06 novembre 2014

IL GRANDE CINEMA DI F. TRUFFAUT



Il cinema a volte può salvare, dando senso a una vita altrimenti sprecata. E' il caso di François Truffaut. Per lui il cinema fu un'esperienza totalizzante e forse proprio per questo riuscì a farcelo amare tanto.
Mario Serenellini

La mia droga si chiama cinema
La mostra parigina è strapiena di lettere a registi, attrici, produttori, scrittori. Lettere su lettere, inesausto internet cartaceo, permanente faccia a faccia con le persone desiderate. A volte, lettere dilet-tere, come quella inviata a tredici anni all'amico Robert Lachenay: «Hai ricevuto le mie tre lettere?». E giù l'elenco. Da bambino e adolescente con la sua fame di cinema tempesta di richieste le rubriche di posta dei giornali per informarsi su film, registi, filmografie complete (quando ancora il concetto di filmografia era vago e la parola non appariva nel vocabolario): notizie e recensioni che andranno a nutrire i suoi proverbiali dossiers bleus, muraglia cinefila di classificatori, enciclopedia del grande schermo in foglietti volanti.
Fin dal primo lungometraggio, la catalogazione è d'una minuzia sorprendente. L'appunto sul retro della foto, evocato da Léaud, diventa una mini-diagnosi nella fiche n.3 dei ragazzini provinati, con un apprezzamento sulla lettera («è ben scritta, semplice, netta»), l'aggiunta a penna, «intelligente» e, sotto, la promozione: «Antoine» (accanto, cancellato, «o René»), cine-battesimo di quel Doinel cui delegherà il suo più intimo io.
Il puntiglio dell'appunto, del promemoria, della schedatura — abitudine metodica, che ha finito per produrre l'archivio più sterminato e ordinato della Cinémathèque — fa ora da testo a fronte dei suoi film, quasi un pre-cinema in forma di diario quotidiano. La mostra riporta così alla luce, nutrendo d'uno sguardo nuovo, il profilo Truffaut. La pignoleria di chi non vuol lasciare nulla d'inesplorato l'induce a stillicidi di titoli possibili prima della scelta definitiva, per La camera verde o per I quattrocento colpi (una ventina d'alternative, tra cui il già godardiano Les petits soldats).
«Uomo d'una metodicità in alcuni casi esasperante », ricorda la Moreau: «Si era convinto che mi spettava un risarcimento per le pene sofferte l'anno prima sul set di La notte : lui non amava il cinema di Antonioni, tanto che in Jules e Jim ha inserito una parodia dell' antonionismo. E così, per mesi, una volta alla settimana, m'invitava a pranzo: sempre lo stesso ristorante, in rue du Colisée, alla stessa ora, lo stesso giorno della settimana. E lui, sempre lo stesso piatto! O meglio, periodicamente lo stesso: c'è stata la fase-cotoletta, poi la fase-escargots, solo ed esclusivamente escargots… Ho vissuto quegli inviti come una persecuzione: ma sono stati anche l'occasione di continui scambi culturali. Lui mi ha avvicinato alla letteratura giapponese, io a quella anglosassone».
Da quegli incontri e dalla passione per la lettura erano rinati gli uomini-libro nel film Fahrenheit 4-51, tratto dalla storia di Ray Bradbury, capaci di archiviare nella loro memoria un intero romanzo. Truffaut per primo era un uomo-libro, devoto al testo e all'autore (il suo Balzac…), ma anche uomo-cinema, pronto a stagliuzzare e ricomporre le pagine più amate, miscelandole a appunti, spunti e notizie di cronaca, ingombri autobiografici, facendone insomma quella poltiglia d'autore che si chiama film. Il suo lavoro, per tutta la vita, è stato un anelito di registrazione e archivio, disciolto, in fasi successive, nella precoce vocazione cinèfila, poi nella pratica di critico e infine nell'esposizione in prima persona, come regista, attore, produttore.
L'archivio Truffaut, dall'infanzia alla morte, al cuore della mostra raduna gli archivi del cuore: cinematografici, letterari, sentimentali. Pratiche classificatorie, ossessioni alfabetiche, calamitate dalla vita quotidiana e privata, a sua volta risucchiata ciclicamente nei film, dove si ripetono in analoghe situazioni e si richiamano tra loro, identici, i dialoghi, costanti sintagmi del suo cinema: il "lasciarsi o impazzire" di L'uomo che amava le donne e La signora della porta accanto , o Belmondo-Deneuve in La mia droga si chiama Julie e, dieci anni dopo (e dopo l'innamoramento folle per Catherine Deneuve), Depardieu-Deneuve in L'ultimo Metro: «La tua bellezza è una sofferenza», «Ieri dicevi che è una gioia», «È una gioia e una sofferenza».
Il cinema di Truffaut, deposito sempre aggiornato d'un archivio d'amori che rincorrono il suo "doppio" Antoine Doinel in L'amore fugge e la sua controfigura in L'uomo che amava le donne , si costruisce anche su una meno conosciuta tenacia documentaria: «Per Non drammatizziamo... è solo questione di corna , dove ho un banchetto di fiori che mi applico a ricolorare» ricorda Léaud «François aveva condotto un'inchiesta capillare tra i fioristi e le imprese americane basate in Francia. Senza rinunciare alle informazioni d'occasione, come per la scena della bagarre in cortile: nata direttamente da un aneddoto raccontato dal titolare d'un bristrot vicino». 
Ancora Léaud: «Prenda Baci rubati , dove m'improvviso detective privato. Per rendere più credibile il personaggio e le scene nell'Agenzia Blady gli sceneggiatori Bernard Revon e Claude de Givray hanno trascorso la primavera del ‘67 a catturare fatti di cronaca e a setacciare la Duby Detective, assistendo a riunioni dell'agenzia e sottomettendo a dodici ore d'intervista il patron, Albert Duchenne, divenuto poi collaboratore alla sceneggiatura».
Nel Truffaut rivelato dal suo archivio è una solida, quasi spietata documentazione a far da impalcatura segreta alle trame di meravigliosa finzione del suo cinema e allo scavo del cinema altrui, come nell'esemplare Hitchbook del ‘66, di cui, nella spiritosa allocuzione del '79 all'American Film Institute di Los Angeles, parla come di «un libro di cucina, raccolta di ricette per cuocere a puntino spettacolo e spettatori». È l'idea d'un cinema che ha nei dati d'archivio il puntello e il trampolino per liberarsi delle imperfezioni quotidiane: archivio finale e irriconoscibile di tutti i veri, minuscoli archivi di cui è disseminato. Vale per il cinema come per l'esistenza: «La nostra vita è un muro», scriveva a Isabelle Adjani: «Ogni film ne è una pietra».

La Repubblica- 12 ottobre 2014

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