La copiosa corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Roberto Roversi - più di duecento lettere, finora del tutto inedite - testimonia una profonda stima reciproca che con il passare del tempo diventa robusta amicizia. Dai consigli di lettura all'invio di dolci natalizi, dalle richieste di libri d'antiquariato ai commenti su scrittori contemporanei, l'intenso carteggio mostra due importanti protagonisti del panorama letterario del Novecento e il loro deciso impegno civile e politico per lo sviluppo democratico del nostro Paese. Si tratta di pagine - a volte affettuose, a volte telegrafiche - che lasciano intravedere anche teneri momenti di vita privata. Un aperto e stimolante confronto tra due grandi "utopisti" -come li definisce Antonio Motta - che si scambiano idee, giudizi, emozioni, progetti offrendo al lettore un prezioso spaccato del lavoro culturale di una generazione straordinaria.
Di seguito potete leggere due autorevoli recensioni del libro.
Il carteggio inedito tra Leonardo Sciascia e Roberto Roversi
Simonetta Fiori
Un pacchetto di duecento lettere, finora del tutto inedite. E due giovani intellettuali che avrebbero lasciato un segno nella scena culturale italiana, Leonardo Sciascia e Roberto Roversi. Si conoscono nei primi anni Cinquanta grazie a Pier Paolo Pasolini, che aveva frequentato il Galvani, lo stesso liceo del poeta bolognese. Hanno quasi la stessa età.Sciascia, il più grande, è maestro elementare a Racalmuto, nel cuore delle zolfare.
Roversi è uno scrittore precoce che ha appena fondato a Bologna la storica Libreria Antiquaria Palmaverde. Si piacciono sin dal primo istante, condividendo un'idea della letteratura come luogo di riscatto e di rinascita di un'Italia ferita.
Si sarebbero scambiati lettere per vent'anni, confrontandosi su libri, romanzi e poesie, nel giuoco incrociato delle rispettive riviste. Roversi rappresenta per Sciascia il «Nord evoluto», quella parte del paese che concentra case editrici, giornali, officine di idee.
«Per mesi sto a vagheggiare la mia piccola fuga nel Nord», scrive Sciascia all'amico. «Bologna resta la meta più desiderata. Ti dirò che mi basta l'odore di un vecchio libro per mettere proustiano movimento alle ore trascorse in città».
Lo scrittore siciliano affascina l'interlocutore con la malinconia dell'intellettuale meridionale che vive appartato.
Un'amicizia fatta anche di gesti semplici, la «frutta martorana» spedita da Racalmuto, il cotechino o il panspeziale che arrivano da Bologna a casa Sciascia. La conversazione s'accende sui libri importanti che entrambi cominciano a scrivere, Le parrocchie di Regalpetra di cui Roversi ammira «il coraggio» e «la luce di una forza consapevole», le poesie di Dopo Campoformio, «dura, bellissima verità», annota l'amico siciliano.
Restano vicini anche nei momenti di cupezza, quando Sciascia si dice «scontento di tutto», anche di se stesso. Nel 1971 l'uscita de Il Contesto provoca malumore nel Pci. Roversi è tra i pochi a prendere le difese dello scrittore. «Attualmente gli umori hanno sostituito i giudizi; e una sorta di genericume argomentativo ha sostituito il piacere e l'impegno delle analisi di fondo; stabilendo il trionfo ipotetico del pregiudizio». Due grandi "utopisti", così li presenta Antonio Motta nel prezioso volume di Pendragon che uscirà il prossimo mese.
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Palme, noci e buoni frutti
Salvatore Silvano Nigro
Nel gennaio del 1953, Sciascia aveva chiesto a Pasolini l’indirizzo di Roberto Roversi. «Non ricordo l’indirizzo di casa di Roversi», fu la risposta. Ma con questa aggiunta: «gli può scrivere presso la libreria Palmaverde via Rizzoli 4 (Bologna)».
La prima lettera di Sciascia a Roversi è datata 10 febbraio 1953: «Di suo, io conosco quelle bellissime poesie “per l’amatore di stampe” pubblicate in “Botteghe oscure”. Vorrei, se possibile, conoscerne altre; e pubblicarle. Ma lei forse non conosce la rivista: una modesta rassegna letteraria che si avvale però di ottimi collaboratori, e tra i più attivi sono Pasolini, Petrocchi, La Cava, Bartolini, Tobino. A pubblicarla in Sicilia, Lei potrà capire quanto lavoro ci costi». Non sembra. Eppure Sciascia, per quanto dimesso nel tono, fa eco a Vittorini. E con in mente un verso di Dante, tacitamente si dichiara orgoglioso di accollarsi la «colpa» di una attività editoriale, nuova e all'altezza dei tempi: «la colpa che laggiù cotanto costa».
Sciascia fa della sobrietà, e della modestia, delle qualità intellettuali. Ha una sua maniera dignitosa e confidenziale. Nel presentarsi a Roversi, si lascia trascrivere dalla semplicità della sua vita: «Io vivo in un piccolo paese della Sicilia, e mi muovo soltanto per fare uscire puntualmente la rivista, che si stampa a Palermo, e per un estivo e quasi rituale viaggio nel nord d'Italia: i libri e le riviste sono per me tutto»; la rivista è «un modo di creare rapporti umani, amicizia».
Era inevitabile che tra il bolognese poeta dell’eroismo umile, titolare di una libreria antiquaria, editore e animatore culturale coinvolto in due delle più importanti riviste del secolo («Officina» e «Rendiconti»), e il severo scrittore siciliano che della ragione saprà fare un uso abrasivo, affamato sempre di libri, gran collezionista di stampe ed editore, nascesse una condivisione di idee e di vita.
Sciascia e Roversi si riconoscevano a vicenda un certo calvinismo dell'intelligenza, letteraria e politica. Ne dà testimonianza il rapporto epistolare che li legò per circa vent’anni, dal 1953 al 1972. I due si scambiarono lettere asciutte, ma spesso narrativamente articolate tra confidenze personali e di famiglia, libri, rendiconti di letture, e persino doni commestibili descritti come fossero meraviglie di natura o nature morte da accogliere con partecipata ritualità. Sciascia spedì a Roversi una confezione di frutta martorana, che era tutta una leccatura di colori su pasta di mandorle. In cambio si ebbe il racconto di un quadretto di famiglia degno della pittura di Zurbarán: «Per mia moglie e mio figlio –e per me– fu una festa, quando portai a casa, reggendola per lo spago, la tua cassetta. E poi, inginocchiati per terra, in cucina –mentre aprivo l’involto– mio figlio e mia moglie battevano le mani, presi da una gioia furiosa che non so spiegare. Come se dovesse sortire, dalla scatola, chissà quale meraviglioso tesoro. E non esagero –figurati!– e non aggiungo parole. Basta: dopo un’ora, arance e noci e fichi d’india e pere erano scomparsi, addirittura divorati. E ancora ne parliamo; e mia moglie esalta la delicatezza e la squisitezza dell’impasto. Tu hai fatto una buona azione, per quel dono (io non ricevo mai doni) che ci ha fatto sentire meno soli, e con un amico vicino».
Al di là di questi capitoletti di colore, c’è un’urgenza di confronto. Sciascia e Roversi si seguono da lontano. Si leggono a vicenda. Scrive Sciascia: «Ho avuto l’“Officina” e, oggi, l’estratto con le tue poesie –belle e “nuove”. La rivista mi pare ottima nel suo primo numero, mi piace tutto, anche il pezzo di Gadda». Roversi si sofferma sulle Parrocchie di Regalpetra dell’amico: « Sto leggendo il tuo libro… Lo trovo sorprendente, vivo: un libro, direi, di carne e sangue». Né manca, in mezzo alle increspature del quotidiano, tutta una geografia di ritratti, in piedi o a busto, insieme a una frammentata enciclopedia dell’amor bibliofilo.
Alla rivista «Galleria», Sciascia affiancò una «collezioncina di quaderni» di versi e di prosa: «deliziosa», nel giudizio di Pasolini. Vi apparvero per primi Pasolini e Roversi. E poi Caproni. Sin dall’inizio della sua attività, Sciascia fu editore-scrittore. Perfezionò la sua vocazione collaborando, più tardi, con Elvira e Enzo Sellerio.
Salvatore Silvano Nigro
IL SOLE 24 ORE 22 febbraio 2015
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