bili mani­fe­sta­zioni di para­noia, come capitò all’ex sin­daco di Moli­nella, Giu­seppe Mas­sa­renti, inter­nato al Santa Maria della Pietà di Roma.

Ma la para­noia era insita nel potere: «L’apparato di con­trollo – fatto di agenti, infor­ma­tori, spie e con­fi­denti – con­tri­buiva atti­va­mente alla costru­zione dell’immagine del maniaco anti­fa­sci­sta, attra­verso la rac­colta e la dif­fu­sione delle noti­zie sui segni dello squi­li­brio men­tale dei sog­getti e sulle loro inten­zioni peri­co­lose», così nell’Archivio cen­trale di Stato si tro­vano fasci­coli di «malati» con anno­ta­zioni del tipo «infermo di mente per mania poli­tica», ma allo stesso tempo, tanti che ricor­sero all’internamento psi­chia­trico per sfug­gire al car­cere e alla poli­zia.

Pra­tica avviata già verso la fine della Prima Guerra Mon­diale da chi, pur sano ma dopo anni di trin­cea, pre­fe­riva dichia­rarsi pazzo, tanto che la psi­chia­tria uffi­ciale cercò un col­le­ga­mento fra la disfatta di Capo­retto e l’antropologia cri­mi­nale. Solo dei delin­quenti pote­vano gene­rare una sconfitta.

Nel libro si rileva che, sep­pur negli ospe­dali psi­chia­trici tanti erano gli iscritti Asso­ciati al Par­tito Nazio­nale Fasci­sta con un ruolo di sor­ve­glianza, infer­mie­ri­stico e dia­gno­stico, ci furono anche diret­tori di mani­comi auto­nomi che si ribel­la­rono alle diret­tive ema­nate dagli organi ammi­ni­stra­tivi, con quali pres­sioni e risul­tati sulla car­riera si può facil­mente immaginare.

È bene ricor­dare che solo con la riforma Basa­glia del 1978 finì l’epoca dei mani­comi, ma se ana­liz­ziamo le tra­gi­che sto­rie rac­con­tate da Petracci e ci rivol­giamo all’attualità, dove la dele­git­ti­ma­zione funge da giu­sti­fi­cante alle vio­la­zioni dello Stato, ci ritro­viamo a com­pren­dere alcune delle dina­mi­che dei casi Ste­fano Cuc­chi e Fran­ce­sco Mastro­gio­vanni. Dro­gato o anar­chico, peri­coli per la società, come una volta alco­liz­zato o comunista.


Il Manifesto – 29 gennaio 2015


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