César Vallejo
“Poeta di una
stirpe, di una razza. Per la prima volta la nostra letteratura trova
in lui un sentimento indigeno verginalmente espresso”, così nel
1927 José Carlos Mariategui indicava in César Vallejo il
rappresentante di una nuova generazione di scrittori che nella
riscoperta del mondo indio ponevano le basi della rinascita nazionale
e sociale del Perù. Dopo quasi un secolo, le sue opere sono ora
tradotte in italiano.
«Morirò a Parigi
con la pioggia / in un giorno del quale ho già il ricordo».
Così scriveva il peruviano César Vallejo in «Pietra
nera su una pietra bianca», nella raccolta Poemi umani.
Roberto Bolaño, in uno dei suoi romanzi più cupi, Monieur Pain, ha
raccontato a modo suo la morte del poeta, che avvenne
a Parigi, di malattia e di stenti, attribuendola
a un misterioso singhiozzo e a una cospirazione
fascista.
Nel 2008 Gorée ha
pubblicato l’opera poetica di Vallejo in due
preziosi volumi curati da Roberto Paoli, uno dei suoi più
importanti studiosi. Con l’uscita lo scorso anno del
racconto «Favola selvaggia» nella collana gli
Eccentrici di Arcoiris, e ora del romanzo Tungsteno
per Sur (traduzione di Francesco Verde,
prefazione di Goffredo Fofi, pp. 160, euro 15,00), il
lettore italiano può finalmente conoscere anche
parte dei suoi scritti in prosa.
Nato in un paese della
cordigliera andina, ultimo degli undici figli di una
coppia formata da una sorta di «avvocato del popolo»
di origini galiziane e da una donna di ascendenze
indigene, il meticcio Vallejo è uno dei più
grandi poeti del Novecento, e a comprovarlo
bastano le raccolte Gli araldi neri e Trilce, insieme
a quelle postume: Poemi umani e Spagna, allontana
da me questo calice, in difesa della Repubblica spagnola.
Dopo diversi tentativi
di laurearsi in lettere, sempre interrotti per le
difficoltà economiche e intervallati
da varie esperienze lavorative – impiegato in
miniera, insegnante, aiuto contabile in uno
zuccherificio – che gli fecero toccare con
mano la realtà dello sfruttamento, Vallejo si
trasferì a Trujillo e poi nella capitale
Lima, dove entrò in contatto con l’intellettualità
cittadina e strinse amicizia con José
Carlos Mariátegui, il fondatore del
Partito socialista peruviano.
Nel 1918, anno in cui
morì la madre, figura centrale nella sua vita e nella sua
poetica, pubblicò Gli araldi neri, una raccolta
ancora caratterizzata dagli stilemi dell’estetica
modernista ma nella quale affiorano già elementi
di rottura di quella tradizione ormai esausta.
Due anni dopo, ingiustamente accusato di aver
procurato un incendio e un saccheggio,
viene incarcerato per quattro mesi; darà conto di
questa triste esperienza nel volume di prose
avanguardistiche Escalas mielografadas.
Ma è nel 1922, con
l’uscita di Trilce, che la sua ispirazione si rivela in
tutta la sua potenza e originalità. In una
intervista concessa a un quotidiano
madrileno nel 1931, alla domanda sul significato della
parola che dava il titolo alla sua raccolta poetica,
rispose: «Ah, be’, Trilce non significa niente. Non trovavo
nessuna parola degna di diventare un titolo, e allora
l’ho inventata: Trilce. Non è una bella parola?».
Inevitabile
il confronto con «dada» e il dadaismo, anche se il
rapporto di Vallejo con le avanguardie
latinoamericane ed europee non fu mai
lineare né scontato. Il libro venne accolto con molte riserve
e con un certo stupore; del resto, le poesie sono
piuttosto ermetiche, le scelte lessicali
ardite e la sintassi violentata. Come ha scritto
Roberto Paoli: «Fuori dalle coordinate degli affetti, il
mondo si fa presente a Vallejo come caos e assurdo.
È in questa
zona di rifiuto o, peggio ancora, di enigmaticità
inviolabile che il poeta ha adottato più largamente
i modi dell’avanguardia, riducendone tuttavia
il valore ludico e, anzi, accentuandone la carica
rivoluzionaria, giacché, in questa
particolare adozione, la tecnica
avanguardistica viene assunta come corrispettivo
formale di una visione scardinata e brutale,
come il solo veicolo atto a rappresentare un
mondo frantumato e capovolto, insomma come
linguaggio della follia del reale».
Infatti, Vallejo si
distanzia dalle avanguardie europeee su punti
essenziali, che lo avvicinano piuttosto
a un’altra figura di intellettuale attiva a Parigi
in quegli anni: Antonin Artaud, e non solo per la
dichiarata volontà di scrivere «per gli analfabeti»,
per l’espressività e la crudezza del linguaggio,
ma per il peso che assumono nelle opere di entrambi la
sofferenza esistenziale e l’insurrezione
del corpo e delle sue pulsioni, il rifiuto della
sensualità: «Godere in ogni occasione e attraverso
tutti i pori, ecco il centro delle loro ossessioni»,
scrive Artaud nel 1927 nel suo libello À la grande nuit ou le
bluff surréaliste –, dei giochi linguistici
fini a sé stessi e del vano ribellismo
parolaio.
«La ribellione non è possibile senza l’innocenza.
«La ribellione non è possibile senza l’innocenza.
Si ribellano
soltanto i bambini e gli angeli», scrive
Vallejo, che fa i conti con Breton e amici in una
cronaca giornalistica del 1930 intitolata
«Autopsia del surrealismo», dove sviluppa
una critica delle scuole letterarie dei primi
decenni del Novecento (espressionismo, dadaismo,
surrealismo, futurismo…). «Mai il
pensiero sociale si è frazionato in tante
e tanto effimere formule. Mai ha sperimentato
un gusto altrettanto frenetico e una simile
necessità di stereotiparsi in ricette e cliché,
come se avesse paura della propria libertà o come se non
potesse prodursi nella propria unità organica».
E stigmatizza
il «vizio del cenacolo», così come Artaud aveva dichiarato:
«Il surrealismo è morto per il settarismo
imbecille dei suoi adepti».
Diversamente da
Artaud, Vallejo negli anni trenta aderì al marxismo,
un marxismo sui generis, vissuto soprattutto
come anelito all’uguaglianza, alla giustizia sociale
e alla solidarietà, che non avrebbe reciso le sue
radici cristiane e umanistiche, né lo
avrebbe spinto ad abdicare alla libertà artistica.
Di questa adesione
al marxismo è frutto, appunto, il romanzo
indigenista-proletario Tungsteno, pubblicato a Madrid
nel 1931. Se in Favola selvaggia, che rientra in
qualche misura nella letteratura fantastica
e racconta un dramma della gelosia e della
follia centrato sul tema del «doppio demoniaco»,
Vallejo offriva uno squarcio delle ancestrali
superstizioni del mondo rurale andino, in Tungsteno
elabora una drammatica visione della lotta di classe
che oppone i padroni nordamericani delle
miniere e i loro scagnozzi locali ai peones e agli
indigeni soras, «arruolati» con la violenza
e costretti al lavoro forzato, e traccia una
differenza antropologica fra la visione del
mondo di questi ultimi e quella dei loro aguzzini
\[.…\]
Come scrive Goffredo
Fofi nella prefazione: «In una stessa ondata di furore
e utopia, somiglia a molti altri romanzi di
quegli anni che raccontarono disperazione
e rivolta degli oppressi in più parti del mondo, e ha
qualcosa in comune con i grandi romanzi della fede
socialista o comunista».
Ma il carattere
didascalico e di propaganda, che ne fanno in
qualche misura un’opera datata, sono ampiamente
riscattati, oltre che dalla potenza delle scene – terribile
quella dello stupro di gruppo di una giovane india ridotta
in schiavitù – da una partecipazione non
esteriore di Vallejo al dramma degli indios.
Come scrive ancora Fofi:
«È la partecipazione diretta alla condizione
e alla cultura india a maturare la vocazione
di Vallejo, e a seguirlo nell’esilio europeo,
parigino, come una piaga e una corona». E l’ostracismo
subìto per le sue posizioni politiche, che lo
costringerà a una vita grama, vissuta in dignitosa
povertà, non l’ha mai fatto venire meno a uno dei suoi
princìpi: «Se c’è un’attività di cui non si deve fare
una professione, questa è l’arte».
Il Manifesto – 18
gennaio 2014
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