Due giorni fa è morto René Girard, uno dei maggiori antropologi e critici letterari del secondo Novecento. Di seguito potete leggere:
1) il risvolto di copertina di uno dei libri più noti dell'autore tradotto in lingua italiana per conto della casa editrice Adelphi;
2) una parte della conferenza di Barbara Carnevali pronunciata in occasione di un convegno su Girard alla Bibliothèque Nationale de France nel 2013.
1
LA VIOLENZA e IL SACRO
«È criminale
uccidere la vittima perché essa è sacra ... ma la vittima non sarebbe sacra se
non la si uccidesse». Questo terribile, paralizzante circolo vizioso si
incontra subito, quando si esamina la realtà del sacrificio. Di fronte a esso
l’ambivalenza tanto frequentemente evocata dal pensiero moderno ha
l’aria di un pio eufemismo, che malamente cela il segreto non già di una
pratica estinta, ma di un fenomeno che ossessiona il nostro mondo: la
violenza – e il suo oscuro, inscindibile legame con il sacro. Nesso
tanto più stretto proprio là dove, come nella società attuale, si pretende di
conoscere il sacro soltanto attraverso i libri di etnologia: del sacro si può
dire infatti, osserva Girard, che esso è innanzitutto «ciò che domina l’uomo
tanto più agevolmente quanto più l’uomo si crede capace di dominarlo».
Che cosa lega, che cosa tiene insieme una società? Il «linciaggio fondatore», l’ombra del capro espiatorio, risponde Girard – e la brutalità della risposta è proporzionale alla lucidità, alla sottigliezza, all’acutezza delle analisi che a tale conclusione portano. Si tratti della tragedia greca o di riti polinesiani, di Frazer o di Freud, di fenomeni del nostro mondo o di grandi figure romanzesche, sempre Girard riesce a mostrarceli nella luce di quell’evento primordiale, sempre taciuto, sempre ripetuto, in cui la società trova la sua origine, rinchiudendosi nel circolo vizioso fra sacro e violenza.
In questo libro, che apparve in Francia nel 1972, molti ormai hanno riconosciuto il fondamento di un’opera di pensiero fra le più rilevanti del nostro tempo. Con gesto drastico, Girard è sfuggito a quelle disparate neutralizzazioni del religioso a cui l’antropologia, da decenni, ci ha abituato – anzi ha individuato in questo delicato escamotage scientista «una espulsione e consumazione rituale del religioso stesso, trattato come capro espiatorio di ogni pensiero umano». Il mana, il sacrum, il pharmakon, queste parole dal potere contagioso, cariche di ambiguità e di significati contraddittori, tornano qui al centro della riflessione, come sono di fatto al centro della vita. Ma, proprio perché, come ha osservato Girard, «la semplicità e la chiarezza non sono di moda», e proprio perché tali parole sono per eccellenza complesse e oscure, l’indagine che qui viene proposta ha un’evidenza, una nettezza, una precisione che si impongono sin dalle prime righe. E alla fine ci troveremo faccia a faccia con una constatazione bruciante sulla realtà che ci circonda: «La tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente, prepara il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente, nella forma della violenza e del sapere della violenza».
Che cosa lega, che cosa tiene insieme una società? Il «linciaggio fondatore», l’ombra del capro espiatorio, risponde Girard – e la brutalità della risposta è proporzionale alla lucidità, alla sottigliezza, all’acutezza delle analisi che a tale conclusione portano. Si tratti della tragedia greca o di riti polinesiani, di Frazer o di Freud, di fenomeni del nostro mondo o di grandi figure romanzesche, sempre Girard riesce a mostrarceli nella luce di quell’evento primordiale, sempre taciuto, sempre ripetuto, in cui la società trova la sua origine, rinchiudendosi nel circolo vizioso fra sacro e violenza.
In questo libro, che apparve in Francia nel 1972, molti ormai hanno riconosciuto il fondamento di un’opera di pensiero fra le più rilevanti del nostro tempo. Con gesto drastico, Girard è sfuggito a quelle disparate neutralizzazioni del religioso a cui l’antropologia, da decenni, ci ha abituato – anzi ha individuato in questo delicato escamotage scientista «una espulsione e consumazione rituale del religioso stesso, trattato come capro espiatorio di ogni pensiero umano». Il mana, il sacrum, il pharmakon, queste parole dal potere contagioso, cariche di ambiguità e di significati contraddittori, tornano qui al centro della riflessione, come sono di fatto al centro della vita. Ma, proprio perché, come ha osservato Girard, «la semplicità e la chiarezza non sono di moda», e proprio perché tali parole sono per eccellenza complesse e oscure, l’indagine che qui viene proposta ha un’evidenza, una nettezza, una precisione che si impongono sin dalle prime righe. E alla fine ci troveremo faccia a faccia con una constatazione bruciante sulla realtà che ci circonda: «La tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente, prepara il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente, nella forma della violenza e del sapere della violenza».
2
Gli uomini saranno dèi gli uni per gli altri. Sull’antropologia di René Girard
di Barbara Carnevali
Gli esseri umani sono essenzialmente esseri desideranti, sostiene René Girard. Nel suo primo libro, Mensonge romantique et vérité romanesque[1],
pilastro originario della sua antropologia rimasto probabilmente il suo
capolavoro, il desiderio è il fenomeno fondamentale che struttura
l’esistenza umana nella sua tensione teleologica, spingendo il soggetto a
uscire da sé e a volgersi verso l’alterità, inserendosi nel tessuto
delle mediazioni sociali. Il concetto di «désir métaphysique» indica una
specie di desiderio trascendentale che rappresenta la condizione di
possibilità dei desideri empirici particolari e infinitamente variabili:
esso consiste nel desiderio, provato consciamente o inconsciamente da
ogni individuo, di assimilarsi tramite l’imitazione a un modello
divinizzato che appare superiore e incommensurabilmente prestigioso.
Il principio che permette di accumunare
tutte le forme specifiche di desiderio e di riconoscerle come
espressioni dello stesso desiderio metafisico è il meccanismo mimetico.
Come Gabriel Tarde prima di lui, Girard propone una teoria metafisica
dell’imitazione universale[2].
La sua analisi si discosta tuttavia dalla linea tardiana non solo
perché si concentra unicamente sul mondo umano – mentre Tarde aveva
fatto dell’imitazione un principio cosmico che regola anche il mondo
naturale – ma perché non comporta una decostruzione della soggettività:
l’imitazione non dissolve il soggetto in flussi impersonali di correnti
che attraversano l’io, minandolo come centro di autonomia e di
sovranità, ma si situa ancora a pieno titolo all’interno della
tradizione moderna della filosofia del soggetto, di cui recupera
significativamente una delle problematiche morali più classiche, quella
delle passioni. Nel percorso tracciato in Mensonge romantique, e
che unisce Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust, il
desiderio metafisico si articola in una serie di affetti differenziati,
come la vanità, la gelosia, l’invidia, l’amore, lo snobismo, che
rappresentano l’oggetto privilegiato di analisi della moderna psicologia
romanzesca come della letteratura moralistica da Montaigne a Rousseau.
Tra tutte le passioni, l’invidia assurge
al ruolo di fenomeno archetipico, ed è proprio sulla sua fenomenologia
che si modella il desiderio mimetico[3].
Per identificare desiderio metafisico e desiderio invidioso Girard deve
tuttavia ridefinire preliminarmente l’invidia, neutralizzandone la
componente oggettuale. Si può definire l’invidia, infatti, come un
desiderio perverso per qualcosa che è altamente desiderabile in se
stesso, ma che non si può avere perché appartiene a qualcun altro.
Nell’interpretazione mimetica, invece, ciò che l’invidioso desidera è in
realtà l’essere dell’altro, non l’oggetto in suo possesso, il
quale risulta desiderabile non in virtù di qualità intrinseche ma per il
prestigio illusorio conferitogli dal suo proprietario. La dissoluzione
dell’oggetto nella relazione intersoggettiva viene suggerita in Mensonge romantique come
conseguenza inevitabile della scoperta del fenomeno del desiderio
mimetico triangolare: «L’objet n’est qu’un moyen d’atteindre le
médiateur. C’est l’être de ce médiateur que vise le désir» (MR, 69).
L’identificazione tra desiderio e invidia[4]
diventerà sempre più esplicita nelle opere successive di Girard a
cominciare dallo studio su Shakespeare dal titolo emblematico, «A
Theater of Envy». Ogni desiderio umano è desiderio invidioso, e questa
verità disturbante sarebbe confermata proprio dalla resistenza che il
fenomeno oppone ai tentativi di rivelazione. In più occasioni, Girard
sosterrà che l’importanza dei fenomeni psichici è sempre proporzionale
al loro diniego: sotto questo profilo l’invidia è paragonabile a ciò che
la psicanalisi definisce «rimosso», al punto che sarebbe difficile dire
quale sia il segreto più nascosto dell’animo umano[5].
Il paragone è illuminante. Non diversamente da quella di Freud,
infatti, la teoria mimetica si fonda su un presupposto di metodo
fortemente riduzionistico: per far emergere il rimosso e rivelare «le
cose nascoste sin dalla fondazione del mondo» bisogna preliminarmente
ridurre la realtà, ossia semplificare il volto sfaccettato delle sue
manifestazioni fenomeniche, distinguendo ciò che è primario da ciò che è
secondario, conservando l’essenziale ed eliminando il superfluo. La
riduzione antropologica girardiana si articola in tre diversi momenti:
nel primo, la natura umana viene ridotta a una sola delle sue
componenti: il desiderio; nel secondo, il desiderio viene a sua volta
ridotto a una sola delle sue manifestazioni – il desiderio metafisico o
mimetico, rivolto all’essere altrui, e non oggettuale; nel terzo infine,
sulla base della distinzione concettuale tra mediazione esterna
(l’imitazione asimmetrica per chi è superiore), e mediazione interna,
simmetrica (l’imitazione simmetrica e reciproca tra pari), che Girard
declina in forma storica, il desiderio mimetico viene ridotto alla sua
manifestazione più specificamente moderna: l’invidia tra uguali. È
questa successione di operazioni sineddotiche a rendere possibile
l’equivalenza tra désir e envie. La complessità dell’esperienza umana viene dissolta, e la natura umana viene identificata con una sola delle sue componenti[6].
Questo modo di concepire la realtà per riduzione e concentrazione
su un solo fenomeno primario e dominante, che a sua volta comporta la
necessità di interpretare i fenomeni attraverso una sistematica
demistificazione cinica, che procede dall’alto verso il basso, dalla
passione più nobile al movente più basso e volgare, iscrive Girard in
una tradizione specifica, quella del realismo antropologico che, in
opposizione ad altre forme più pluralistiche e ottimistiche di realismo,
amo definire «realismo noir», e a cui spesso si richiama la tradizione
del realismo politico. Prima di trionfare con la cosiddetta «scuola del
sospetto» e la sua triade Marx, Nietzsche, Freud, questa linea di
pensiero si è affermata nella prima modernità con Machiavelli, Hobbes e i
moralisti francesi più influenzati dall’agostinismo, soprattutto La
Rochefoucaul e Pascal. Girard, come vedremo, si confronta soprattutto
con la versione agostiniano-giansenistica di questa tradizione, la sola
fondata su presupposti apertamente teologici. Ma prima di considerare
questo aspetto della sua antropologia dobbiamo soffermarci sulla sua
concezione della modernità.
2. La moderna divinizzazione del sociale
Secondo Girard, il desiderio mimetico è
il comune denominatore che accomuna gli esseri umani di ogni tempo e
luogo. Le pulsioni invidiose, però, sono diventate pressanti nella
psicologia degli individui contemporanei, in virtù della più intensa
esperienza sociale che caratterizza la modernità. Il crollo delle
strutture metafisiche classiche e medievali, e la secolarizzazione
dell’esperienza che ne è conseguita, hanno abbassato il baricentro della
condizione umana dal cielo alla terra: un tempo incentrato sul mondo
divino e sul perseguimento di valori trascendenti, l’interesse degli
esseri umani si è ormai fissato esclusivamente sul mondo sociale.
L’investimento esistenziale nella dimensione intersoggettiva è
direttamente proporzionale al grado di secolarizzazione dell’esperienza
storica: «Dieu est mort, c’est à l’homme de prendre sa place. […] La
négation de Dieu ne supprime pas la transcendance mais elle fait dévier
celle-ci de au-delà vers l’en deçà» (MR, 73 e 75). Dal momento che gli dei hanno abbandonato il mondo, ogni ricerca di assoluto, di trascendenza, ogni richiesta di senso,
deve necessariamente fissarsi sugli altri esseri umani. Sono loro a
conferire valore all’esistenza di chi non può più trovare
giustificazione altrove: gli uomini sono diventati dèi gli uni per gli altri, la formula folgorante che dà titolo al secondo capitolo di Mensonge romantique[7],
può essere considerata un’originale reinterpretazione della tesi di
Émile Durkheim che paragona la società a Dio, e che identifica i termini
del sacro e del sociale («A mesure que le ciel se dépeuple le sacre reflue sur la terre», MR,
78). Ma oltre a sostituire il divino con il sociale, l’avvento della
modernità ha allentato le strutture gerarchiche che contenevano le
pulsioni invidiose. In un mondo sociale rigidamente suddiviso in
«états», era impossibile che individui di condizioni e ambienti diversi
potessero sentirsi in competizione reciproca – come invece, secondo
Girard, è diventato abituale con il trionfo della società democratica.
Con la fine dell’Ancien Régime, per effetto di una crescente mobilità
sociale, l’invidia si è scatenata senza freni in ogni direzione,
diventando l’affetto dominante della psiche, il più profondo, potente e
violento. L’uomo moderno è un uomo invidioso proprio in quanto è un homo aequalis.
In Mensonge romantique Girard
non deduce tutti i corollari che derivano dalla teoria della
divinizzazione del sociale conseguente alla secolarizzazione moderna.
Uno dei più importanti sarebbe l’emergere della questione del
riconoscimento, che pure è un tema suggerito nei numerosi riferimenti
impliciti a Kojève che costellano il saggio[8].
Il desiderio mimetico è infatti, indirettamente, anche un desiderio di
riconoscimento: è un desiderio di desiderio, lo slancio di una coscienza
che si volge verso l’alterità non solo per trascendersi e rinnegarsi,
ma anche per giustificarsi, per trovare conferma, tramite il desiderio
riflesso dell’altro, del proprio incerto valore. Tramite il desiderio di
riconoscimento il soggetto reagisce alla sensazione della propria
manchevolezza e cerca una giustificazione per la propria esistenza[9].
Questa ricerca di attestazione e di conferma, come ha mostrato
esemplarmente Charles Taylor, non può che crescere in modo esponenziale
nella società moderna, che ha fatto crollare il tradizionale sistema
degli ordini e stravolto le condizioni tradizionali di formazione
dell’identità individuale: la dipendenza dagli altri è certo sempre
esistita, ma solo con la modernità è diventata un problema e l’oggetto
di una drammatica lotta[10]. Di conseguenza, colui che Girard chiama il mediatore si trova a disporre di un potere immenso sui suoi simili: il potere sacro
di riconoscerli o meno, di giustificarli emendandoli dalla loro
mancanza e conferendo un senso alla loro vita. L’altro cui l’uomo si
volge in cerca di riconoscimento è dunque un «dio dal volto umano» (MR, 78). Pierre Bourdieu riprenderà inconsapevolmente questa riflessione in una pagina delle sue Méditations pascaliennes,
riflettendo sul riconoscimento come potere di categorizzazione e
classificazione sociale che giustifica l’esistenza individuale:
Nul ne peut
proclamer vraiment, ni devant les autres, ni surtout devant lui-même,
qu’ «il se passe de toute justification». Or, si Dieu est mort, cette
justification, à qui la demander? A qui sinon au jugement des autres,
principe majeur d’incertitude et d’insécurité, mais aussi, et sans
contradiction, de certitude, d’assurance, de consécration[11].
Un’altra conseguenza della
divinizzazione del sociale è quella di fare del desiderio, e in
particolare del desiderio nella sua forma moderna, un «fenomeno
puramente sociale», ossia un fenomeno la cui ragione ultima
risiede nel rapporto sociale stesso, nella relazione tra il soggetto e
gli altri soggetti, e non tra il soggetto e le cose[12].
Non c’è desiderio moderno, secondo Girard, che non risponda cioè a
suggestioni imitativo-distintive e in cui il rapporto con l’oggetto non
passi da una mediazione sociale costitutiva. Assorbito dalla relazione
sociale, il desiderio perde ogni legame con l’immediatezza, la
spontaneità, la naturalità[13]: è sempre necessariamente mediato,
cioè sociale e «suggerito». Ora, quando i rapporti sociali prevalgono
su quelli oggettivi, scatta un meccanismo di de-oggettivazione o
de-sostanzializzazione della realtà, che agisce in proporzione allo
sviluppo ipertrofico dell’elemento soggettivo. Il senso comune
percepisce questa ipertrofia come uno spostamento dell’ordine naturale e
della finalità del desiderio che non si volge più al valore reale,
oggettivo delle cose, ma al loro valore sociale. La sensazione che i
fenomeni puramente sociali instaurino un rapporto distorto con la realtà
è molto diffusa e contribuisce a spiegare il biasimo che li circonda:
chi desidera qualcosa in funzione del valore che altri riconoscono alle
cose e non per il valore delle cose stesse ha un atteggiamento perverso.
Ma questa diffidenza morale potrebbe essere considerata anche come la
reazione a un effetto reale di «acosmismo» che si accompagna
necessariamente al moltiplicarsi delle mediazioni sociali: se la realtà
viene ridotta a una rete di rapporti intersoggettivi in cui gli oggetti
sono solo mezzi per raggiungere un mediatore, viene meno quel carattere
propriamente oggettuale della realtà che definiamo «mondo». Nel quadro
descritto da Girard, il mondo moderno, completamente de-oggettivato, in
cui esistono sono soggetti in tensione reciproca, e le cose sono solo
pretesti per raggiungere o comunicare con altri soggetti – simboli,
feticci, segnali di status – non è più propriamente un mondo. Sotto
questo aspetto, la tesi della divinizzazione del sociale difesa da
Girard ha con la visione della modernità criticata da Hannah Arendt in Vita Activa
un insospettabile e interessante punto di contatto: l’idea che, con la
modernità, il mondo sia scomparso, come fagocitato dalla dimensione
sociale.
3. Le affinità con l’antropologia agostiniana
Ma torniamo alle basi dell’antropologia
girardiana, che, ricondotta e ridotta al suo unico movente mimetico,
assume la sua caratteristica tonalità “noir”. L’identificazione tra
desiderio e invidia marchia il desiderio di una negatività che è
testimoniata, tra l’altro, dalla caratteristica natura disonorevole del
sentimento invidioso: l’invidia testimonia una carenza di essere che
umilia l’invidioso, ed è per questo che si distingue come il «peccato
più difficile da confessare»[14].
Nata da un senso di mancanza e dunque marchiata dal suo rapporto con il
nulla, l’invidia è negativa anche per i distruttivi suoi effetti
sociali, essendo indissociabile dalla rivalità e dalla violenza
suggerite dalle varie etimologie della parola: invidere significava in origine guardare l’altro obliquamente, gettare il malocchio, mentre un’altra derivazione, da invitare,
sembra alludere all’esito di questa tensione: lanciare la sfida,
invitare alla contesa. Va ricordato inoltre che, secondo la teoria
girardiana, mediazione e violenza non si limitano a inquinare le
relazioni esterne tra gli esseri umani, ma si insinuano all’interno
delle loro coscienze condizionando le forme della soggettivazione.
Urtando contro l’ostacolo esterno rappresentato dal rivale, il desiderio
mimetico si riflette reattivamente all’interno dell’io. Diventa ri-sentimento,
che a poco a poco matura nell’odio di sé: «Le mot ressentiment souligne
le caractère de réaction, de choc en retour qui caractérise
l’expérience du sujet dans ce type de médiation. L’admiration passionnée
et la volonté d’émulation butent sur l’obstacle injuste, en apparence,
que le modèle oppose à son disciple et retombent sur ce dernier sous
forme de haine impuissante, provoquant ainsi l’espèce
d’auto-empoisonnement psychologique qu’a sin bien décrit Max Scheler» (MR,
125). Anche per questo effetto di auto-avvelenamento, la cui natura
autodistruttiva è stata potentemente descritta e denunciata da
Nietzsche, la filosofia morale ha sempre riconosciuto nell’invidia la
«passione triste» per antonomasia.
Già la centralità del tema dell’invidia,
non a caso definita spesso da Girard come un «peccato», basterebbe a
conferire all’antropologia di Mensonge romantique un
riconoscibile alone cristiano. In generale, prima ancora che entrasse in
causa la vera e propria conversione religiosa dell’autore, la teoria
mimetica aveva già percorso tutta una serie di topoi teologici:
il tema dell’insufficienza dell’uomo a se stesso, quello della sua
tensione verso un’alterità sola capace di conferire un senso alla sua
esistenza, quello, infine, della sua alienazione. Non è solo la teoria
della secolarizzazione moderna ma è una filosofia morale della storia
fondata sul mito della «caduta» e dell’allontanamento da Dio a
giustificare infatti l’altrimenti incomprensibile tendenza degli uomini a
divinizzare i loro simili per appagare un desiderio metafisico di
assoluto. Il desiderio mimetico è il prodotto di una perversa deviazione
della coscienza da quello che dovrebbe essere il suo unico e autentico
fine, Dio, come Girard afferma esplicitamente in un brano di Mensonge romantique:
De cette vérité
suprême qu’illustrent, implicitement ou explicitement, toutes les œuvres
romanesques géniales, nous emprunterons la formule abstraite de Louis
Ferrero: “La passion est le changement d’adresse d’une force que le christianisme a réveillée et orientée vers Dieu” (MR, 75).
Possiamo dunque rileggere l’antropologia
mimetica come una versione secolarizzata della condizione umana che, in
termini teologici, si definisce «postlapsaria», posteriore cioè al
peccato originale. Al pari dei teologi cristiani, Girard concepisce la
natura umana secondo un modello teleologico, orientato verso la
trascendenza, che si presenta in due modalità essenziali:
De même que la
perspective à trois dimensions oriente toutes les lignes d’un tableau
vers un point déterminé, situé soit «en arrière», soit «en avant» de la
toile, le christianisme oriente l’existence vers un point de fuite, soir
vers Dieu, soit vers l’Autre. Choisir, c’est toujours se
choisir un modèle et la liberté véritable se situe dans l’alternative
fondamentale entre modèle humain et modèle divin (MR, 75).
Quando la coscienza fa la scelta
sbagliata, e rinuncia alla meta divina, subentra l’alienazione, la
caduta verso il mondo terreno degli uomini. Il desiderio metafisico per
l’altro uomo nasce come sostituzione peccaminosa del modello umano a
quello divino.
In realtà, più che una generica visione
religiosa, la teoria mimetica si richiama a una precisa versione
teologica del cristianesimo, quella agostiniana. Girard ha riconosciuto
apertamente questa affinità giungendo addirittura a dichiarare nel
dialogo con Michel Treguer «Tout ce que j’ai dit est dans Saint
Augustin»[15].
Ma oltre che frutto di letture dirette il suo debito sembra più
largamente culturale: l’agostinismo, che si è diffuso nella cultura
francese moderna attraverso la mediazione di Pascal e dei moralisti
prossimi all’ambiente giansenista, come La Rochefoucauld, ha esercitato
un’impressionante influenza a lunga durata sulla filosofia, la
letteratura, la psicologia, e persino la sociologia francesi[16].
Nella cultura degli anni Quaranta in cui Girard si è formato molti di
questi motivi erano stati rilanciati dall’esistenzialismo[17].
Del modello antropologico agostiniano,
la teoria mimetica conserva i tratti essenziali, a cominciare dalla
fenomenologia dell’invidia, incarnata nella celebre scena delle Confessiones,
molto amata da Girard, dei due poppanti che si guardano lividamente di
traverso per paura di perdere il latte della nutrice. Ad Agostino e
all’agostinismo possono essere ricondotti anche i temi della mancanza
ontologica che insidia costitutivamente la natura umana, della violenza
intrinseca al mondo umano, del peccato originale, dell’odio che l’uomo
proverebbe per se stesso (trasmesso alla modernità tramite il «moi
haïssable» di Pascal), e, non da ultimo, il metodo stesso dell’analisi
antropologica: lo sguardo spietatamente realistico e demistificante con
cui Girard studia la psicologia si riallaccia al dualismo che, dopo la
caduta, ha separato radicalmente la natura e la grazia. La ragione per
cui l’immagine della natura umana descritta dagli agostiniani risulta
così cupa è disperata dipende soprattutto dal fatto che si tratta di una
natura decaduta, diminuita, abbandonata dalla grazia divina che sola
può conferire pienezza alle esperienze e ai rapporti umani.
L’assimilazione da parte di Girard del
paradigma agostiniano comporta ovviamente alcune trasformazioni. Ciò che
Girard chiama desiderio mimetico, Agostino lo definiva amore,
distinguendone due forme fondamentali: l’amor Dei, slancio della coscienza verso la trascendenza autentica, verticale, di Dio; e l’amor sui (amour-propre nella
versione agostiniana francese), che devia invece il desiderio di
trascendenza in direzione orizzontale, verso il mondo umano. La
distinzione girardiana tra mediazione esterna e mediazione interna
riproduce chiaramente questo modello, come attestato da una
significativa dichiarazione di Mensonge romantique:
L’élan de l’âme
vers Dieu est inséparable d’une descente en soi-même. Inversement, le
repli de l’orgueil est inséparable d’un mouvement panique vers l’Autre. On pourrait dire, en retournant la formule de saint Augustin, que l’orgueil nous est plus extérieur que le monde extérieur (MR, 75).
Qui Girard introduce uno sviluppo
originale, quella dell’autenticità del rapporto con se stessi che deriva
dall’autenticità del rapporto con Dio, e dell’inevitabile corruzione
che invece interviene nei rapporti sociali quando questi sono alienati
dal fondamento divino. Anche questo è un tema interpretabile alla luce
della tradizione agostiniano-giansenistica, secondo la quale solo la
carità legittima le forme umane dell’amore: solo amando Dio l’uomo
appropriatamente, secondo giustizia, se stesso e i suoi simili. Ma a
rendere questo brano ancora più significativo è il fatto che Girard
associ esplicitamente l’antropologia romanzesca — nello specifico quella
della Recherche proustiana — alla psicologia dell’amour-propre,
passione che è al centro di tutta l’antropologia agostiniana moderna, e
che rappresenta la causa ultima del «cambiamento di indirizzo» che
coincide con l’alienazione:
C’est cette
extériorité de l’orgueil qu’illustrent, magnifiquement, tous le
romanciers, chrétiens et non chrétiens. Proust affirme, dans Le Temps retrouvé, que l’amour-propre nous fait vivre «détournés de nous-même», et il associe à plusieurs reprises ce même amour-propre à l’esprit d’imitation (MR, 75).
Il concetto di amour-propre,
cuore della pessimistica visione agostiniana dell’uomo, e del suo
rapporto con la storia della salvezza e con il concetto di male, si
rivela essere anche il baricentro dell’antropologia mimetica.
Note
[1] Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961 (d’ora in poi abbreviato MR e seguita dal numero di pagina).
[2] G. Tarde, Le leggi dell’imitazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 2012.
[3] Cfr. H. Schoeck, L’invidia e la società, Macerata, Liberilibri, 2006 (ed. tedesca originale 1980); E. Pulcini, Invidia: la passione triste, Bologna, Il Mulino, 2011.
[4] La lingua francese, definendo envie
tanto il desiderio in quanto tale quanto quello specificamente
rivalitario, asseconda l’identificazione, a differenza ad esempio di
quella italiana, in cui desiderio e invidia indicano due fenomeni ben distinti.
[5] Cfr. R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, recherches avec J.-M. Oughourlian et G. Lefort, Paris, Grasset, 1978, cap. III.
[6]
Girard ha sempre rifiutato l’etichetta di riduzionista, rivoltagli in
più occasioni dai suoi critici (così nell’introduzione di A Theater of Envy).
Difficilmente però si può qualificare altrimenti un’antropologia che,
per sua esplicita ammissione, riconduce tutti i comportamenti umani a
queste uniche caratteristiche: la mediazione sociale e la violenza. Al
realismo riduzionistico si può opporre il realismo pluralistico di
tradizione aristotelica, che insiste al contrario sulla necessità di
rispettare la complessità dell’esperienza umana. In questa prospettiva,
il compito del realismo non consiste tanto nel cogliere un solo fenomeno
fondamentale originario (l’amor-proprio, l’interesse economico, la
volontà di potenza, il desiderio invidioso…) ma di rendere conto di
tutti i fenomeni umani fondamentali, rispettando la loro pluralità e
irriducibilità. Anche il realismo aristotelico ha trovato delle
applicazioni nella teoria letteraria (ad esempio in Martha Nussbaum), e
può essere considerato un modello alternativo a quello di Girard.
[7]
Formula che, secondo Girard, sarebbe fraintesa dai falsi profeti
umanistici, che non ne colgono l’ironia: «Ils croient annoncer le
paradis mais c’est de l’enfer qu’ils parlent» (MR, 78).
[8] In particolare il capitolo IV intitolato Le maître et l’esclave.
[9] Giustificazione, concetto dall’origine teologica, è diventato non a caso sinonimo di riconoscimento all’interno dell’attuale dibattito di scienza sociale. Cfr. L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification: les économies de la grandeur, Paris, Gallimard, 1991; P. Bourdieu, Méditations pascaliennes, Paris, Seuil, 1997, pp. 340-344 («La question de la justification»).
[10] Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1999.
[11] P. Bourdieu, Méditations pascaliennes, cit., pp. 340-341.
[12]
Al modello triangolare si potrebbe opporre infatti quello a linea
retta, di cui è illustrazione esemplare la teoria di Rousseau, che
concepisce il desiderio come un affetto in cui la voce della natura si
esprime senza alcuna preoccupazione per la società, congiungendo immediatamente
il soggetto all’oggetto. Un altro modello alternativo è quello di
Deleuze che pensa il desiderio come una potenza che esprime una forma di
positiva spontaneità ontologica.
[13]
Ne sono due esempi paradigmatici la moda o lo snobismo, fenomeni al
centro dell’attenzione girardiana. Girard in particolare considera lo
snobismo come l’unica passione moderna che non dissimuli il meccanismo
mimetico, e interpreta l’opera di Proust alla luce di uno snobismo
universale e da caratteri ossessivi. Sul concetto di fenomeno puramente
sociale, si vedano G. Simmel, La moda, in Ventura e sventura della modernità, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 486 ss.; E. Van Den Haag, Snobbery, in «The British Journal of Sociology», Vol. 7, No. 3, 1956, pp. 214-215.
[14] R. Girard, A Theater of Envy, cit., p. 11.
[15] Girard lo afferma in Quand ces choses commenceront, entretiens avec Michel Treguer, Paris, Arléa, 1994. In interventi successivi Girard definirà la frase una boutade, senza però smentire l’idea che l’antropologia agostiniana sia in sintonia profonda con l’antropologia mimetica.
[16] Per un’idea complessiva dell’antropologia agostiniana e della sua persistenza nell’antropologia moderna, si veda J. Lafond, Augustinisme et épicureisme au XVIIe siècle in L’homme et son image. Morales et littérature de Montaigne à Mandeville,
Honoré Champion, Paris 1996. Un confronto tra Girard e Agostino sul
tema della violenza, attraverso la mediazione di Raymund Schwager, in W.
Palaver, La celata distanza di Girard dalla moderna ontologizzazione della violenza, Studi perugini, (2000) V, numero 10, pp. 191-203.
[17] In Mensonge romantique
sono frequenti riferimenti a Sartre, e compaiono brani che
reinterpretano suggestioni agostiniane nel suo caratteristico
linguaggio: «Les hommes qui ne peuvent regarder la liberté en face sont
exposés à l’angoisse. Ils cherchent un point d’appui où fixer leurs
regards. Il n’y a plus ni Dieu, ni roi, ni seigneur pour les relier à
l’universel. C’est pour échapper au sentiment du particulier quel es
hommes désirent selon l’Autre; ils choisissent des dieux de rechange car ils ne peuvent pas renoncer à l’infini» (MR, 82).
Una versione più elaborata di questa relazione, ripresa dal sito LE PAROLE E LE COSE, è stata pubblicata sulla rivista «Tropos», VI, 2013, nel numero speciale Mimesis e Anerkennung . La teoria mimetica in lotta per il riconoscimento, a cura di Emanuele Antonelli.
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