12 gennaio 2015

LA VITA DI WALTER BENJAMIN










Una monumentale biografia a cura di due studiosi della Università di Harvard ricostruisce passo passo il formarsi dell'opera e la personalità sfaccettata e complessa di Walter Benjamin. A quando la traduzione italiana?

Nicola Gardini

Walter Benjamin. Una vita vissuta nel dettaglio
Chi è Walter Benjamin? Foucaultianamente lo si potrebbe definire un "auteur", cioè uno che ha messo in circolazione idee e modelli culturali, "discours", e che sarebbe sbagliato identificare con un individuo biologico, uno come Freud e Marx, insomma, o, certo, lo stesso Foucault, o il nostro Gramsci. E questo è tanto vero che certi manco sanno pronunciare il suo nome, come se appunto lo si identificasse più propriamente con quello che ha lasciato detto, e neanche tutto, qualche formula memorabile, come «l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica» e «il compito del traduttore», che di Benjamin, comunque si pronunci, hanno fatto un'icona della modernità e un mostro sacro dei "graduate studies".

La domanda, però, andrebbe posta anche al passato, perché non c'è "discours" senza mente e la mente ha le sue occasioni storiche, ricercate o prodotte dalle circostanze. Dunque, chi era Benjamin? Ebreo assimilato, amico di Adorno, di Scholem e di Hannah Arendt, nacque e visse lunghi anni a Berlino, cercò alternative alla metropoli a Capri e a Ibiza, finì esule a Parigi per sfuggire al nazismo e morì suicida nel 1940 in un paesino della Spagna, dalla quale sperava di prendere la via dell'America.

Si uccise per paura di essere rispedito in bocca al nemico, e il giorno dopo i suoi compagni poterono varcare il confine e mettersi in salvo. Il suo corpo non si sa bene dove sia finito, e neanche il cruciale manoscritto che pare si portasse dietro durante l'ultima fuga.

Dedicò la sua vita alla critica, mischiando teologia e marxismo, filosofia e storia, teorie del linguaggio e poesia, e si occupò da pioniere di cultura mediatica. L'opera scritta è vastissima.

Eccelse nel saggio e nella recensione, ma compose anche poesie, racconti di viaggio e resoconti autobiografici, in particolare uno, Infanzia berlinese, un piccolo capolavoro. Tradusse Baudelaire e Proust. La varietà dei suoi temi è impressionante: il giocattolo, il romanzo giallo, la letteratura francese e non solo, il dramma barocco tedesco, l'arte di Klee, la radio, la fotografia, la droga, Parigi... Su tutto mostrava uguale competenza, e tutto nelle sue mani si benjaminizzava, acquistando valore e densità, fino ad apparire complesso, a risaltare sul comune fondo di una cultura sempre più conformista, cui il suo stile teso e spesso difficile si contrapponeva di per sé con forza di oggetto inconquistabile.



Lavorava contemporaneamente a più progetti, e il progetto è certamente la sua "forma" più tipica. I suoi capolavori sono libri mai compiuti, come quello sui passages di Parigi, di cui resta un monumentale abbozzo. Vista dall'alto, tanta opera disegna un paesaggio di approssimazioni, che non sono fallimenti, ma esempi di una nuova rinnovante vitalità e bellezza.

Benjamin insegna a guardare dove l'occhio e l'attenzione meno si provano, a riconoscere la salvezza di una totalità nel residuo, a trasmettere nonostante, anzi proprio in virtù della decurtazione e della costrizione. L'aneddoto vale per la storia; la traduzione per una lingua assoluta e comune. Quello che sembra perdita è sopravvivenza, nel dettaglio di una fotografia sta depositato un tempo.

Quando morì, pochi conoscevano il genio dell'uomo e l'importanza delle sue riflessioni. Oggi esiste una vera e propria industria benjaminiana.

Quasi tutto è edito e pubblicato in numerose lingue. In Italia Benjamin lo conosciamo soprattutto grazie all'editore Einaudi, che da decenni mette a disposizione i saggi fondamentali (ultimamente anche altri si sono dati da fare per averlo in catalogo, da Adelphi a Castelvecchi, che da poco ha pubblicato le trasmissioni radiofoniche). Ma della fortuna internazionale di Benjamin è principalmente responsabile l'America. E dall'America quest'anno è arrivata anche la biografia che mancava: Walter Benjamin. A Critical Life, uscita per Harvard University Press (da noi uscirà per Einaudi). Gli autori sono Howard Eiland e Michael W. Jennings, che per lo stesso editore curano anche le traduzioni dell'opera.

Questa biografia è un capolavoro. Schivando con eleganza qualunque mitologizzazione, ricostruisce passo passo il formarsi dell'opera e i movimenti, la personalità, i rapporti e le ambizioni del personaggio. Molte delle quasi settecento pagine complessive sono dedicate all'illustrazione del pensiero, mettendo in luce nessi tra momenti anche distanti. Il dosaggio tra cronaca, cronologia, commento e documentazione è perfetto.

Il racconto procede vario e sicuro, con chiarezza esemplare, senza gergalità, senza ingorgarsi di citazioni, con fede così integrale al rigore delle premesse filologiche che a lettura ultimata ci si sente consolati. Non era facile, dati i tanti piani dell'indagine.


Ma i piani qui si incastrano tutti a meraviglia, e se qualche fessura rimane, non si ricorre certo al sensazionalismo, al romanzesco, all'illazione psicanalitica, alla smorfia lirica, al giudizio morale, all'ingrandimento bozzettistico o all'osanna per riempirla.

Gli autori, d'altronde, non cedono mai neppure ad alcuna noiosa cautela, non sanno cos'è la freddezza, perché muovono da una conoscenza completa dei materiali e delle fonti (anche inedite, come certe splendide lettere) e dalla semplice consapevolezza di avere a che fare con uno degli intellettuali più alti del secolo passato. 

Il Benjamin che ci ridanno è il pensatore appassionato, lo scrittore dalle più scritture, il critico della modernità, ma anche il campione della più ermetica riservatezza, l'amico di molti talenti, l'uomo dall'andatura impacciata, l'amante quasi immateriale, il marito difficile, "el miserable", come venne soprannominato a Ibiza dalla gente per la sua aria infelice e malandata. Se un tema accomuna i momenti di una vita così fervida e inquieta sia mentalmente sia geograficamente è proprio il bisogno; e la depressione, le fantasie suicide, che finirono per vincere su qualunque ipotesi di futuro.



Il Sole 24 ore – 11 gennaio 2015

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