Alla GAM di Milano una
mostra dedicata a Alberto Giacometti
Achille Bonito Oliva
Nelle sue opere gli
echi di Sartre e Samuel Beckett
Ho sempre pensato che la
scultura è un genere che deve chiedere perdono. Per ingombro,
volumetria, peso, occupazione di suolo pubblico e privato. Nella sua
evoluzione linguistica si è sempre dovuta confrontare con queste
difficoltà. Anche Michelangelo si era misurato con le specificità
del genere, approdando al metodo del togliere, sottrazione
progressiva della materia fino ad un approdo alla forma definitiva.
Nell'arte contemporanea,
Alberto Giacometti ha sviluppato un confronto sistematico con la
scultura arrivando a soluzioni che ne fanno un vero e proprio artista
concettuale. Dalla Svizzera l'artista passa a Roma, dove vi soggiorna
per due anni per poi trasferirsi nella sua seconda patria, Parigi.
Influenzato da Tintoretto
e Giotto, da un'antropologia culturale insita nel linguaggio
specifico della scultura, porta la sua attenzione, indietreggiando
nel tempo, fino a quella primitiva. Da qui il costante riferimento
alla figura umana, maschile e femminile, che sembra attraversare
l'ansietà del proprio tempo e la precarietà di una storia segnata
da lutti e conflitti, ma anche da un costante vitalismo accompagnato
dal sentimento di una solitudine inevitabile.
Torso |
Dagli anni Venti in
avanti l'artista svizzero attraversa anche i movimenti delle
avanguardie storiche, cubismo e surrealismo, che ne segnano molti
esiti formali. La scarnificazione cubista della materia viene portata
fino alla geometria di dettagli che sembrano impedire la
riconoscibilità della forma proposta come in Torso ( 1925).
Il passaggio al sodalizio
con André Breton segna l'adesione al surrealismo, in cui prevale una
spinta verso il simbolico, come si desume dalla Sfera sospesa (
1930). In ogni caso costante è l'assottigliamento antropomorfico
della figura rappresentata e un'attenzione ossessiva non allo spazio
topologico, tipico della scultura, ma a quello percettivo che
appartiene piuttosto alla pittura. Una sorta di trend anoressico
sembra sostenere felicemente l'opera di Giacometti, nella continuità
differente dei due generi.
Prevale dunque la ricerca
percettiva di una forma che vaga nell' horror vacui dello spazio,
occupato da figure sempre in transito, nella posizione di una
provvisoria attesa senza risultato. Forse frutto del suo incontro con
Samuel Beckett che ha segnato col suo teatro una visione del mondo
fatto più di monologhi che di dialoghi.
Gabbia |
Fino al 1966, anno della
sua morte, tra scultura, pittura e disegno, Giacometti ha praticato
un processo creativo come continua erranza dell'essere, sostenuto da
un clima culturale che risente anche dell'esistenzialismo di
Jean-Paul Sartre. Emblematica è la Gabbia ( 1931), che descrive
attraverso la trasparenza la delimitazione dello spazio scultoreo e
lo sconfinamento in una percezione senza ostacoli.
Trasparenza significa
vedere lontano, andare oltre l'occasione e la contingenza della
materia fino ad arrivare al recupero dell'umano, rappresentato anche
nei frammenti fisiologici e sessuali, dall'occhio agli organi
genitali maschili e femminili. La distanza aiuta a recuperare la
visione completa della figura, l'uomo nella sua interezza: Uomo
indicante ( 1947) e L'uomo che cammina ( 1960).
Ecco l'approdo finale
alla ricostruzione antropologica dell'essere assottigliato e pure
riconoscibile, stabilizzato nelle posture del passo e
dell'immobilità, sempre alla ricerca di un centro introvabile ma
stoicamente portato verso i movimenti della vita. L'altrove.
La Repubblica – 8
ottobre 2014
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