La guerra civile
spagnola, i pettegolezzi su Hemingway, il ritorno da eroina
nell’Urss, poi l’arresto e la condanna, fino all’arrivo in
Italia. Nella vita della linguista russa, quasi un secolo di storia.
Julia Dobrovolskaja
Stalin ci impose la
felicità forzosa, da bambina ero costretta a ridere
Colloquio con Antonio
Gnoli
Tornando in treno da Milano verso Roma ripensavo agli occhi di Julia Dobrovolskaja. Per tutto il tempo del nostro incontro - nella piccola casa di 37 metri quadri, non distante da Porta Romana - Julia non si era mai tolta gli occhiali spessi e scuri. Mi veniva in mente un velo nero sul resto del mondo, squarciato da una voce lieve e tagliente. Un confine tra ciò che Julia aveva dentro e quello che c’è fuori.
E ho pensato alla frase
con cui ci siamo congedati, quasi ridendo: «Non so se le donano
quegli occhiali, cosa nascondono?», le ho domandato. «Certi occhi
sono la routine dell’anima, più che lo specchio», mi ha risposto
sfiorando lieve il tavolo lindo con la mano. Piccola ed energica,
Julia sprizza un senso di esplicita fierezza. Ha appena vinto il Pen
Club per la sua attività di traduttrice e le è stato concesso il
vitalizio della “Legge Bacchelli” per i suoi meriti culturali.
Nei suoi quasi 98 anni di vita vissuta (è nata a Novgorod nel 1917 alla vigilia della rivoluzione d’ottobre) non c’è nulla di antico. Ha un modo originale di sentirsi superstite. Quello che Julia trasmette è il bisogno di superare anche le prove più terribili senza cedere al timore di non farcela. Le parole esibiscono una tranquilla spregiudicatezza:
«Non mi fraintenda. Le
nostre vite non possono fare a meno di una dose di illusione. Vede
questo bicchiere d’acqua? Posso pensare che sia vodka. Posso
perfino farglielo credere. Ma l’acqua resterà acqua. E non c’è
miracolo che possa trasformarla. Ecco. Posso farle credere che la mia
vita era vodka. Ma non è vero. Qualche volta è stata vodka. Qualche
altra acqua».
Non sempre siamo quello che gli altri pensano di noi.
«Mi hanno spesso
attribuito una storia con Ernest Hemingway ma non è vera».
Si racconta che lei fosse il personaggio femminile di Per chi suona la campana.
«La leggenda fu messa in
giro dal mio amico Marcello Venturi. Si ostinò a credere che la
figura di Maria fossi io. È vero che durante la guerra civile feci
da interprete per un generale. Ma quando giunsi in Spagna Hemingway
era già partito. La donna di cui si invaghì era Martha Gellhorn.
Allora avevo vent’anni: belloccia, con i capelli color del grano e
piena di ideali».
Com’era finita nella guerra civile spagnola?
«C’era bisogno di
interpreti. Partii nel 1938, insieme a una dozzina di ragazzi.
Venivamo tutti dall’università, chi da Leningrado, come me, chi da
Mosca. Non conoscevo lo spagnolo. Lo imparai in 40 giorni. Da Parigi
arrivai a Port Bou e poi con una corriera giunsi a Barcellona. Ero
stanchissima. Ma anche entusiasta. Forgiata dalla fede
nell’internazionalismo proletario. Ero lì per una causa giusta. Ci
misero in un albergo che prima della guerra era un postribolo. Le
pareti affrescate di nudi ammiccanti tremavano sotto il rombo
minaccioso degli aerei».
Come si svolgeva la vita in quel momento?
«La città era stata
bombardata. Macerie e disperazione ovunque. Per risollevarci il
morale una sera ci invitarono al compleanno di Dolores Ibárruri, la
“Pasionaria”. Un’oratrice incredibile. Le sue parole ci
riempirono di orgoglio. Poi si fece silenzio. Il capo della
rappresentanza commerciale, che ci ospitava, chiese a me, la più
giovane, di fare il brindisi. Dissi, in uno spagnolo maldestro,
qualche frase alla compagna Dolores. Mi si avvicinò – bella e
imponente – si tolse il foulard e abbracciandomi me lo legò al
collo. In quel momento pensai che avremmo vinto la guerra».
Quanto durò l’illusione?
«Poco. Cominciai a
vedere cose che non funzionavano. Soprusi. Violenze. Morte. Compagni
che eliminavano compagni. Soprattutto se anarchici o socialisti. Ero
stordita e incredula. Non potevo credere che il compagno Stalin fosse
all’origine di quelle atrocità. Fu un anno molto difficile quello
che trascorsi in Spagna. Perdemmo la guerra, ma se l’avessimo vinta
non so cosa ne sarebbe stato di noi».
Cosa glielo fa pensare?
«Basta leggere Orwell.
Comprese perfettamente, dopo aver partecipato alle vicende spagnole,
cosa sarebbe accaduto se a prevalere fosse stato Stalin».
Lei tornò in Unione Sovietica?
«Tornai da eroina.
Sentivo l’ammirazione con cui ci guardavano mentre passeggiavamo
sulla Prospettiva Nevskij. Finii l’università. Anche lì il clima
era di entusiasmo. Dopotutto avevamo combattuto il male. C’era un
solo professore che mi metteva in guardia da tutto questo: Vladimir
Propp».
Il grande studioso del folclore?
«Proprio lui. Inviso al
regime, l’università lo aveva emarginato spogliandolo delle sue
straordinarie competenze. Pochi conoscevano i suoi meravigliosi
lavori sulla fiaba. Che, tra l’altro, sarebbero giunti in Occidente
solo alla fine degli anni Cinquanta. Insegnò filologia germanica, ma
di fatto fu ridotto a lettore di tedesco. Divenni amica di quest’uomo
che, con pizzetto e baffi, sembrava un piccolo Don Chisciotte.
Prezioso il suo insegnamento. Devo a lui il metodo con cui avrei
scritto anni dopo il manuale di italiano per i russi».
In seguito vide più Propp?
«Vladimir ebbe varie
vicissitudini. Mi scrisse qualche volta e risposi alle sue lettere.
Il tono era sempre di curiosità mista ad affetto. Ma le nostre vite
non si incrociarono. Mi trasferii a Mosca. Nel 1942 entrai
all’agenzia Tass. Leggevo in cinque lingue i giornali stranieri,
selezionando le notizie politiche per i giornalisti. La vita era
dura. Ricordo che gli sforzi sovietici si concentravano nella
raccolta delle patate. Tutti dovevano partecipare, anche coloro che
svolgevano lavoro intellettuale. Gli unici esentati erano i membri
della nomenklatura».
Come si svolgeva la vita quotidiana a Mosca?
«C’era la guerra,
c’erano state le deportazioni collettive. Un clima di sospetti
pesava sulla città. Sapevamo poco o nulla di quello che stava
accadendo. Tra le numerose cose che Stalin aveva imposto c’era
anche la felicità forzosa. Ricordo che da bambina eravamo costretti
a ridere, a mostrare una spensieratezza che nessuno possedeva
realmente. Ma così andavano le cose. In un crescendo di fame e di
morte. Chi poteva, come me che lavoravo alla Tass, godeva ancora di
piccoli privilegi».
Di che natura?
«Avevamo una tessera che
ci consentiva di pranzare in un ristorante di via Gorkij. E poi, ogni
tanto, ci davano dei buoni per accedere alla sauna pubblica. A quel
tempo ero riuscita ad ottenere da una vedova una stanza del suo
alloggio. Piccola e spartana, la stanza aveva la finestra che si
affacciava sul museo Puskin. Vedevo certe domeniche le fila della
gente. Era una consolazione sapere che l’arte aveva ancora un posto
nel cuore dei russi. Poi una notte bussarono alla porta».
Chi bussò?
«La polizia segreta. Fui
trascinata fuori e sbattuta in una cella di smistamento. La lampada
emanava una luce accecante. Una donna in divisa chiese le mie
generalità. Dissi che ero cittadina sovietica. Che lavoravo alla
Tass. Mi ordinò di togliermi le scarpe. Misurarono la mia altezza.
Mi fotografarono. Fu una giornata da incubo. Non sapevo perché ero
lì. Fu il mio debutto alla Lubjanka».
Il quartiere generale del Kgb.
«Il luogo degli orrori e
degli interrogatori senza ritorno. Quante persone innocenti erano
passate di lì? Quante vittime erano state terrorizzate e
annullate?».
Di cosa l’accusavano?
«Qui è l’incredibile.
Non lo sapevano neanche loro. Ma il codice penale aveva introdotto
una legge per cui bastava essere nelle condizioni di poter compiere
un crimine per essere accusati di quel crimine. L’istruttoria durò
sei mesi. Alla fine l’accusa fu di alto tradimento. Senza altra
specifica. La pena era 15 anni in un carcere durissimo».
Che lei scontò?
«Solo in minima parte.
Per fortuna. Il mio fidanzato, ma allora solo un innamorato, era tra
i dirigenti dell’industria ottica. Con un telefono speciale riuscì
a parlare con Berija. Il quale si mostrò tutt’altro che
comprensivo. Commentò la perorazione di Alexander Dobrovolsky con
una frase di rara ottusità: “Se abbiamo sbagliato qualche volta in
passato non vuol dire che accada ancora, il colpevole è sempre
colpevole”, disse come se avesse scoperto la verità assoluta».
Come reagì il suo innamorato?
«Mi propose di sposarlo.
Gli dissi: “Sasha, tu non sai in quali pasticci ti stai mettendo.
Lascia stare”. Non volevo coinvolgerlo. Alla fine il giudice
istruttore, una vera carogna, percepì che dall’alto qualcuno si
era interessato a me. Bastò questo perché si creasse un clima meno
ostile. Del resto, non sapevano su quali fatti precisi incriminarmi.
Venni condannata a 3 anni. Ne scontai solo uno lavorando in una
fabbrica metallurgica non distante da Mosca. Poi arrivò nel 1945
l’amnistia. Il sistema di terrore cominciò ad attenuarsi».
Rientrò nella vita normale?
«Più o meno. Anche se
quella macchia restava. Anche dopo la morte di Stalin, dopo la nostra
riabilitazione, circolava su di noi un senso di non detto, di non
dichiarato. Ad ogni modo sposai Sasha e furono 15 anni bellissimi.
Poi l’inferno».
Cosa accadde?
«Sasha cominciò a
sviluppare una gelosia morbosa. Mi pedinava, mi tormentava, mi
sfiniva con i suoi interrogatori. Era diventato un altro uomo. Alla
fine divorziammo. Avevo il mio lavoro, di insegnante di italiano e di
traduttrice. Furono nove anni intensi. Felici, se si può dire.
Segnati anche da un certo benessere. Poi cadde Krusciov. Era il 1965.
Cominciò il grande gelo ideologico».
Visti i contatti e il lavoro svolto non aveva una maggiore libertà?«Ero stata vicina a molti scrittori e artisti. Limitatamente a certe esigenze potevo perfino viaggiare. Ma la stretta ci fu. Il controllo veniva esercitato quotidianamente. Non è vero che eravamo una società immobile. Stavamo velocemente tornando indietro».
Tra gli scrittori italiani chi frequentava?
«Moravia, Parise,
Ripellino. Ero diventata molto amica di Paolo Grassi. Ma due persone
furono in particolare presenti. Una mi avrebbe deluso molto, l’altra
l’avrei rimpianta a lungo».
Chi?
«Renato Guttuso che ogni volta che veniva a Mosca si affidava a me per ogni cosa. Quando finalmente scelsi l’Italia come la mia nuova patria, Renato non volle più vedermi. Non so cosa gli scattò nella testa. Per lui ero una traditrice. Mi cancellò. L’altra persona era Gianni Rodari. Incredibilmente famoso in Unione Sovietica. Tradussi Grammatica della fantasia . Diventammo molto amici. Il governo sovietico invitò Gianni a trascorrere un periodo in Urss. Visitarla con l’impegno che quel soggiorno sarebbe diventato un libro».
Rodari accettò?
«Con entusiasmo. Cercai
in tutti i modi di dissuaderlo. Lo implorai – seduti su di una
panchina non distante dal Bolshoi – di lasciar perdere. Gli dissi
che erano solo menzogne quelle che avrebbe raccolto. Non volle darmi
ascolto. Cominciò il suo viaggio nel Caucaso con l’entusiasmo di
un bambino che andava alle giostre. Partì d’estate. Tornò nel
dicembre del 1979. Mi telefonò. Chiese di vedermi subito. Stavo
lavorando a un seminario con un gruppo di giovani traduttori. Arrivò
trafelato. Stanco. Irriconoscibile. Non vi racconterò una favola,
disse. Ma quello che ho visto e che non mi è piaciuto di questo
paese. Parlò ininterrottamente per tre ore».
Che uomo aveva di fronte?
«Una persona sconvolta.
Vomitò il disagio e l’angoscia che lo tormentava. Si lamentò per
il freddo. Aveva una brutta cera. Tornò in Italia dove sarebbe morto
qualche mese dopo».
Lei quando ha deciso di vivere in Italia?
«Nel 1982. Fu la prova
generale della propria morte».
In che senso?
«Non portavo nulla con
me. Lasciavo a Mosca tutto il mio mondo: i libri, gli amici, la
professione, la casa, gli affetti. Era un salto nel buio. Non può
immaginare come sia difficile rinascere».
Ce l’ha fatta.
«Posso dire di sì.
Questi trent’anni sono stati intensi. Ho scritto molto. Ho
insegnato all’Università. Alla Ca’ Foscari. Ho sposato un amico
gay, una persona straordinaria e generosa, e sono diventata cittadina
italiana. Non ho vissuto da dissidente. Ma con la mia capacità di
resistenza passiva sono restata una persona integra. Vorrei avere più
forza. Ma l’età avanza. Vorrei avere più fede. Mi fu rubata da
uno Stato autoritario. Vorrei avere ancora un futuro. Ma so che ne
resta poco. Ma abbastanza per ringraziare le tante persone per bene
che mi hanno aiutata».
La Repubblica – 18
gennaio 2015
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