Dal sito https://rebstein.wordpress.com/ riprendo questo bel saggio di Giuseppe Zuccarino pubblicato ieri:
Il suicidio incerto.
Blanchot (e altri)
sul Kirillov di Dostoevskij
Blanchot (e altri)
sul Kirillov di Dostoevskij
Attraverso i dialoghi di Kirillov con vari interlocutori, giungiamo a comprendere che è proprio questo il compito che il giovane ingegnere ha assegnato a se stesso: egli intende uccidersi senz’altri motivi che non siano di natura ideale. Il suo sacrificio servirà ad evidenziare che l’uomo può sconfiggere il timore della morte dimostrando nel contempo che le credenze religiose sono vane e superate. Dopo il suo gesto esemplare, che aprirà l’era nuova, gli altri esseri umani potranno finalmente vivere liberi e realizzare le loro aspirazioni alla felicità.
Tuttavia per Kirillov subentrano delle complicazioni. La simpatia per le idee socialiste lo ha indotto ad aderire a un gruppetto con pretese rivoluzionarie, abilmente e malvagiamente manovrato da un individuo privo di scrupoli, Pëtr Stepànovič Verchovenskij. Quest’ultimo, venuto a conoscenza del progetto di Kirillov, ritiene conveniente sfruttarlo per i propri scopi: sarà dunque lui ad indicare all’ingegnere intenzionato ad uccidersi il momento più opportuno per farlo, non senza averlo convinto a scrivere prima un biglietto nel quale si addossa gravi colpe non sue, tra cui un omicidio commesso dallo stesso Verchovenskij. Pur con qualche resistenza, Kirillov accetta, ritenendo che, anche così, lo scopo ideale del suo gesto rimarrà intatto. Quando gli viene comunicato che il momento di uccidersi è giunto, il giovane riesce a mantenersi abbastanza calmo per un po’, ma finisce con lo spararsi proprio mentre è in preda a una forte crisi di panico. Dunque, pur concretizzando il progetto suicida, egli non riesce ad attuarlo nella maniera voluta e con gli effetti sperati.
Prima di (e oltre ad) esaminare il modo in cui Maurice Blanchot interpreta questo personaggio dostoevskiano, converrà forse tratteggiare uno sfondo culturale rispetto a cui divenga possibile cogliere analogie e contrasti. Tanto per cominciare, pensiamo alle osservazioni su Kirillov che sono state fatte da altri due scrittori-saggisti francesi, ossia Gide e Camus, delle cui opere Blanchot si è occupato a più riprese nelle sue vesti di critico.
André Gide, che ha avuto il merito di essere stato fra i primi, in Francia, a comprendere appieno l’importanza del romanziere russo, ne analizza i personaggi in una chiave assai originale. In un suo libro, sostiene infatti che l’esito negativo dei propositi di molti di essi viene sottolineato dall’autore attribuendo loro una condizione di malati, spesso sofferenti di epilessia (come lo stesso Dostoevskij). Nel caso di Kirillov, l’affermazione implica una forzatura, perché nel romanzo non si dice affatto che questo personaggio sia epilettico; anzi, quando qualcuno gli chiede se per caso abbia mai avuto attacchi di quel male, egli lo nega senza esitazione. Il semplice sospetto basta però a Gide per parlarne come di un malato: «Kirillov è epilettico; […] è in uno stato morboso dei più strani. Sta per uccidersi nel giro di pochi minuti, e i suoi discorsi sono bruschi, incoerenti: spetta a noi individuare, attraverso di essi, il pensiero stesso di Dostoevskij»[2]. La prossimità, ipotizzata da Gide, tra le concezioni attribuite al personaggio dei Demoni e quelle dell’autore lascia perplessi: «Non dimentichiamo che Dostoevskij è perfettamente cristiano. Ciò che egli ci mostra nell’affermazione di Kirillov è di nuovo una bancarotta. […] Nella semifollia di Kirillov entra l’idea di sacrificio. “Sarò io a cominciare; io aprirò la porta”. Se è necessario che Kirillov sia malato per avere simili idee – che d’altronde Dostoevskij approva solo in parte, perché sono idee di insubordinazione –, nondimeno esse contengono una parte di verità, e se è necessario che Kirillov sia malato per averle, è anche affinché noi, dopo di lui, possiamo averle senza essere malati»[3].
Come si vede, la lettura che lo scrittore francese offre del personaggio dei Demoni è interessante, ma non del tutto chiara. A suo giudizio, il cristiano Dostoevskij ha avuto l’intento di esteriorizzare attraverso Kirillov un progetto ateistico che col cristianesimo mantiene forse un unico punto di contatto: la disponibilità a sacrificare la vita a beneficio degli altri. Per di più, questo personaggio è riuscito a concepire il progetto suicida solo per il fatto di trovarsi in una condizione di malato, il che basta a spiegare come mai il suo piano non ottenga i risultati voluti e vada incontro al fallimento. Tuttavia, secondo Gide, quella che agli occhi del romanziere russo costituisce una concezione erronea (ma allora perché Dostoevskij dovrebbe sentirsi vicino ad essa?) può essere invece valida per noi. Se così fosse, il discorso si capovolgerebbe: Kirillov non solo cesserebbe di dimostrarsi un fallito al momento del suicidio, anzi avrebbe raggiunto lo scopo che si era prefisso, facendo sì che, dopo di lui, noi non abbiamo più bisogno di suicidarci per dimostrare la nostra indipendenza dalle idee cristiane. È appena il caso di ricordare, però, che si sta parlando di un personaggio fittizio, creato dalla fantasia di un romanziere, sicché Gide sembra voler attribuire a Kirillov un ruolo eccessivo ed improprio.
A questa stessa figura dei Demoni, Albert Camus dedica un intero capitolo della sua opera saggistica Le mythe de Sisyphe[4]. Camus avanza subito l’opinione secondo cui «tutti gli eroi di Dostoevskij si interrogano sul senso della vita»[5]. Kirillov non fa eccezione, anzi si pone come un caso esemplare di quello che il romanziere russo definiva «suicidio logico». Infatti, se intende togliersi la vita, è perché ciò corrisponde alla sua «idea». Secondo Camus, Kirillov ha una netta percezione dell’assurdità dell’esistenza, cui reagisce progettando ed attuando la soppressione di sé. L’originalità del personaggio è rinvenibile specialmente in un altro aspetto, ossia nell’ambizione di diventare dio: «Il ragionamento è di una chiarezza classica. Se Dio non esiste, Kirillov è dio. Se Dio non esiste, Kirillov deve uccidersi. Kirillov, dunque, deve uccidersi per essere dio»[6]. Ciò non comporta però, come si potrebbe credere, il desiderio di accedere ad una dimensione superumana: «Divenire dio, significa soltanto divenire libero su questa terra, non porsi più al servizio di un essere immortale. È soprattutto, beninteso, trarre tutte le conseguenze da questa dolorosa indipendenza. Se Dio esiste, tutto dipende da lui e non possiamo far nulla contro la sua volontà. Se non esiste, tutto dipende da noi»[7].
Chi ha compreso questo ha conquistato, almeno in teoria, la propria libertà. Ma se è così, perché dovrebbe sopprimersi? La risposta è lineare: per gli altri. «Essi hanno bisogno che si mostri loro il cammino e non possono fare a meno della predicazione. Kirillov deve dunque uccidersi per amore dell’umanità. Deve mostrare ai suoi fratelli una via regale e difficile, sulla quale sarà il primo. Il suo è un suicidio pedagogico»[8]. Ciò non va inteso nel senso che gli altri debbano imitarne l’esempio, ma in senso opposto: «Morto lui, e una volta che gli uomini siano finalmente illuminati, la terra si popolerà di zar e risplenderà della gloria umana»[9]. A giudizio di Camus, Dostoevskij non può far propria la logica di Kirillov né, dunque, ritenere che l’umanità debba rinunciare alle speranze offerte dalla religione: «Giunto al termine, il creatore sceglie contro i propri personaggi. Questa contraddizione ci permette così di introdurre una sfumatura. Non si tratta qui di un’opera assurda, ma di un’opera che pone il problema dell’assurdo. La risposta di Dostoevskij è l’umiliazione»[10]. Si può dire che in tal modo venga chiarita piuttosto bene la differenza tra le idee attribuite al personaggio di Kirillov e quelle che sono invece specifiche del romanziere russo.
Vale la pena di rammentare che Blanchot ha recensito tempestivamente il libro di Camus[11]. Senza poter esaminare l’articolo in dettaglio, ci limiteremo a dire che il recensore apprezza Le mythe de Sisyphe, lo ritiene un’opera importante, ma al tempo stesso dissente dalla prospettiva troppo ottimistica con cui Camus si accosta al tema dell’assurdo. Il personaggio mitologico di Sisifo viene assunto fin dal titolo come emblema della condizione assurda, per via dello sforzo eternamente ripetuto ed eternamente vano che gli è stato assegnato quale condanna negli Inferi. Tuttavia Camus si sforza, nelle ultime pagine del volume, di «immaginare Sisifo felice»[12]. Egli ipotizza dunque un Sisifo che finisca con l’accettare la propria situazione tormentosa, non veda più in essa un limite alla propria libertà, anzi si dimostri capace di rinunciare alle false speranze e di valorizzare la vita, sia pure intesa come eterna lotta. Su questo, Blanchot avanza forti riserve: «Se il libro di Camus merita di non essere giudicato come un libro ordinario, dobbiamo anche chiederci perché, in certi momenti, la sua lettura ci pesi e ci infastidisca. È perché nemmeno lui è fedele alla propria regola, perché alla lunga fa dell’assurdo non ciò che turba e spezza tutto, ma ciò che è suscettibile di accomodamento, e che anzi accomoda tutto. Nel suo saggio, l’assurdo diventa una conclusione, è una soluzione, una specie di salvezza»[13].
Stranamente, nell’articolo non si fa alcun accenno al capitolo del libro di Camus incentrato su Kirillov. Ma un riferimento di Blanchot al personaggio dostoevskiano lo si incontra in un’altra recensione, quella dell’opera teatrale di Sartre Les mouches[14]. Ricordiamo che la pièce offre una riscrittura in chiave esistenzialista di un classico del teatro greco, Le Coefore di Eschilo. Oreste, figlio del sovrano di Argo, Agamennone, e di Clitemnestra, sa che suo padre è stato assassinato a tradimento da Egisto, che ne ha preso il posto e ne ha sposato la vedova, già sua amante e complice nel delitto. Dopo molte esitazioni, Oreste sceglie di assumersi il gravoso compito della vendetta, e lo fa uccidendo sia Egisto che Clitemnestra. Deve però subire le conseguenze del proprio atto. Ormai fortemente inviso ai concittadini, che pure ha liberato dalla punizione divina (Argo, dopo l’uccisione di Agamennone, era infestata dalle mosche, castigo voluto da Giove), comprende di doversi esiliare. Inoltre viene tormentato, lui solo, dalle mosche, simbolo del rimorso e moderna versione delle Erinni. A prima vista non è chiaro quale possa essere il rapporto fra il protagonista del dramma di Sartre e il personaggio dei Demoni, ma Blanchot, nella sua recensione, lo chiarisce: «Uno dei temi di Les mouches, è che basta che un uomo si riconosca libero perché tutti gli altri lo siano. L’ordine e gli dèi muoiono non appena un uomo ha spinto il proprio compimento fino al termine della libertà. Questa è la vera ragione per cui il libero delitto di Oreste affranca i suoi compatrioti ed ha per gli altri lo stesso senso che per lui. Per comprendere l’autenticità di tale tema, occorre ricordare che Dostoevskij, nei Demoni, ne ha dato un’interpretazione quasi identica. Cosa vuole Kirillov? Vuole uccidere per affermare la propria libertà, e sa che uccidendosi libererà gli uomini dalla menzogna dell’antico dio e dalla maledizione della paura. “L’uomo, dice, è sempre stato povero e infelice perché temeva di realizzare la forma suprema della sua volontà (la sua indipendenza). Ma io proclamerò la mia volontà… Questo salverà tutti gli uomini e li trasformerà fisicamente fin dalla generazione successiva… Io mi uccido per dar prova della mia insubordinazione e della mia nuova libertà”. Anche Kirillov ha scoperto di essere libero. Ma, come Oreste, sa che tale libertà non può essere realizzata se non tramite un atto paradossale di cui deve accettare tutte le conseguenze, e sa che tale libertà affermata completamente per lui, diverrà libertà per gli altri e libertà degli altri»[15]. Senza voler dare troppo peso a quella che, di fatto, è solo una comparazione esplicativa all’interno di un articolo incentrato su Les mouches di Sartre, notiamo che, tra i vari aspetti della sfaccettata figura dostoevskiana di Kirillov, Blanchot sembra voler evidenziare qui il ruolo di liberatore. In tal senso, non si discosta molto dalle posizioni espresse in proposito da Gide e Camus.
Può essere utile considerare un’altra interpretazione del personaggio dei Demoni, quella offerta da un filosofo la cui opera principale ha esercitato una certa influenza su Blanchot. Ci riferiamo ad Alexandre Kojève che, nel corso del suo commento alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, fa alcuni riferimenti a Kirillov. Basterà ricordarne uno solo, presente in una nota del libro. Prima, però, occorre leggere il passo a cui la nota si connette: «Il suicidio, ossia la morte volontaria senza “necessità vitale”, è la “manifestazione” più evidente della Negatività o della Libertà. Infatti, darsi la morte per sfuggire a una situazione data alla quale ci si è adattati biologicamente (visto che si potrebbe continuare a vivere in essa) significa manifestare la propria indipendenza nei suoi confronti, cioè la propria autonomia o la propria libertà. E, dal momento che ci si può uccidere per sfuggire a qualsiasi situazione data, si può dire con Hegel che “la facoltà della morte” è l’“apparizione” della “libertà pura” o assoluta (almeno in potenza) di fronte a qualsiasi dato in generale. Ma se il suicidio (il quale distingue in modo evidente l’Uomo dall’animale) “manifesta” la libertà, esso però non la realizza, giacché conduce al nulla e non a un’esistenza libera»[16]. Ed ecco, sempre in riferimento al suicidio, la nota che ci interessa: «Questo tema hegeliano è stato ripreso da Dostoevskij nei Demoni. Kirillov vuole uccidersi unicamente per dimostrare la possibilità di farlo “senza alcuna necessità”, cioè liberamente. Il suo suicidio deve dimostrare la libertà assoluta dell’uomo, cioè la sua indipendenza di fronte a Dio. L’obiezione teistica di Dostoevskij consiste nel dire che l’uomo non può farlo, che egli indietreggia necessariamente davanti alla morte: Kirillov si suicida per la vergogna di non poterlo fare. Ma questa obiezione non è valida, perché un suicidio “per vergogna” è anch’esso un atto libero (nessun animale lo fa). E se, suicidandosi, Kirillov si annienta, egli ha, come voleva, soppresso ogni potenza esterna (del “trascendente”) morendo “prematuramente” (prima di quanto “fosse scritto”) e ha limitato l’infinitezza o Dio»[17].
Questo passo di Kojève risulta significativo per almeno due aspetti. In primo luogo, evidenzia bene come il personaggio di Kirillov sia, se così si può dire, «sfuggito di mano» al suo autore. In tutto il romanzo, Dostoevskij si proponeva infatti di attaccare con durezza i socialisti e i nichilisti russi, ideando a tale scopo varie figure, così da mostrare a quali diverse aberrazioni dovesse necessariamente condurre la negazione dei valori tradizionali, primi fra tutti quelli religiosi. Tuttavia il fine dell’autore, nel caso di Kirillov, è stato raggiunto solo in parte: è vero che questo personaggio fallisce, non riuscendo ad esercitare sull’umanità l’azione emancipatrice da lui sperata, ma – come nota giustamente Kojève – dimostra comunque la propria libertà uccidendosi senza alcun motivo tranne quello ideale. In secondo luogo, il filosofo ha il merito di richiamare l’attenzione sul momentaneo arretramento di Kirillov prima di spararsi, attribuendolo alla «vergogna» e aggiungendo che ciò non inficia il significato «liberatorio» e «antireligioso» del suo gesto.
Ma veniamo finalmente al saggio blanchotiano in parte dedicato all’esame del personaggio dei Demoni. Il titolo di questo saggio, La mort possible, va inteso quasi per antifrasi, dal momento che Blanchot non ha alcuna certezza riguardo al fatto che il decesso rientri fra le possibilità dell’uomo. Scrive infatti: «Nessuno è sicuro di morire, nessuno mette in dubbio la morte e tuttavia non può pensare la morte certa se non in termini di dubbio, perché pensare la morte equivale a introdurre nel pensiero ciò che è supremamente incerto […]. Se gli uomini, in generale, non pensano alla morte, si ritraggono davanti ad essa, è senz’altro per fuggirla e per nascondersi ad essa, ma questo sottrarsi è possibile solo perché la morte stessa è eterna fuga davanti alla morte»[18]. Dunque la fine della vita, ben lungi dall’essere per l’uomo una fatalità inevitabile, rappresenta all’opposto qualcosa che occorre cercare di rendere possibile, ma senza alcuna sicurezza di riuscirci. Verrebbe da pensare che una scorciatoia, in tal senso, sia rappresentata dal suicidio. Blanchot richiama in tal senso alcune frasi di Nietzsche. Secondo il filosofo tedesco, la cosiddetta morte naturale «è una morte non libera, una morte non a tempo giusto, una morte da codardo. Si dovrebbe, per amore alla vita, – volere una morte diversa, libera, cosciente, senza alcunché di accidentale e d’improvviso […]. Quando ci si sopprime, si fa la cosa più degna di rispetto che esista: con ciò quasi si merita di vivere…»[19].
È facile notare la consonanza tra tali frasi e quelle pronunciate da Kirillov nei Demoni. In proposito, conviene aprire un’ampia parentesi, ricordando l’entusiasmo suscitato nel filosofo tedesco dalla scoperta delle opere di Dostoevskij, all’epoca assai poco note fuori della Russia. Nietzsche ha considerato subito questo romanziere come uno spirito affine al suo, «uno psicologo col quale “m’intendo”», anzi «l’unico psicologo, sia detto di passaggio, da cui avrei qualcosa da imparare»[20]. Ciò spiega perché anche la lettura dei Demoni abbia lasciato tracce nei frammenti postumi di Nietzsche: lo dimostrano i numerosi passi del libro da lui trascritti nei suoi quaderni[21]. Nel romanzo, lo ha colpito particolarmente il personaggio di Kirillov, in quanto si presta ad illustrare come funziona una certa «logica dell’ateismo»: «Se Dio esiste, tutto dipende dalla sua volontà e io non sono niente al di fuori della sua volontà. Se non esiste, tutto dipende da me “e io devo dimostrare la mia indipendenza” – Il suicidio – il modo più completo di dimostrare la propria indipendenza […]. La formula classica di Kirillov in Dostoevskij: Sono tenuto ad affermare la mia incredulità; ai miei occhi non c’è nessuna idea più grande della negazione di Dio. Che cos’è la storia dell’umanità? L’uomo non ha fatto altro che inventare Dio, per non uccidersi. Io, per primo, rigetto l’invenzione di Dio […]. Prima il suicida aveva motivi per suicidarsi; io invece non ho motivi, lo voglio fare unicamente per dimostrare la mia indipendenza»[22]. È chiaro che le argomentazioni con cui Nietzsche esercita, nelle proprie opere, una dura critica delle credenze religiose sono assai più articolate di quelle esposte dal personaggio dei Demoni. Da parte sua, il filosofo non pensa che il suicidio possa essere un modo – né tanto meno il modo privilegiato – per affrancare se stessi e gli altri dal peso di tali credenze. E tuttavia non è strano che egli abbia trascritto con interesse le parole di Kirillov. L’analogia è stata colta ad esempio dal giovane Lukács, che nei suoi appunti sul romanziere russo sottolinea, pur senza commentarla, «la grandezza dell’ateismo “antropologico” / Kirillov – Nietzsche»[23]. André Gide, nel libro già ricordato, cerca di sviluppare tale comparazione, notando sia le affinità che le differenze di idee tra il filosofo tedesco e Dostoevskij. È vero che Kirillov «edifica tutta una metafisica, nella quale Nietzsche è già contenuto in germe, in funzione del proprio suicidio», ed anche che la sua «idea dell’uomo-Dio […] ci riconduce a Nietzsche»[24]. Tuttavia, su un piano più generale, le concordanze tra il filosofo e il romanziere non vanno enfatizzate, perché di fatto i loro intenti non coincidono: «Partendo dallo stesso problema, Nietzsche e Dostoevskij propongono per esso soluzioni diverse, anzi opposte. Nietzsche propone un’affermazione di sé, e vede in ciò lo scopo della vita. Dostoevskij propone una rassegnazione. Là dove Nietzsche ha il presentimento di un apogeo, Dostoevskij prevede solo un fallimento»[25].
Torniamo a Blanchot, che per l’appunto prosegue il discorso chiamando in causa il personaggio dei Demoni. Mentre di solito il suicidio si configura come un atto di accusa contro la vita, Kirillov intende conferirgli un senso diverso, trasformandolo in un gesto di sfida, in un modo per verificare, e nel contempo mostrare agli altri, l’inesistenza di Dio. «Progetto che, esigendo tutta la serenità di un uomo legato a una stretta ragione, si accorda male con […] il tormento di Dio che egli confessa e, meno ancora, con lo spavento che lo fa vacillare alla fine. Eppure questi andirivieni di un pensiero smarrito, questa follia che avvertiamo incombere su di esso, e perfino la vertigine della paura, sotto la maschera che qui assume e che è la vergogna di aver paura, sono proprio ciò che dà a tale impresa il suo affascinante interesse»[26]. Procedendo in maniera diversa da quasi tutti gli interpreti di Dostoevskij che abbiamo considerato in precedenza, Blanchot non cerca né di far apparire del tutto coerente il contegno di Kirillov, né di scorgere nelle sue contraddizioni il segno di un fallimento, bensì individua in esse ciò che rende significativo e stimolante il personaggio.
A suo avviso, Kirillov crede di confrontarsi col problema dell’esistenza di Dio, ma in realtà si sta cimentando con le difficoltà proprie del suicidio, e del decesso in generale: «Posso darmi la morte? Ho il potere di morire? Fino a che punto posso addentrarmi liberamente nella morte, padroneggiando appieno la mia libertà? Anche là dove decido di andarle incontro, con una determinazione virile e ideale, non è forse ancora la morte che viene a me, e quando credo di coglierla, non è forse la morte a cogliermi, ad abbandonarmi, a consegnarmi all’inafferrabile?»[27]. Nell’ottica di Blanchot, il suicidio (che è poi solo un tentativo di suicidio) non fa altro che evidenziare le aporie e i paradossi inerenti alla morte stessa. È questo un tema centrale in tutta la sua opera, saggistica e narrativa, che è stato ben notato dagli studiosi, come ad esempio il filosofo Emmanuel Levinas: «La morte, per Blanchot, non è il patetico dell’estrema possibilità umana, possibilità dell’impossibilità, ma ripetizione incessante di ciò che non può essere afferrato, di ciò di fronte a cui l’“io” perde la propria ipseità. […] La morte non è la fine, è il non finire di finire»[28].
È proprio questo il problema messo in luce dal personaggio dei Demoni: «Kirillov muore davvero? […] Può fare in modo che la morte sia ancora per lui la forza del negativo, il taglio netto della decisione, il momento della suprema possibilità, dove persino la sua impossibilità viene a lui sotto forma di un potere? Oppure, al contrario, l’esperienza è quella di un rovesciamento radicale in cui egli muore, ma non può morire, e in cui la morte lo abbandona all’impossibilità di morire?»[29].
Nonostante il suo approccio del tutto originale all’episodio del romanzo, Blanchot affronta anche, di passaggio, le questioni trattate dagli altri saggisti cui abbiamo fatto riferimento, ad esempio il problema della malattia o la differenza che esiste tra le opinioni di Dostoevskij e quelle che vengono enunciate da Kirillov: «Il suicidio è sempre il gesto di un uomo già offuscato, di una volontà malata, un fatto involontario? Certi psichiatri lo dicono, d’altronde senza saperlo; certi teologi benevoli lo pensano, per cancellare lo scandalo, e lo stesso Dostoevskij, che vota il suo personaggio all’apparenza della follia, arretra di fronte all’abisso che Kirillov ha aperto accanto a sé»[30]. Anche Blanchot, dunque, pensa che il romanziere russo sia quasi spaventato dai ragionamenti esposti da Kirillov, e cerchi di ridurne la portata, insinuando nel lettore dei dubbi sull’effettiva condizione, spirituale e mentale, dell’ingegnere votato al suicidio.
Molto interessante è l’attenzione dedicata da Blanchot all’arretramento di Kirillov prima di spararsi. Egli mette in evidenza come tale comportamento si collochi agli antipodi della stoica fermezza che gli autori greci o romani attribuivano a certi grandi figure del mondo antico nel momento del suicidio. Il personaggio dei Demoni, invece, non riesce a reprimere la paura. Dato che Blanchot ha evocato gli psichiatri, verrebbe da aggiungere che essi non si stupirebbero di ciò. Lo psicoanalista Otto Rank, in un celebre libro sul tema del doppio – nel quale si parla anche del romanzo dostoevskiano Il sosia[31] –, mette in evidenza il «singolare paradosso per cui il suicida cerca volontariamente la morte per liberarsi dall’intollerabile paura di morire»[32]. Rank ricorda anzi che questo problema ha riguardato lo stesso Dostoevskij: «Alla fine degli anni ’70 un “attacco di angoscia di morte”, secondo Merežkovskij, lo “portò sull’orlo del suicidio”»[33]. Dunque il romanziere russo sapeva benissimo di cosa stava parlando, nel descrivere lo stato d’animo alterato di Kirillov prima di premere il grilletto.
Blanchot segue però una diversa pista interpretativa: «Dostoevskij non ha concesso a Kirillov un destino impassibile, la fredda fermezza ereditata dagli antichi. Questo eroe della morte certa non è indifferente, né padrone di sé, né sicuro […]. Lo stato d’animo febbrile di Kirillov, la sua instabilità, i passi che non conducono in nessun luogo, non significano l’agitazione della vita, una forza sempre viva, ma l’appartenenza a uno spazio in cui non si può soggiornare, che in questo senso è uno spazio notturno, in cui nessuno viene accolto, in cui nulla permane. […] Chi, per imperizia, ha fallito la propria morte, è come un fantasma che torni solo per continuare a sparare sulla propria sparizione; non può far altro che uccidersi ancora e sempre. Questa ripetizione ha la frivolezza dell’eterno e la pesantezza dell’immaginario»[34].
Il saggista francese modifica necessariamente il modo in cui si era in precedenza considerato il personaggio di Dostoevskij, giacché mette in dubbio l’effettività stessa del gesto a lungo premeditato e infine compiuto da Kirillov: «Non è dunque sicuro che il suicidio sia una risposta a questo richiamo della possibilità nella morte. Il suicidio pone senza dubbio un interrogativo alla vita: la vita è possibile? Ma esso è, in modo più essenziale, il suo stesso interrogativo: il suicidio è possibile? […] Non si può “progettare” di uccidersi. Questo apparente progetto si slancia verso qualcosa che non viene mai raggiunto, verso uno scopo a cui non si può puntare»[35].
Certo, tale concezione ha pochi rapporti col pensiero dostoevskiano, ma riesce a far apparire il personaggio di Kirillov, e il romanzo I demoni in generale, sotto una nuova luce, fosse pure, come scrive Blanchot ad altro proposito, una «luce che illumina tutto il libro con un chiarore nero»[36]. Così dunque egli risponde – in maniera personale, ancorché opinabile – ad uno dei compiti dell’ermeneutica dei testi letterari, quello enunciato da Roland Barthes nei termini seguenti: «Il critico non può pretendere di “tradurre” l’opera, e in particolare di chiarirla […]. Il critico sdoppia i sensi, fa fluttuare sopra il primo linguaggio dell’opera un secondo linguaggio, ossia una coerenza di segni. Si tratta insomma di una specie di anamorfosi, […] una trasformazione controllata»[37].
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Note
[1] Cfr. Fëdor Dostoevskij, I demoni (1871), in Tutti i romanzi, vol. II, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 5-368.
[2] A. Gide, Dostoïevski (1923), Paris, Gallimard, 1970, pp. 216 e 224 (tr. it. Dostoevskij, Milano, Medusa, 2013, pp. 142 e 147; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[3] Ibid., pp. 226-227 (tr. it. p. 148).
[4] A. Camus, Le mythe de Sisyphe (1942), in Œuvres, Paris, Gallimard, 2013 (tr. it. Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani, 1947; 1994).
[5] Ibid., p. 316 (tr. it. p. 101).
[6] Ibid., p. 318 (tr. it. p. 103).
[7] Ibid., pp. 318-319 (tr. it. p. 104).
[8] Ibid., p. 319 (tr. it. p. 104).
[9] Ibidem (tr. it. p. 105).
[10] Ibid., p. 321 (tr. it. p. 107).
[11] M. Blanchot, Le mythe de Sisyphe (1942), in Faux pas, Paris, Gallimard, 1943; 1971, pp. 65-71 (tr. it. Il mito di Sisifo, in Passi falsi, Milano, Garzanti, 1976, pp. 63-69).
[12] A. Camus, op. cit., p. 328 (tr. it. p. 121).
[13] M. Blanchot, op. cit., p. 70 (tr. it. pp. 67-68).
[14] Jean-Paul Sartre, Les mouches (1943), in Huis clos, suivi de Les mouches, Paris, Gallimard, 1947; 2013, pp. 97-247 (tr. it. Le mosche, in Le mosche – Porta chiusa, Milano, Bompiani, 1947; 2013, pp. 17-305).
[15] M. Blanchot, Le mythe d’Oreste (1943), in Faux pas, cit., pp. 76-77 (tr. it. Il mito di Oreste, in Passi falsi, cit., p. 74).
[16] A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Paris, Gallimard, 1947; 2008, pp. 517-518 (tr. it. Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, pp. 641-642).
[17] Ibidem (tr. it. p. 642).
[18] M. Blanchot, La mort possible (1952), in L’espace littéraire, Paris, Gallimard, 1955, pp. 94-95 (tr. it. La morte possibile, in Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967, pp. 76-77).
[19] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Opere, vol. VI, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1970; 1986, p. 133.
[20] Per le due citazioni, cfr. la lettera di Nietzsche a Heinrich Köselitz del 13 febbraio 1887 (in Epistolario, V: 1885-1889, tr. it. Milano, Adelphi, 2011, p. 325) e Crepuscolo degli idoli, cit., p. 146.
[21] Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1971; 1979, pp. 345-356.
[22] Ibid., pp. 347-348.
[23] György Lukács, Dostoevskij, tr. it. Milano, SE, 2000; 2012, p. 32.
[24] A. Gide, op. cit., pp. 71 e 212 (tr. it. pp. 55 e 140).
[25] Ibid., p. 212 (tr. it. p. 140).
[26] La mort possible, cit., p. 97 (tr. it. p. 79).
[27] Ibid., p. 98 (tr. it. p. 79).
[28] E. Levinas, Blanchot / Le regard du poète (1956), in Sur Maurice Blanchot, Montpellier, Fata Morgana, 1975, p. 16 (tr. it. Blanchot / Lo sguardo del poeta, in Su Blanchot, Bari, Palomar, 1994, pp. 50-51).
[29] La mort possible, cit., p. 99 (tr. it. p. 81).
[30] Ibidem (tr. it. pp. 80-81).
[31] Cfr. F. Dostoevskij, Il sosia, Milano, Mondadori, 1956; 1985.
[32] O. Rank, Il doppio. Uno studio psicoanalitico (1925), tr. it. Milano, SE, 2001, p. 97.
[33] Ibid., p. 98.
[34] La mort possible, cit., pp. 101-102 (tr. it. pp. 82-83). Si noti il gusto, anche stilistico, del paradosso da parte di Blanchot: nell’ultima frase citata, sarebbe stato più prevedibile usare le espressioni «la pesantezza dell’eterno» e «la frivolezza dell’immaginario».
[35] Ibid., p. 102 e 104 (tr. it. p. 83-84).
[36] M. Blanchot, L’influence du roman américain (1943), in Chroniques littéraires du «Journal des débats», Paris, Gallimard, 2007, p. 461.
[37] R. Barthes, Critique et vérité (1966), in Œuvres complètes, vol. II, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 792 (tr. it. Critica e verità, Torino, Einaudi, 1969, p. 53).
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