Matisse, Odalisca
Nel 1912 Henri Matisse
partì alla scoperta della luce del Marocco. L'incontro con l'Africa
cambiò il suo modo di dipingere.
Tahar Ben Jelloun
Illuminato sulla via
di Tangeri
Il primo incontro di Henri Matisse con l’Oriente (con la luce del Marocco, chiamato in arabo “l’estremo Occidente”!) per poco non lo scoraggiò fino ad indurlo a ripartire. Quando era imbarcato sul “Radjani”, a Marsiglia, il 27 gennaio 1912, aveva in testa una sola idea: scoprire la luce del Marocco, come già prima di lui Eugène Delacroix.
Una traversata gradevole, senza incidenti; ma nei pressi dello Stretto di Gibilterra lo fu assai meno. Mare agitato, cielo ingombro, luce spenta. Deluso, pensò tuttavia che quella pioggia sarebbe stata passeggera. Da Algecira a Tangeri la distanza è di soli 14 chilometri. È normale che il maltempo andaluso si estenda fino alla costa di Tangeri, al fondo d’Europa e alle porte dell’Africa.
È l’estremità di un
qualche luogo. Dalla terrazza dell’hotel Villa de France, dove
Matisse aveva preso alloggio, quando l’aria è limpida si distingue
la costa spagnola con le sue luci, i suoi punti salienti, la sua
arroganza.
La pioggia si attardava in quella città dello Stretto. Quindici giorni di grigiore e di rovesci. Quindici giorni di attesa, e poi di noia. Matisse scrive a Gertrude Stein: «Vedremo mai il sole in Marocco? Come andremo a finire? Basterà un niente per farci tornare a Parigi a cercare il sole. Impossibile uscire dalla nostra stanza [...]. Qui fa chiaro come in una cantina. Ah! Tangeri, Tangeri! Vorrei proprio avere il coraggio di darmela a gambe».
Paysage marocain (Acanthus)
Il cielo aveva
mangiato le sue luci. Pioveva in maniera discontinua e un grigiore
insolito regnava ovunque. Il vento dell’est faceva tremare le
querce alte nel cielo. Sollevava una polvere d’oro. Platani dalle
radici martoriate. Il vento e gli uomini, giovani e giovanissimi, a
cavalcioni su un muretto, in attesa di qualcuno o di qualcosa. Il
mare, laggiù. Bianco, verde, azzurro: una capigliatura scomposta dai
capricci della luna e della tempesta. Mare agitato, mura crepate.
I rumori della città si
ritiravano lasciando al vento la sua musica senz’armonia. Qualcosa
di moderno. Schiaffi, ceffoni, lenzuola gonfiate e strappate. Nei
caffè più esposti, tavolini e sedie inchiodati a terra come su una
nave. Tangeri beccheggia. Mani tenute in testa. Poi, dopo tre
settimane il cielo ritrova la sua luce e si fa tutto azzurro. È quel
blu magnifico, strano e talora inquietante, che Matisse farà suo.
A partire da quella schiarita tutto cambiò. Dalla camera 35 il pittore vedeva il suk popolare, il mare e la costa spagnola. Tutte quelle sfumature di azzurro lo riempivano di gioia. Uscì, e grazie a una guida marocchina incontrò alcune figure e personaggi che avrebbe dipinto.
Delacroix scrisse nel suo diario: «È un luogo fatto per i pittori, dove il bello abbonda ».
Matisse scrive ai suoi
amici: «Sono stato a Tangeri perché è l’Africa. Delacroix era
lontano dai miei pensieri». Se il primo fece solo alcuni schizzi,
l’altro produsse, durante i suoi due soggiorni, 23 tele e 65
disegni a penna e inchiostro. Qui Henri Matisse semplificò le sue
composizioni e osò i colori caldi.
Il suo incontro col nord del Marocco cambiò il suo modo di dipingere in maniera radicale e felice. Raramente la luce di un Paese ha dato tanto a un grande artista. Qui Henri Matisse si è “orientalizzato”.
Traduzione di Elisabetta Horvat
la Repubblica – 5 marzo
2015
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