Gli occhiali di Antonio Gramsci appoggiati su una
sua lettera al fratello Carlo
Antonio Gramsci (1891-1937)
Il testo pubblicato in questa pagina, ripreso dall'odierno Corriere della Sera,
è una sintesi della lectio che Luciano Canfora terrà a Milano il 12 dicembre,
nell’ambito del convegno internazionale «Leggere in Europa (XVIII-XXI secolo)».
L’incontro, che proseguirà anche il giorno 13, si svolgerà presso la Sala
Napoleonica di via Sant’Antonio 12: lo organizza il Centro Apice
dell’Università Statale, diretto da Lodovica Braida, che raccoglie e valorizza
archivi di editori e autori (www.apice.unimi.it).
Gramsci sulle orme di Fozio
di
LUCIANO CANFORA
«Vorrei avere questi libri: 1° la
Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso; 2° il Breviario
di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al
letto; 3° gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di
pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato».
È Antonio Gramsci che scrive a
Chiara Passarge, sua padrona di casa a Roma (via G.B. Morgagni 25), pochi
giorni dopo l’arresto, avvenuto a Roma l’8 novembre 1926. In quel momento, sul
fondamento dell’assoluta illegittimità del suo arresto, Gramsci è portato a
pensare che resterà in carcere solo per breve tempo. Scrive infatti, poco oltre nella stessa lettera: «Se la
mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo, credo ella debba ritenere
libera la stanza e disporne». Anche sua cognata Tania Schucht era convinta che
l’inverosimile arresto fosse di breve durata: e così scrisse in famiglia a
Mosca. La lettera in cui essa così si esprime è stata pubblicata in anni
recenti.
La lettera di Gramsci alla Passarge
non giunse mai a destinazione perché sequestrata dalla polizia. Perciò quei tre
libri non poté averli. Dopo vicende che sono ormai ben
note (confino ad Ustica, nuovo arresto e trasferimento «ordinario» a San
Vittore a Milano, «processone» durante il quale Gramsci è a Regina Coeli,
condanna a 20 anni di carcere nel giugno 1928, trasferimento definitivo a Turi
di Bari), Gramsci poté, non senza incontrare resistenze politico-burocratiche,
domandare penna, calamaio, e libri di studio. A parte la disponibilità dei
libri — spesso inutili o bizzarri — della biblioteca delle varie carceri in cui
fu ristretto. Fu una vera e propria lotta, nel corso della quale Gramsci non
esitò a scrivere direttamente al «capo del governo», cioè a Mussolini, lettere
argomentate e vigorose per difendere il diritto alla lettura. Una battaglia
alla quale dobbiamo la nascita dei Quaderni del carcere.
In una lettera alla moglie del 2
maggio 1927 (dal 9 febbraio era ristretto a San Vittore e in marzo delinea un
programma di studio, il celebre für ewig) scrive di aver letto «ottantadue libri» della bizzarra
biblioteca carceraria e di avere con sé «una certa quantità di libri miei, un
po’ più omogenei, che leggo con più attenzione e metodo. Inoltre leggo cinque
giornali al giorno e qualche rivista». Ancora: «Studio il tedesco e il russo e
imparo a memoria, nel testo, una novella di Puškin, la Signorina-contadina».
Ma — commenta — «mi sono accorto che, proprio al contrario di quanto avevo
sempre pensato, in carcere si studia male, per tante ragioni, tecniche e
psicologiche».
Le liste dei libri, opuscoli,
riviste, di cui Gramsci poté via via disporre negli anni di detenzione (dalla
condanna definitiva del giugno 1928 al trasferimento in clinica a Formia il 7
dicembre 1933; dall’ottobre 1934 egli è in libertà «condizionale») sono state pubblicate, dapprima in un bel saggio di
Giuseppe Carbone (sulla rivista «Movimento operaio», luglio-agosto 1952) e poi
in appendice al IV volume dell’edizione paleografica dei Quaderni del
carcere a cura di Valentino Gerratana (Einaudi, 1975). Celebri sono gli
episodi del settembre 1930 e dell’ottobre 1931, quando, da Turi, Gramsci scrive
reiteratamente a Mussolini e non solo critica le limitazioni arbitrarie alla
lettura, ma chiede — e ottiene — un’ampia serie di volumi, che vanno — nel 1930
— dal Satyricon di Petronio al volume di Fülop-Müller sul bolscevismo
all’Autobiografia di Trotskij, e — nel 1931 — da «Critica fascista» a
«Civiltà cattolica», da «Labour Monthly» alla «Nouvelle Revue Française», dalle
opere complete di Marx ed Engels (edizione francese) alle Lettere di Marx a
Kugelmann con prefazione di Lenin. Opere che tutte si ritrovano sia nella lista
ricostruita da Carbone (p. 669) che in quella di Gerratana (pp. 3.062-3.063).
Gramsci era dotato di una notevolissima
memoria, ed è istruttivo osservare come la esercitasse per esempio mandando a
mente novelle di Puškin. (i
pedagogisti del nostro tempo inorridiscano pure nella loro infantile ostilità
allo sforzo mnemonico). Ma è evidente che solo l’accesso ad una così grande
quantità di libri e riviste (ne abbiamo citato solo una minima parte) poté
render possibile il grande lavoro dei Quaderni, le cui pagine partono
molto spesso da uno spunto di lettura. Che si possa lavorare scientificamente
in assenza di libri e fondandosi unicamente su ciò che si ha ancora in mente è
un mito. È leggenda, ad esempio, che Diderot, incarcerato nel castello di
Vincennes, abbia tradotto la platonica Apologia di Socrate perché ne
ricordava a memoria il testo. Del resto, lo stesso Diderot scrivendo, anni dopo
(1762) a Sophie Volland, dirà: «Avevo con me il mio Platone tascabile».
Il più grande intellettuale del IX secolo, il
patriarca Fozio, pur ristretto in cattività perché deposto e condannato su
impulso dell’imperatore Basilio I in quel momento incline a dare un’offa a l
papa di Roma, non si arrende e denuncia, scrivendo all’imperatore, la confisca
dei libri che lui e la sua cerchia leggevano e sistematicamente chiosavano.
La sua lettera all’imperatore ci è giunta e si può considerare un remoto
antecedente delle lettere del detenuto Gramsci a Mussolini. Anche Basilio
dovette accondiscendere, almeno in parte, alla richiesta del grande detenuto. E
dalla resti-tuzione a lui di una parte almeno dei materiali che la «cerchia»
aveva prodotto nacque il più importante, ancorché labirintico al pari dei Quaderni
gramsciani, libro del Medioevo greco: la cosiddetta Biblioteca di Fozio.
Corriere della Sera, 7 dicembre 2016
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