08 aprile 2014

LA PASSIONE DI GESU' NELL'ARTE ITALIANA



Un maestro della pittura veneta e il suo capolavoro restaurato in mostra a Brera.

Chiara Vanzetto

Bellini. Variazioni sul Cristo

Il confronto con un’icona sacra che riflette il dolore dell’uomo Novità, confronti, riflessioni su un tema chiave della Pasqua, credenti o non credenti poco importa, l’arte parla a tutti: quello della «imago pietatis» o «Cristo in pietà», l’immagine di Gesù morto ed eretto, occhi chiusi e braccia abbandonate, accompagnato dagli angeli, da Maria, o da Maria con San Giovanni Evangelista.

Un soggetto sacro approfondito oggi dalla Pinacoteca di Brera con una rassegna preziosa, coprodotta da Skira e sostenuta da Fondazione Cariplo, che lo contestualizza nel XV secolo in area veneta: titolo «Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica», curatela di Sandrina Bandera, Matteo Ceriana, Keith Christiansen, Emanuela Daffra, Andrea De Marchi e Mariolina Olivari. Fulcro della piccola esposizione, in tutto 26 opere tra manoscritti, disegni, bassorilievi e dipinti, la meravigliosa Pietà belliniana di Brera, recuperata in tutti i suoi straordinari valori espressivi e linguistici dal recente restauro.

Punto di partenza per ricostruire la carriera del pittore negli anni 1450/60 e per farlo dialogare con pezzi coevi dello stesso soggetto, molto diffuso nel territorio veneziano già dal ‘300. «Quest’opera segna una nuova stagione della pittura veneta, quella della rappresentazione dei sentimenti — spiega Sandrina Bandera —. Che non nasce in modo naturale ma attraverso il filtro della cultura classica, la conoscenza della poesia elegiaca antica, nota in Veneto già dai tempi di Francesco Petrarca».

Fondamentale per comprendere questo legame la scritta con la firma apposta da Bellini al dipinto: un distico delle «Elegie» del poeta latino Properzio, seconda metà del I secolo a.C., in cui si parla di «occhi gonfi di pianto». Verso che il pittore fa suo, partecipando al dolore della morte a cui assiste e coinvolgendovi l’osservatore. Verso che ci racconta il fil rouge che unisce Bellini ai più colti ambienti veneziani, documentato in mostra da due manoscritti d’epoca: un’edizione di Properzio della Libreria Marciana, del 1453, e un testo dell’umanista veneto Zovenzoni, anno 1474, dove il ritratto miniato dell’autore, attribuito a Bellini, dimostra la reciproca conoscenza.

Anche la presenza del paesaggio, sottolinea Bandera, è un elemento di novità ispirato alla poesia classica latina. Un paesaggio limpidissimo, che grazie al restauro recente ha recuperato i toni freddi della tavolozza originaria: struggente grazie alla luce del tramonto e del giorno che muore, in sintonia con il tema rappresentato. Tema centrale per Bellini, che lo ripropone in molte versioni di uso devozionale e per l’area veneta, come dimostra la selezione di opere che circonda il dipinto belliniano.
Mantegna, Disegno
Il punto di origine viene identificato da una icona del XIV secolo di gusto bizantino, la Madre tragicamente stretta al Figlio come in Bellini. Fondamentale poi l’apporto di Donatello e della sua scuola, presente con una bassorilievo marmoreo padovano, e quello di Mantegna, di cui Giovanni era cognato.

«Un rapporto alla pari tra due geni, uno scambio fruttuoso per entrambi: Mantegna si addolcisce, Bellini invece scava nelle asprezze mantegnesche e le fa sue», spiega Mariolina Olivari. Asprezze che il restauro ha restituito appieno alla «Pietà» braidense. Avendo eliminato, prosegue Olivari, alcuni piccoli e sapienti tocchi ottocenteschi, dovuti al restauro di Giuseppe Molteni, anno 1864, che ne avevano reso la lettura più dolce del vero.

Di Mantegna si vede esposta la meravigliosa cimasa della Pala Pesaro dei Musei Vaticani, dove, come nota Bandera, «si arricchisce il tema dei legami affettivi e della misericordia, strumento attraverso cui Cristo vive ancora in mezzo a noi». Di Mantegna anche un pezzo molto raro, un disegno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, accostato a due disegni belliniani di altrettanto pregio, in prestito da Londra e da Rennes: nell’immediatezza della grafica, rappresentano tutti l’abbraccio di Maria al Cristo, meditazioni commoventi e dirette che toccano le corde più profonde del dramma. A far da corona altri dipinti di grande interesse, come le versioni date da Marco Zoppo e Giorgio Schiavone, entrambi allievi con Mantegna della scuola squarcionesca di Padova. O ancora la rilettura che dà del tema Carlo Crivelli nella lunetta dell’«Incoronazione della Vergine» di Brera.
Madonna del Magistrato

 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 A chiudere l’esposizione un capolavoro poco noto di Giovanni Bellini, la «Madonna del Magistrato da Mar» delle Gallerie dell’Accademia. Che racchiude in sé entrambi i temi più cari all’autore: la «Pietà» e la rappresentazione della Madonna. Perché il Bambino che la Vergine tiene sulle ginocchia non dorme come appare ma è morto. Con il piccolo braccio abbandonato, ispirato alle rappresentazioni classiche della «Morte di Meleagro», prefigura già nell’infanzia il futuro sacrificio di Cristo per la salvezza dell’uomo.
Il Corriere della sera – 8 aprile 2014

Carlo Bertelli

Aggiunse colline e persone al Gesù solitario bizantino
Per lunghi mesi, attraverso i gesti misurati dei tre restauratori, chiusi nella gabbia di vetro in una sala di Brera, abbiamo visto sorgere nella tavola di Giovanni Bellini la luce livida dell’alba, osservare il fiume gonfio di pioggia che lambisce la collina alle spalle della Madonna.

È stata un’operazione delicata e difficile. Il dipinto proviene da una delle più prestigiose collezioni di Bologna, la raccolta Sampieri, di dove è giunto insieme ai capolavori di Guido Reni, Annibale Carracci, Guercino, con le loro sontuose cornici dorate. Come in tutte le collezioni di antica data, anche in questa le cure erano soprattutto consistite in coprire il dipinto con colle e vernici, che col tempo si erano ulteriormente scurite.

A queste difficoltà, dovute alla storia del dipinto, altre se ne aggiungevano che dipendevano dalla costituzione stessa della scena. Nella tradizione bizantina era consolidata la rappresentazione del Cristo morto in piedi sul sarcofago. Egli era il Re della Gloria, vivente malgrado la crocifissione e la deposizione. Le braccia conserte coprivano il suo costato, l’inverosimiglianza della sua posa eretta invitava alla meditazione e alla preghiera. In un dipinto di qualche anno prima, conservato al Museo Poldi Pezzoli, Giovanni Bellini aveva ripetuto fedelmente lo schema bizantino, ma aggiungendovi il paesaggio di sfondo, che da all’immagine l’aspetto di un’apparizione.

Nella Pietà di Brera affiora appena il ricordo di questa iconografia più antica. Cristo non è più solo. Il volto della Madre è accostato al suo e i due formano un solo blocco, dove l’angoscia materna non arriva a comunicare col Figlio, ormai uscito dal mondo degli uomini. Un terzo personaggio, il fedele discepolo Giovanni, è entrato nella composizione,come già era avvenuto con Filippo Lippi, il pittore fiorentino che aveva operato a Padova. Altri due importanti cambiamenti sono avvenuti nel caso di Brera rispetto alla tavola del Poldi Pezzoli.

Il braccio sinistro del Cristo si scioglie dall’abbraccio di Maria e ricade con tutto il peso sull’orlo del sarcofago, che sulla fronte accoglie un’iscrizione latina derivata dal poeta latino del secolo di Augusto Properzio, che suona così: questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, questa opera di Bellini potrà spargere lacrime. Mentre l’iscrizione capitale e il nome dell’autore reificano l’immagine, questa a sua volta è dotata di propri sentimenti. Il mondo bizantino della contemplazione ha trovato qui una giustificazione umanistica.


Il Corriere della sera – 8 aprile 2014

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