Il cinema a volte può
salvare, dando senso a una vita altrimenti sprecata. E' il caso di
François Truffaut. Per lui il cinema fu un'esperienza totalizzante e
forse proprio per questo riuscì a farcelo amare tanto.
Mario Serenellini
La mia droga si chiama
cinema
La mostra parigina è
strapiena di lettere a registi, attrici, produttori, scrittori.
Lettere su lettere, inesausto internet cartaceo, permanente faccia a
faccia con le persone desiderate. A volte, lettere dilet-tere, come
quella inviata a tredici anni all'amico Robert Lachenay: «Hai
ricevuto le mie tre lettere?». E giù l'elenco. Da bambino e
adolescente con la sua fame di cinema tempesta di richieste le
rubriche di posta dei giornali per informarsi su film, registi,
filmografie complete (quando ancora il concetto di filmografia era
vago e la parola non appariva nel vocabolario): notizie e recensioni
che andranno a nutrire i suoi proverbiali dossiers bleus, muraglia
cinefila di classificatori, enciclopedia del grande schermo in
foglietti volanti.
Fin dal primo
lungometraggio, la catalogazione è d'una minuzia sorprendente.
L'appunto sul retro della foto, evocato da Léaud, diventa una
mini-diagnosi nella fiche n.3 dei ragazzini provinati, con un
apprezzamento sulla lettera («è ben scritta, semplice, netta»),
l'aggiunta a penna, «intelligente» e, sotto, la promozione:
«Antoine» (accanto, cancellato, «o René»), cine-battesimo di
quel Doinel cui delegherà il suo più intimo io.
Il puntiglio
dell'appunto, del promemoria, della schedatura — abitudine
metodica, che ha finito per produrre l'archivio più sterminato e
ordinato della Cinémathèque — fa ora da testo a fronte dei suoi
film, quasi un pre-cinema in forma di diario quotidiano. La mostra
riporta così alla luce, nutrendo d'uno sguardo nuovo, il profilo
Truffaut. La pignoleria di chi non vuol lasciare nulla d'inesplorato
l'induce a stillicidi di titoli possibili prima della scelta
definitiva, per La camera verde o per I quattrocento colpi (una
ventina d'alternative, tra cui il già godardiano Les petits
soldats).
«Uomo d'una metodicità
in alcuni casi esasperante », ricorda la Moreau: «Si era convinto
che mi spettava un risarcimento per le pene sofferte l'anno prima sul
set di La notte : lui non amava il cinema di Antonioni, tanto che in
Jules e Jim ha inserito una parodia dell' antonionismo. E così, per
mesi, una volta alla settimana, m'invitava a pranzo: sempre lo stesso
ristorante, in rue du Colisée, alla stessa ora, lo stesso giorno
della settimana. E lui, sempre lo stesso piatto! O meglio,
periodicamente lo stesso: c'è stata la fase-cotoletta, poi la
fase-escargots, solo ed esclusivamente escargots… Ho vissuto quegli
inviti come una persecuzione: ma sono stati anche l'occasione di
continui scambi culturali. Lui mi ha avvicinato alla letteratura
giapponese, io a quella anglosassone».
Da quegli incontri e
dalla passione per la lettura erano rinati gli uomini-libro nel film
Fahrenheit 4-51, tratto dalla storia di Ray Bradbury, capaci di
archiviare nella loro memoria un intero romanzo. Truffaut per primo
era un uomo-libro, devoto al testo e all'autore (il suo Balzac…),
ma anche uomo-cinema, pronto a stagliuzzare e ricomporre le pagine
più amate, miscelandole a appunti, spunti e notizie di cronaca,
ingombri autobiografici, facendone insomma quella poltiglia d'autore
che si chiama film. Il suo lavoro, per tutta la vita, è stato un
anelito di registrazione e archivio, disciolto, in fasi successive,
nella precoce vocazione cinèfila, poi nella pratica di critico e
infine nell'esposizione in prima persona, come regista, attore,
produttore.
L'archivio Truffaut,
dall'infanzia alla morte, al cuore della mostra raduna gli archivi
del cuore: cinematografici, letterari, sentimentali. Pratiche
classificatorie, ossessioni alfabetiche, calamitate dalla vita
quotidiana e privata, a sua volta risucchiata ciclicamente nei film,
dove si ripetono in analoghe situazioni e si richiamano tra loro,
identici, i dialoghi, costanti sintagmi del suo cinema: il "lasciarsi
o impazzire" di L'uomo che amava le donne e La signora della
porta accanto , o Belmondo-Deneuve in La mia droga si chiama Julie e,
dieci anni dopo (e dopo l'innamoramento folle per Catherine Deneuve),
Depardieu-Deneuve in L'ultimo Metro: «La tua bellezza è una
sofferenza», «Ieri dicevi che è una gioia», «È una gioia e una
sofferenza».
Il cinema di Truffaut,
deposito sempre aggiornato d'un archivio d'amori che rincorrono il
suo "doppio" Antoine Doinel in L'amore fugge e la sua
controfigura in L'uomo che amava le donne , si costruisce anche su
una meno conosciuta tenacia documentaria: «Per Non drammatizziamo...
è solo questione di corna , dove ho un banchetto di fiori che mi
applico a ricolorare» ricorda Léaud «François aveva condotto
un'inchiesta capillare tra i fioristi e le imprese americane basate
in Francia. Senza rinunciare alle informazioni d'occasione, come per
la scena della bagarre in cortile: nata direttamente da un aneddoto
raccontato dal titolare d'un bristrot vicino».
Ancora Léaud:
«Prenda Baci rubati , dove m'improvviso detective privato. Per
rendere più credibile il personaggio e le scene nell'Agenzia Blady
gli sceneggiatori Bernard Revon e Claude de Givray hanno trascorso la
primavera del ‘67 a catturare fatti di cronaca e a setacciare la
Duby Detective, assistendo a riunioni dell'agenzia e sottomettendo a
dodici ore d'intervista il patron, Albert Duchenne, divenuto poi
collaboratore alla sceneggiatura».
Nel Truffaut rivelato dal
suo archivio è una solida, quasi spietata documentazione a far da
impalcatura segreta alle trame di meravigliosa finzione del suo
cinema e allo scavo del cinema altrui, come nell'esemplare Hitchbook
del ‘66, di cui, nella spiritosa allocuzione del '79 all'American
Film Institute di Los Angeles, parla come di «un libro di cucina,
raccolta di ricette per cuocere a puntino spettacolo e spettatori».
È l'idea d'un cinema che ha nei dati d'archivio il puntello e il
trampolino per liberarsi delle imperfezioni quotidiane: archivio
finale e irriconoscibile di tutti i veri, minuscoli archivi di cui è
disseminato. Vale per il cinema come per l'esistenza: «La nostra
vita è un muro», scriveva a Isabelle Adjani: «Ogni film ne è una
pietra».
La Repubblica- 12 ottobre
2014
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