08 febbraio 2015

L. CANFORA: Nulla di nuovo sotto il sole





Il III secolo d.C. fu definito l’«età dell’angoscia», ora ci frastorna lo scontro di civiltà Ma è sempre  lo scontro millennaristico tra privilegiati e diseredati che  attraverso il tempo storico e talvolta irrompe alla superficie con furore mistico e irrazionale. Una interpretazione di "lungo periodo" con alcune affascinanti proposte di lettura.

Luciano Canfora

L’eterno conflitto : dai romani al califfato


All’inizio del XXI secolo è nato, contro ogni aspettativa, un «Califfato» che profetizza la fine dell’Occidente, così come nell’ultimo ventennio del secolo XX il khomeinismo profetò la fine dell’Urss. Nel momento più acuto della lunga crisi dell’impero romano (III secolo d.C.) sorse una unità statale possente, che staccò pezzi significativi dalla compagine dell’impero: Siria, Egitto, Asia Minore. Fu il regno di Zenobia di Palmira, che costrinse l’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) a una dura guerra per riconquistare l’Oriente e in particolare l’Egitto, al prezzo — tra l’altro — della distruzione di un intero quartiere di Alessandria e della sua mitica biblioteca.

Difficile indicare un più drammatico simbolo di «decadenza». Quasi un secolo dopo, uno storico siriaco che scriveva in latino ed era rimasto pagano, Ammiano Marcellino, rievocava la terribile e distruttiva vicenda di Alessandria nel XXII libro delle sue Storie . Oggi alcuni pensano che il mondo stia vivendo un nuovo «terzo secolo»: sta davvero finendo una civiltà?

Ogni epoca ha udito paventare o profetare la decadenza. Questo potrebbe portare a concludere che la decadenza non esiste e che, semmai, è la proiezione dell’allarme di alcuni o di molti, o anche dell’«angoscia» di una parte, più sensibile e più pensante.

L’allarme cresce al cospetto di grandi rivolgimenti. Nell’età delle guerre civili romane, Lucrezio ravvisa un indizio di decadenza persino nella realtà fisica: un tempo la terra produceva corpi più grandi, giganteschi. Molti anni fa, Santo Mazzarino, in un piccolo libro geniale, La fine del mondo antico (1959), apriva l’ultimo capitolo con i versi di Verlaine: «Io sono l’impero alla fine della decadenza, che guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti» (1883).

Qui torna il motivo della grandezza dei corpi. I popoli nuovi sono anche fisicamente «più grandi», e l’impero in decadenza li osserva indolente. Aggiungiamo che ciò che appare «decadenza» ad alcuni protagonisti o testimoni non è affatto tale per altri. Quelle che, nella prospettiva dell’assetto imperiale romano, e nella percezione dei suoi ceti dirigenti, nonché di una parte della storiografia moderna, erano le «invasioni barbariche», nella storiografia germanica sono le «migrazioni di popoli»: fenomeno dunque positivo che sta alla base della compenetrazione latino-germanica da cui nasce il mondo moderno.

Crisi acute — all’apparenza irreversibili — scandirono la storia della compagine romana ben prima del «fatale» III secolo. Orazio, testimone diretto del riaprirsi delle guerre civili dopo la morte di Cesare, prevede, nell’ Epodo XVI , che i barbari verranno ad abbeverare i loro cavalli in Campidoglio. Analoga fu la percezione, tra i contemporanei, dell’anno 69 d.C., tra la morte di Nerone e l’avvento di Vespasiano: riesplose allora la guerra civile e parve profilarsi il fallimento non solo della dinastia giulio-claudia, ma della costruzione augustea come tale. E così dalla crisi esplosa alla morte di Commodo (180-192), emerse, nel sangue, la dinastia severiana; e, all’estinguersi di questa, un «semibarbaro», Massimino il Trace (235-238), salì sul trono dei Cesari.

Non sarà inutile ricordare che proprio la vicenda del breve e devastante governo di Massimino, drammatizzata da Erodiano nella Storia dopo Marco , fu — insieme all’esperienza della rivoluzione russa — tra gli spunti che misero in moto la fantasia storiografica di uno dei grandi del Novecento: Mikhail Rostovtsev. Per lui — ormai esule — nell’opera sua più celebre, la Storia economica e sociale dell’impero romano (1926), la rivoluzione russa del 1917 aveva rappresentato l’analogo della sommersione della elevata civilitas ellenistico-romana da parte della semibarbara massa contadina.

La scansione per secoli, si sa, è sempre approssimativa. Nondimeno è lecito dire che la percezione del tramonto di un mondo e l’aspettativa di una nuova, salvifica, linfa spirituale furono sentimenti diffusi nel tempo che va dal sempre più stanco governo di Marco Aurelio (161-180 d.C.) alla rifondazione dello Stato ad opera di Diocleziano (284-305 d.C.). Perciò quel secolo fu definito da un grande storico irlandese, Eric Dodds (1893-1979), «età dell’angoscia», in un famoso ciclo di conferenze poi divenute libro (1964).

Ernest Renan si era spinto oltre e aveva parlato di fine del mondo antico già con Marco Aurelio. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia di Dodds cercava di cogliere i patemi e le aspettative che accomunavano le varie correnti spirituali dell’epoca al di là della distinzione, non di rado arbitraria, tra «pagani» e «cristiani».

L’iniziativa di Eugenio La Rocca di dar vita, a Roma, ai Musei Capitolini, a una grande mostra, ricca di oltre 200 pezzi, dedicata appunto al «secolo dell’angoscia», non soltanto offre materiali di primaria importanza, illustrativi di quell’epoca, ma, com’è giusto, rimette in discussione la definizione stessa, così fortunata, di Dodds. La Rocca mette alla prova la tenuta storiografica di tale concetto nell’ambito storico-artistico. Dalla sua analisi risulta chiaro quanto sia deludente il meccanicismo di chi ha posto in relazione la «crisi del III secolo» con le nuove forme di espressione artistica, in particolare la ritrattistica e il gigantismo dei sarcofagi.

Una impostazione così sanamente storicistica si coglieva già nel libro «giovanile» di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Storicità dell’arte classica (1943) di cui parlò Giorgio Pasquali, con schietto entusiasmo, nel «Corriere della Sera» del 24 giugno di quell’anno: «Per Bandinelli — scrisse Pasquali — l’ellenismo figurativo dura a Roma da Silla a Traiano; sotto Traiano comincia un’arte nuova, romana, che giunge sino a Teodosio». È dunque già nel II secolo, e sempre più dalla metà in avanti, che si produce una trasformazione profonda, che investe i più diversi ambiti: artistico, religioso, filosofico, politico. E prosegue ben oltre Diocleziano.

Lo stesso Dodds, in un precedente lavoro divenuto ben presto celeberrimo, I Greci e l’irrazionale (1950), aveva infranto l’incantesimo «apollineo»: aveva fatto emergere dalle nostre fonti, spesso, in precedenza, lette selettivamente o non capite, il magma cultural-religioso che, nel mondo greco, costituiva una sorta di realtà alternativa rispetto a quella razionale e luminosa su cui fa perno la lettura classicistica. Quel magma ebbe sue forme, si nutrì di culti misterici e di culti stranieri (Tracia e Frigia ne furono le due aree matrici) i quali guadagnarono terreno nei ceti cosiddetti «bassi», ma attrassero anche quelli «alti».

Di questa genealogia intellettuale, un ramo fu Il tramonto dell’Occidente di Spengler (1918), ma è giusto ricordare che l’intuizione di partenza era racchiusa nel memorabile ancorché indigesto saggio di Nietzsche sull’ Origine della tragedia , là dove l’allora filologo fissava, con un colpo d’ala, le due categorie sempre confliggenti del «dionisiaco» e dell’«apollineo». In momenti di grave crisi, quel magma fuoriesce come lava.

La prospettiva più aderente alla realtà è dunque quella che considera forze e pulsioni siffatte come stabilmente e «pericolosamente» latenti. L’«angoscia» non è appannaggio di un determinato secolo. Il nostro presente viene frastornato dalla dottrina del «conflitto di civiltà», e la cronaca apparentemente ne ribadisce la fondatezza. Ma, a ben vedere, si tratta dell’eterno conflitto tra l’alto e il basso, tra privilegiati e diseredati, che attraversa epoche e continenti; e che, quando i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti, si esprime come furore mistico-religioso-palingenetico. 


Il Corriere della sera – 25 gennaio 2015

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