Riprendiamo da http://www.leparoleelecose.it/ l'introduzione del volume C'è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, a cura di Enrico Donaggio, in uscita presso Mimesis, che raccoglie i risultati del lavoro collettivo di un gruppo di giovani filosofi sulla questione dell'odierna critica sociale.
Criticare il capitalismo oggi
di Enrico Donaggio
Venezia, Palazzo Ducale, il porticato
che guarda il bacino di San Marco. Una delle colonne è costruita fuori
asse, pende impercettibilmente verso l’esterno. Maledetta, perché di
spietata verità sulla natura degli uomini e dei loro desideri; così,
almeno, vuole la diceria che ne fa il luogo di un supplizio noto come la
“tortura della speranza”. Ai condannati alla pena capitale veniva fatta
balenare un’ultima illusione, vana quanto irresistibile. Camuffata da
pietà, offriva loro un’elementare chance di salvezza: compiere un giro
intero della colonna, senza che il corpo perdesse contatto dal marmo. In
caso di riuscita, la grazia. Tentavano tutti, benché sapessero
dell’inganno di quell’asimmetria, sancito dal premeditato squilibrio tra
aspirazione e realtà. Precipitavano così nella morte, dall’infimo
piedistallo di una estrema e sbilenca chimera.
L’apologo non regala soltanto un brivido
low cost a frotte di turisti seriali e tediati. Capovolto, dispensa un
dubbio psicopolitico – non necessariamente angosciato – a chi si
interroga sul nostro tempo alla luce della sua residua capacità di
sperare ancora qualcosa di meglio, dopo la strage delle illusioni che
hanno torturato il Novecento. E lo stallo in cui pare irretito il
presente. La caduta non deve necessariamente avvenire da altezze
vertiginose per risultare fatale. Si può infatti piombare nell’abisso da
pochi centimetri, agognando l’impossibile. Così come, per converso, ci
si può sentire e immaginare sprofondati in un baratro senza uscita,
anche quando si stagna al fondo di un modesto abbassamento dell’anima o
del terreno sociale.
Pur apparendo definitiva, la depressione
potrebbe invece risultare, se non lieve, perlomeno transitoria. La
promessa e lo sconforto, come l’utopia e il disincanto, richiedono
strumenti di accertamento precisi e sensibili. Insieme ad addetti al
sondaggio capaci di rilevare con cura i picchi e gli avvallamenti. Per
tracciare una carta concettuale e passionale del nostro paesaggio che
consenta di chiamare le cose con il loro nome.
Le autrici e gli autori dei testi riuniti in questo volume, seri e appassionati come a volte sanno esserlo dei giovani filosofi, hanno deciso di tentarci. Scrivendo una serie di saggi, escogitando prove di misurazione diagnostica che, in piena crisi globale, confermano il sospetto che nei dispacci emessi per dare conto della catastrofe in corso qualcosa di cruciale non torni.
Le autrici e gli autori dei testi riuniti in questo volume, seri e appassionati come a volte sanno esserlo dei giovani filosofi, hanno deciso di tentarci. Scrivendo una serie di saggi, escogitando prove di misurazione diagnostica che, in piena crisi globale, confermano il sospetto che nei dispacci emessi per dare conto della catastrofe in corso qualcosa di cruciale non torni.
Tanto in quelli emanati a getto continuo
dai poteri ufficiali, tutti avvinti in una logica del ricatto e intrisi
di una minaccia del peggio: le cose potrebbero infatti aggravarsi ancor
più – questo il monito nemmeno troppo larvato che risuona come
ininterrotta colonna sonora – se si ponesse fi ne all’accanimento con cui
si inoculano al corpo sociale e politico dosi sempre più massicce del
rimedio che lo sta schiantando.
Quanto negli esercizi di demonologia in
cui si consuma, nella maggior parte dei casi, il cosiddetto pensiero
critico, l’opposizione teorica all’ordine dominante delle cose. Su
questo fronte, sotto il velo di un lessico antico sottoposto a seducente
o tristo maquillage, si continua in fondo a scandire il medesimo
mantra, a replicare la solita scena madre: una moltitudine di vittime
innocenti non riesce a ottenere l’emancipazione a cui anela perché
umiliata e offesa da un moloch onnipotente, il capitalismo.
Nelle loro differenze delicatamente
consonanti – quali solo un lavoro collettivo dal primo all’ultimo atto,
come quello all’origine di questo libro, può produrre – gli autori dei
testi qui raccolti rifiutano l’alternativa sterile tra un’apologia del
presente cieca alle sue patologie e una nostalgia fuori tempo massimo
per effrazioni emancipative che si sono rivelate senza esito. Li
accomuna l’idea che ben altro attenda ancora di essere colto, indagato,
vissuto, sperato. E, da filosofi, pensato.
L’intento principale di questo libro è
infatti quello di segnalare l’esistenza di una costellazione di
problemi, di norma trascurati o rimossi almeno nel dibattito italiano.
Debitamente trattati, potrebbero rettificare di qualche grado le
inclinazioni più sedimentate nei confronti del capitalismo realmente
esistente. Nulla tacendo sui costi di assurdità e sofferenza che
infligge. Ma conferendo al contempo un tratto plausibile, praticabile e
desiderabile a prospettive di emancipazione sociale alla portata di una
quantità più significativa di individui. A istanze già attive in forma
dispersa, opaca o irriflessa nella quotidianità occidentale, ma non
valorizzate da uno stile critico silenziosamente sclerotizzatosi in
senso comune, in pigrizia spesso interessata dell’intelligenza e della
passione.
“Tra il muro dell’impossibile e
l’illusione dell’utopia”: questa formula di Jacques Rancière perimetra
bene l’interstizio da cui viene gettato lo sguardo sul nostro presente
che orienta questi saggi. Leggerli significa concedersi un minimo spazio
di riflessione, e dunque di respiro e speranza, dentro l’occhio di un
ciclone che tutto sembra ridurre al grado zero, alla linea di
galleggiamento brutale della sopravvivenza; facendo deserto di rossi
soli dell’avvenire, come delle promesse di felicità credit or cash del
capitalismo globale.
I giochi, forse, sono meno chiusi o
scontati di come viene quotidianamente raccontato. Tanto la nostra forma
di vita – il capitalismo, un modo di esistere e produrre oggi
apparentemente privo di alternative credibili – quanto le strategie da
escogitare per sottrarsi al suo potere e alla nostra connivenza nei suoi
riguardi sono da ripensare e reinventare alla radice. Ed è sugli
effetti di un nuovo orientamento dei concetti e delle aspirazioni che
vanno riconfigurati i nostri strumenti di misurazione, insieme alle
sensazioni di perdita, sconforto e caduta che questi dovrebbero
attestare.
La crisi, in fondo, rappresenta anche
un’occasione per non capitolare alla rassegnazione. La nostra sorte non è
decisa in anticipo, una volta per sempre, come quella che gli
architetti del supplizio veneziano premeditavano ai morituri ancora in
possesso del coraggio di illudersi. La tortura della nostra speranza non
ha già il destino segnato.
Bello,eh!
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