07 giugno 2014

LE LUNE DI CESARE ZAVATTINI



Le lune di Zavattini. Colloquio con Alfredo Gianolio

a cura di Mario Valentini

Con Alfredo Gianolio ci siamo frequentati spesso nel corso degli anni ’90, quando a Modena facevamo Il Semplice. Di recente ho ripreso contatto con lui per un articolo destinato a OOA, la rivista dell’Osservatorio Outsider Art di Palermo, in cui avevo pensato di parlare delle vite di artisti naif da lui raccolte e trascritte.
Gli ho rivolto diverse domande via mail, incentrate, oltre che sui pittori naif, sulle sue frequentazioni con Cesare Zavattini. Le ha eluse tutte, con la grazia e l’ironia che gli sono proprie da sempre, tirando fuori però un racconto di quei fatti che mi sembra bello.
Il racconto è uscito sul n. 7 di OOA (www.glifo.com) come pezzo autonomo, anticipando l’articolo per il quale sarebbe dovuto essere del semplice materiale di lavoro. (Fonte immagine)

Le risposte di Alfredo Gianolio

Il mio incontro con Cesare Zavattini fu casuale, dovuto al fatto che, verso il 1950, settimanalmente mi recavo presso la Camera del Lavoro di Luzzara dove si trovava il mio recapito di avvocato. Provenivo da Reggio Emilia, inizialmente con una “Lambretta” e quindi con una vecchia “Wolksvagen”, dal minuscolo lunotto anteriore, forse un residuato bellico, che incuriosiva i bambini, i quali si facevano ai margini delle strade al mio passaggio.
Segretario della Camera del lavoro era Mario Scardova, che, il giorno della Liberazione, fece il suo ingresso in Luzzara sopra un cavallo bianco tra due ali di popolo plaudente.
Mario Scardova (padre di Roberto, giornalista per molti anni della RAI) aveva in sé ben equilibrate le doti della fermezza e dell’equilibrio, poste al servizio dei braccianti che, lungo il Po e il Cavo Fiuma, lottavano strenuamente per poter strappare giornate di lavoro ai proprietari terrieri. Fu Mario Scardova a presentarmi a Cesare Zavattini, che aveva un appartamento sovrastante un bar recante il suo nome su un’elegante insegna, della quale – lui che era così riservato – si compiaceva perché gli ricordava l’impegno profuso dai suoi genitori proprio in quel bar, oltre che in un’osteria e in un forno. Nell’incontro che ebbi in quell’occasione la poesia e l’arte non c’entravano per nulla. Si trattava di scrivere una lettera raccomandata per una piccola e rara questione legale. Zavattini amava stare lontano dai tribunali. Ammise di aver interrotto all’Università di Parma gli studi di giurisprudenza non sentendosi di fare l’avvocato per non dire delle bugie.
Mi aveva raccontato Renato Bolondi, allora sindaco di Luzzara, che Zavattini non aveva il cuore in pace finché non avesse recuperato i mobili che erano appartenuti alla sua famiglia, mobili che erano andati dispersi dopo varie vicissitudini. Bolondi lo portò con la sua Cinquecento da ogni parte. Chiedevano a tutti, sbirciavano dalle finestre, allungavano il collo negli androni. Le speranze erano ormai svanite quando Cesare finalmente riconobbe, nella bottega di un artigiano, le spalliere del letto matrimoniale dei suoi genitori, letto dove lui era nato. Dietro le spesse lenti dei suoi occhiali si vedevano luccicare alcune lacrime. In segno di gratitudine disse a Bolondi: “Se vado nella luna, il primo che saluto sei tu!”.
I rapporti con Luzzara, specialmente all’inizio, non furono per lui facili. Lo consideravano una “testa matta” in quanto, come diceva il suo barbiere-poeta Guido Sereni, i luzzaresi erano convinti che si potesse fare fortuna soltanto col commercio del formaggio grana e dei suini. Avendo voluto seguire altre strade, ritenute impraticabili, era considerato un “figliol prodigo”.
Zavattini, per riconciliarsi definitivamente con Luzzara ebbe un’idea geniale. Bandì il concorso “Luzzara che ride”. La miglior storiella sarebbe stata premiata. La commissione giudicatrice era formata da grossi nomi: Orio Vergani, Raffaele Carrieri, Arturo Tofanelli, Guido Aristarco e Gianfranco Fusco. Furono esaminate ben 800 storielle. Ricordo che il cinema Gardinazzi era stipatissimo quando il primo ottobre 1956 Alberto Sordi lesse, dopo la proiezione del film neorealista “Il tetto”, le storielle prescelte.
Mi ero sentito fortunato perché avevo fatto parte di una ristretta schiera di amici luzzaresi di Zavattini che lo accoglievano quando giungeva da Roma. Gli incontri erano spesso conviviali e gastronomici. La conversazione non era circoscritta a questioni specialistiche, anche perché Zavattini non voleva fare della cultura un campo privilegiato per eletti, ma anzi intendeva che venisse il più possibile allargata, in quanto, come proclamò nel suo film “La veritàà”, la cultura di pochi aveva fallito.
Zavattini costruiva i suoi valori, letterari, poetici e pittorici, sull’eguaglianza, come condizione di partenza che non doveva essere negata ad alcuno, senza ammettere privilegi di scuola o di natura economica e sociale. Non sopportava le gerarchie, le rendite intellettuali precostituite. Ebbe anche lo scrupolo di non privilegiare Luzzara, tanto che, quando Paul Strand gli propose un libro di immagini e parole su un paese, avrebbe voluto chiudere gli occhi e indicare con un dito una località a caso sulla carta geografica.
Entrai nell’orbita culturale di Zavattini quasi inconsapevolmente, collaborando alle sue innumerevoli iniziative, non tutte condotte a termine, per essere sovrabbondanti e non sempre comprese.
“Un paese vuole conoscersi”, manifestazione progettata per Luzzara, fu realizzata a Sant’Alberto di Romagna. Una sorta di autocoscienza della popolazione locale che doveva estrarre dalle proprie case documenti, fotografie, dipinti, lettere e ogni altro elemento attraverso il quale ricostruire le vicende e i problemi economici e sociali dei loro luoghi in una visione dal basso. Ne scrissi su l’Unità del 18 aprile 1976.
Un’altra idea di Zavattini, già in dirittura di arrivo in quanto approvata dall’Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia, non fu realizzata per un divieto pervenuto dall’alto, dal Comitato burocratico di controllo. Non ritenne che, avendo carattere culturale, rientrasse “tra le finalità istituzionali della Provincia”. Si trattava del “Libro delle cento parole che fanno e disfanno il mondo”, libro che doveva entrare in ogni casa. La spiegazione del significato di ogni parola era affidata a note personalità. Ne cito alcune: Alberto Asor Rosa, Ignazio Butitta, Renzo Renzi, Franco Ferrarotti, Renato Barilli, Carlo Bernardini, Guido Aristarco, Nanni Scolari, Goffredo Parise, Alberto Moravia, Enzo Siciliano, Rossana Rossanda, Natalino Sapegno, Valentina Fortichiari, Emma Bonino, Alberto Arbasino, Rolando Cavandoli, Giorgio Bocca, Italo Calvino…
Io, una sorta di segretario, corrispondevo con Zavattini. Partecipai ad alcune riunioni presiedute dall’assessore prof. Giorgio Cagnolati. Il libro delle cento parole stava per essere varato, ma vi fu uno stop proveniente dall’alto. A nulla valse che fosse l’occasione per celebrare degnamente l’ottantesimo compleanno del grande Cesare.
Il mio rapporto con Zavattini fu molto intenso, starei per dire simbiotico, quando lo seguii nel mondo dei pittori naif, facendo anche parte, dal 1979, della Giuria del Premio nazionale che si celebrava a Luzzara alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno. Zavattini attribuiva alla nebbia un effetto magico e sembrava che essa, per i pericoli che rappresentava, anziché respingere, con il suo fascino attraeva molti visitatori, che giungevano anche da lontano. Una notte vi accompagnai da Reggio sulla mia Renault 5 lo scrittore, membro della giuria, Raffaele Crovi, arrivato in treno da Milano.
L’apprezzamento dei naif nasceva in Zavattini dal suo egualitarismo. Lo aveva dichiarato a Bruno Rovesti di Gualtieri in una sua trasmissione alla RAI: “Ti voglio dire che i naif sono degni di partecipare alle più grandi manifestazioni artistiche ufficiali, come la Biennale e la Quadriennale. Deve finire questa discriminazione che fa del naifismo uno specie di ghetto… Ci sono però tra i naif dei pittori che non valgono niente, ci sono gli imitatori che tra i cattivi pittori sono i peggio che si possono immaginare, ma quelli che creano, che hanno un loro mondo, un loro stile non sono da meno degli artisti celebrati nell’arte ufficiale”.
Entrai in presa diretta con i naif andando a registrare dalla loro viva voce le vicende della loro vita, le così dette “nastrobiografie”, che pubblicai sul “Bollettino dei naif”, l’organo del Premio Nazionale e del Museo di Luzzara del quale ero redattore. Un periodico trimestrale che uscì negli anni Settanta-Ottanta, molto umile e semplice, tirato a ciclostile. Non disdegnò di apporvi la sua firma, in qualità di direttore responsabile, lo stesso Cesare Zavattini, che, secondo il suo stile, non badava a formalità.
Dopo circa vent’anni Daniele Benati, amico di mio figlio Aldo, mi disse che quelle “nastrobiografie” potevano interessare l’“Almanacco delle prose Il Semplice”, la rivista Feltrinelli formato libro, la cui redazione si teneva a Modena, con la partecipazione, tra i vari provenienti da diverse parti d’Italia, di Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni. Le “nastrobiografie”, ampliate, sono così risuscitate. Richiamate in vita per la terza volta, sono state pubblicate, quali “Vite sbobinate”, da “Incontri Editrice” di Sassuolo. Accresciute, sono risuscitate per la quarta volta, e si spera l’ultima, nell’ottobre del 2013 per un miracolo di “Quodlibet – Compagnia Extra”. Sembra che sopravvivano nel fuoco come le salamandre.

 da http://www.minimaetmoralia.it/wp/cesare-zavattini-e-alfredo-gianolio/

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