Un maestro della
pittura veneta e il suo capolavoro restaurato in mostra a Brera.
Chiara Vanzetto
Bellini.
Variazioni sul Cristo
Il
confronto con un’icona sacra che riflette il dolore dell’uomo
Novità, confronti, riflessioni su un tema chiave della Pasqua,
credenti o non credenti poco importa, l’arte parla a tutti:
quello della «imago pietatis» o «Cristo in pietà»,
l’immagine di Gesù morto ed eretto, occhi chiusi e braccia
abbandonate, accompagnato dagli angeli, da Maria, o da Maria
con San Giovanni Evangelista.
Un soggetto
sacro approfondito oggi dalla Pinacoteca di Brera con una
rassegna preziosa, coprodotta da Skira e sostenuta da
Fondazione Cariplo, che lo contestualizza nel XV secolo in area
veneta: titolo «Giovanni Bellini. La nascita della pittura
devozionale umanistica», curatela di Sandrina Bandera, Matteo
Ceriana, Keith Christiansen, Emanuela Daffra, Andrea De Marchi
e Mariolina Olivari. Fulcro della piccola esposizione, in tutto
26 opere tra manoscritti, disegni, bassorilievi e dipinti, la
meravigliosa Pietà belliniana di Brera, recuperata in tutti i
suoi straordinari valori espressivi e linguistici dal recente
restauro.
Punto di partenza
per ricostruire la carriera del pittore negli anni 1450/60 e
per farlo dialogare con pezzi coevi dello stesso soggetto,
molto diffuso nel territorio veneziano già dal ‘300.
«Quest’opera segna una nuova stagione della pittura veneta,
quella della rappresentazione dei sentimenti — spiega
Sandrina Bandera —. Che non nasce in modo naturale ma
attraverso il filtro della cultura classica, la conoscenza
della poesia elegiaca antica, nota in Veneto già dai tempi di
Francesco Petrarca».
Fondamentale
per comprendere questo legame la scritta con la firma apposta
da Bellini al dipinto: un distico delle «Elegie» del poeta
latino Properzio, seconda metà del I secolo a.C., in cui si
parla di «occhi gonfi di pianto». Verso che il pittore fa
suo, partecipando al dolore della morte a cui assiste e
coinvolgendovi l’osservatore. Verso che ci racconta il fil
rouge che unisce Bellini ai più colti ambienti veneziani,
documentato in mostra da due manoscritti d’epoca: un’edizione
di Properzio della Libreria Marciana, del 1453, e un testo
dell’umanista veneto Zovenzoni, anno 1474, dove il ritratto
miniato dell’autore, attribuito a Bellini, dimostra la
reciproca conoscenza.
Anche la presenza
del paesaggio, sottolinea Bandera, è un elemento di novità
ispirato alla poesia classica latina. Un paesaggio
limpidissimo, che grazie al restauro recente ha recuperato i
toni freddi della tavolozza originaria: struggente grazie alla
luce del tramonto e del giorno che muore, in sintonia con il
tema rappresentato. Tema centrale per Bellini, che lo ripropone
in molte versioni di uso devozionale e per l’area veneta,
come dimostra la selezione di opere che circonda il dipinto
belliniano.
Mantegna, Disegno |
Il punto di origine
viene identificato da una icona del XIV secolo di gusto
bizantino, la Madre tragicamente stretta al Figlio come in
Bellini. Fondamentale poi l’apporto di Donatello e della sua
scuola, presente con una bassorilievo marmoreo padovano, e
quello di Mantegna, di cui Giovanni era cognato.
«Un rapporto
alla pari tra due geni, uno scambio fruttuoso per entrambi:
Mantegna si addolcisce, Bellini invece scava nelle asprezze
mantegnesche e le fa sue», spiega Mariolina Olivari. Asprezze
che il restauro ha restituito appieno alla «Pietà»
braidense. Avendo eliminato, prosegue Olivari, alcuni piccoli e
sapienti tocchi ottocenteschi, dovuti al restauro di Giuseppe
Molteni, anno 1864, che ne avevano reso la lettura più dolce
del vero.
Di Mantegna si vede
esposta la meravigliosa cimasa della Pala Pesaro dei Musei
Vaticani, dove, come nota Bandera, «si arricchisce il tema dei
legami affettivi e della misericordia, strumento attraverso cui
Cristo vive ancora in mezzo a noi». Di Mantegna anche un pezzo
molto raro, un disegno delle Gallerie dell’Accademia di
Venezia, accostato a due disegni belliniani di altrettanto
pregio, in prestito da Londra e da Rennes: nell’immediatezza
della grafica, rappresentano tutti l’abbraccio di Maria al
Cristo, meditazioni commoventi e dirette che toccano le corde
più profonde del dramma. A far da corona altri dipinti di
grande interesse, come le versioni date da Marco Zoppo e
Giorgio Schiavone, entrambi allievi con Mantegna della scuola
squarcionesca di Padova. O ancora la rilettura che dà del tema
Carlo Crivelli nella lunetta dell’«Incoronazione della
Vergine» di Brera.
Madonna del Magistrato |
A chiudere l’esposizione un capolavoro poco noto di Giovanni Bellini, la
«Madonna del Magistrato da Mar» delle Gallerie
dell’Accademia. Che racchiude in sé entrambi i temi più
cari all’autore: la «Pietà» e la rappresentazione della
Madonna. Perché il Bambino che la Vergine tiene sulle
ginocchia non dorme come appare ma è morto. Con il piccolo
braccio abbandonato, ispirato alle rappresentazioni classiche
della «Morte di Meleagro», prefigura già nell’infanzia il
futuro sacrificio di Cristo per la salvezza dell’uomo.
Il Corriere della sera
– 8 aprile 2014
Carlo Bertelli
Aggiunse
colline e persone al Gesù solitario bizantino
Per lunghi
mesi, attraverso i gesti misurati dei tre restauratori, chiusi
nella gabbia di vetro in una sala di Brera, abbiamo visto
sorgere nella tavola di Giovanni Bellini la luce livida
dell’alba, osservare il fiume gonfio di pioggia che lambisce
la collina alle spalle della Madonna.
È stata
un’operazione delicata e difficile. Il dipinto proviene da
una delle più prestigiose collezioni di Bologna, la raccolta
Sampieri, di dove è giunto insieme ai capolavori di Guido
Reni, Annibale Carracci, Guercino, con le loro sontuose cornici
dorate. Come in tutte le collezioni di antica data, anche in
questa le cure erano soprattutto consistite in coprire il
dipinto con colle e vernici, che col tempo si erano
ulteriormente scurite.
A queste
difficoltà, dovute alla storia del dipinto, altre se ne
aggiungevano che dipendevano dalla costituzione stessa della
scena. Nella tradizione bizantina era consolidata la
rappresentazione del Cristo morto in piedi sul sarcofago. Egli
era il Re della Gloria, vivente malgrado la crocifissione e la
deposizione. Le braccia conserte coprivano il suo costato,
l’inverosimiglianza della sua posa eretta invitava alla
meditazione e alla preghiera. In un dipinto di qualche anno
prima, conservato al Museo Poldi Pezzoli, Giovanni Bellini
aveva ripetuto fedelmente lo schema bizantino, ma aggiungendovi
il paesaggio di sfondo, che da all’immagine l’aspetto di
un’apparizione.
Nella Pietà di
Brera affiora appena il ricordo di questa iconografia più
antica. Cristo non è più solo. Il volto della Madre è
accostato al suo e i due formano un solo blocco, dove
l’angoscia materna non arriva a comunicare col Figlio, ormai
uscito dal mondo degli uomini. Un terzo personaggio, il fedele
discepolo Giovanni, è entrato nella composizione,come già era
avvenuto con Filippo Lippi, il pittore fiorentino che aveva
operato a Padova. Altri due importanti cambiamenti sono
avvenuti nel caso di Brera rispetto alla tavola del Poldi
Pezzoli.
Il braccio sinistro
del Cristo si scioglie dall’abbraccio di Maria e ricade con
tutto il peso sull’orlo del sarcofago, che sulla fronte
accoglie un’iscrizione latina derivata dal poeta latino del
secolo di Augusto Properzio, che suona così: questi occhi
gonfi quasi emetteranno gemiti, questa opera di Bellini potrà
spargere lacrime. Mentre l’iscrizione capitale e il nome
dell’autore reificano l’immagine, questa a sua volta è
dotata di propri sentimenti. Il mondo bizantino della
contemplazione ha trovato qui una giustificazione umanistica.
Il Corriere della sera –
8 aprile 2014
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