Un fotogramma del film Le mani sulla città
Oggi si vota in
Liguria per le primarie di un PD che vede uno dei candidati appoggiato
apertamente dalla destra dei residui fans dell'ex ministro Scajola
(inquisito dall'Antimafia). Frequentazioni disinvolte che vanno
oltre la politica per toccare il mondo degli affari (edilizia, porto,
rifiuti). Uno scenario palermitano più che genovese. Francesco
Rosi, rivisitando il suo capolavoro “Mani sulla città”, ne
avrebbe di certo saputo trarre un gran film.Ma nell'epoca di Renzi film
così non se ne fanno più. Anche per questo Rosi ci mancherà.
Cristina A Piccino-
Giona A Nazzaro
Il cinema come impegno
civile
Solo pochi mesi fa era al
Cinema America, la vecchia sala romana, occupata da un
gruppo di ragazzi a parlare con loro della comune
passione, il cinema, e della politica e della
vita. Francesco Rosi è morto ieri a Roma, nella
sua casa di via Gregoriana, e con lui se ne va un
altro dei registi che incarnavano il mito del cinema
italiano, anche agli occhi del mondo, quella manciata di
nomi, Fellini, Visconti, Rosi, che ogni cineasta
o cinefilo di qualsiasi paese cita immediatamente
se gli si chiede quali sono i suoi riferimenti nel
nostro Paese.
Lui, Francesco
Rosi, era l’emblema del cinema politico, dell’impegno,
generoso e veemente come le sue proverbiali
sfuriate, quel cinema che nell’Italia alle soglie delle grandi
trasformazioni economiche e sociali,
ma anche antropologiche — il suo film
d’esordio, La sfida, è del 1958 — racchiude già
in sè i germi di un paradosso politico che ne
segneranno il destino sino al presente. Corruzione,
avidità, le colate di cemento che divorano i nuovi
paesaggi urbani, e quel sud, messo da parte, che di questo
diviene quasi un laboratorio, a cominciare
dalla sua Napoli, la città dove Rosi era nato, il 15 novembre
del 1922, figlio della borghesia napoletana —
il padre gestiva una compagnia marittima — e che
attraverserà in modo obliquo la sua opera.
Studi di
giurisprudenza, il giovane Rosi vanta tra i suoi
amici Raffaele La Capria, Napolitano, Patroni Griffi,
Luchino Visconti, e ai libri di legge sembra prediligere
le illustrazioni per bambini. Il cinema arriva nella
sua vita con il regista di Rocco e i suoi fratelli che
lo chiama come suo assistente sul set de La terra
trema (1948). Sarà poi sceneggiatore
di Bellissima (1951) e collaboratore
in Senso (1953).
Qualche anno dopo
Rosi firma il suo primo film da regista, La sfida (da
un suo soggetto e con la sceneggiatura
scritta insieme a Suso Cecchi D’Amico, aiuto regista
era Giulio Questi), costruito sulla parabola di un
giovane napoletano (Jose Suarez) distrutto dalla
sua brama di soldi. Dietro si affacciano banditismo,
ricatto dei contadini, controllo della malavita
sui mercati generali. Il film vince un premio
speciale a Venezia, la critica lo accoglie
piuttosto bene (a parte qualcuno tra cui Moravia).
«In quei tempi
credevamo che denunciare all’opinione pubblica
certi mali significasse in qualche modo combatterli
e forse eliminarli. Il cinema sembrava l’arma
più efficace per raggiungere questo scopo, e da
questa convinzione fortemente radicata
sono nati i film più belli di Francesco Rosi»
scriveva l’amico Raffaele La Capria (inFrancesco
Rosi, a cura di Sebastiano Gesù, 1991) che partecipa
alla scrittura di Le mani sulla città. E da qui, dopo
il secondo film, I magliari, tra gli italiani
emigrati in Germania, partono i capolavori
rosiani come Salvatore Giuliano (1962), Le
mani sulla città (1963), Uomini contro (1970), Il
caso Mattei (1972).
E non si tratta soltanto
di confrontarsi senza censure o autocensure
con i lati oscuri della storia del nostro paese, come il
cadavere del bandito Giuliano, morto ammazzato
dopo la strage di Portella delle Ginestre, strage mafiosa
in un Primo maggio di lotta, contro i lavoratori
e a favore del latifondo che Rosi smaschera con
potenza. «Di sicuro c’è solo che è morto» scrivono
le cronache nel luglio del 1950 su Giuliano.
Si parlerà di
film-inchiesta, Rosi documenta sempre in modo assai
scrupoloso le sue ricerche trattando fatti
«realmente accaduti». Ma questo non gli basta:
ognuno di questi film trova infatti la sua verità in una scelta
visiva, e narrativa, forte, spiazzante, che in
quei frammenti di cronaca non divenuta Storia
cerca gli interrogativi aperti, e i problemi
irrisolti. Sarà per questo che i film di Rosi sono
più che sgraditi alla critica andreottiana, e anzi
Le mani sulla città, col suo denudare il sacco di Napoli, così
simile al sacco di palazzinari e politici
compiuto ovunque in Italia, subisce gli attacchi
della censura.
E non saranno in
molti nell’Italia democristiana a vedere la mano dei
poteri economici nella morte di Enrico Mattei, che
a capo dell’Agip pensa di rivedere gli accordi sul
petrolio con la Libia, e difatti il suo aereo precipita
fuori Milano. Protagonista ne è Volontè
icona di altri film del regista, tra cui Cristo si
è fermato a Eboli.
Il cinema di Rosi, fino
a un certo punto, è dunque un cinema che vive nello
scontro (e nel confronto) col proprio tempo, e che
nel racconto caustico, nella denuncia di quei silenzi
di stato, fatta a gran voce, senza spaventi, trova anche
l’impeto per mettersi alla prova, e per inventare
una forma che saggia, a ogni film e al massimo,
i suoi limiti. «Fare cinema significa contrarre
un impegno morale con se stessi e con lo spettatore.
Gli si deve l’onestà di una ricerca della verità senza
compromessi. Più ci si addentra nel reale e più
si ha la coscienza che il vero e il giusto non esistono.
Quel che conta è la nitidezza della ricerca» aveva detto
Rosi ricevendo tre anni fa il Leone d’oro alla carriera
alla Mostra di Venezia.
È certo che per diverse
generazioni è stato un riferimento, pure se
il senso di «cinema politico» è stato declinato in
modo molto meno netto, e oggi, nell’era social di superfici
lisce il suo significato esige di essere ripensato.
Questo intreccio polemico necessario con la
realtà del suo tempo, è forse quello che si perde negli ultimi
film del regista. Dopo Tre fratelli, nel quale
compare anche il brano Je so pazzo di Pino Daniele in
un’allegorica sequenza onirica, gli anni Ottanta si
riveleranno problematici e irrisolti
per il regista.
Se Carmen, reca
ancora tracce del cineasta geniale autore di C’era una volta,
uno dei suoi titoli meno celebrati, il successivo
e disastroso Cronaca di una morte
annunciata insinua il sospetto che Rosi si sia perso
nei meandri delle coproduzioni da festival, tanto
il film è lontano dal suo respiro più schietto. Le cose
non migliorano purtroppo con Dimenticare
Palermo dove il regista tenta di ritrovare il passo di
una volta. È il 1990. Forse non era nemmeno giusto
chiedere di più a un cineasta che aveva dato
tantissimo.
L’ultimo sussulto
rosiano giunge con Diario napoletano, un ritorno
alla sua città e al suo film più proverbiale. Un
tentativo a cuore aperto di riprendere un
dialogo interrotto. La tregua, purtroppo
ultimo film di Francesco Rosi, evidenzia solo una
confezione inerte. Un film testamento che non rende
giustizia all’opera di Francesco Rosi, tra le
più ricche e affascinanti del cinema mondiale.
Il Manifesto – 11
gennaio 2015
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