Attraverso i suoi segni Mirò creò una “scrittura” fatta di
simboli e figure ricorrenti. È un linguaggio per tutti, che
sostituisce parole usurate. La lingua degli uccelli di cui parlavano gli alchimisti, dei bambini e dei folli.
Tiziana Migliore
Quell’alfabeto che incantò anche Queneau
Il vezzo di considerare l’arte campo dell’ineffabile, dell’emozione soggettiva, dell’abbandono lirico, ha impedito di notare un’operazione unica nel Novecento. Joan Miró ha inventato una lingua per figure. Non una scrittura privata né un repertorio di marche stilistiche, ma un linguaggio per tutti, visibile e dicibile, che recupera le qualità sensibili e affettive del rapporto con le cose.
Riscoprire “l’infanzia
del mondo” – il modo cognitivo di sintetizzare e simbolizzare –
e retroagire sulle parole, che, usurate, hanno perso energia
figurativa e potere di significare. Il rigenerarsi dell’uomo passa
attraverso questa invenzione. Inventare alla maniera delle origini:
manipolare, sperimentare, cimentarsi con concetti e strumenti.
Raymond Queneau ha chiamato i segni di Miró “miroglifici”. L’alfabeto è tutt’altro che misterioso. Si compone di figure in metamorfosi, secondo un ciclo non biografico, ma biologico: nascita, crescita, assestamento, destino. Cambiano nel tempo, come gli esseri viventi, mantenendo inalterati certi tratti.
Queneau aveva frequentato
Miró a Varengeville, in Normandia, dove entrambi si erano rifugiati,
nel 1939, per l’avanzata delle truppe tedesche. Ricorda una frase
dell’artista, mentre alcuni amici passavano nelle mani della
Gestapo: «il coraggio consiste nel restarsene a casa, accanto alla
natura che non tiene conto dei nostri disastri».
Se gli altri surrealisti
partivano dai resti dei materiali invecchiati e l’insieme di
elementi singolarmente realistici negava il realismo in generale
(Leroi-Gourhan), Miró apre una strada vergine. “Poeta preistorico”
(Queneau), ma anche oulipista, ripensa il nostro dare senso ai segni.
Prende a modello gli ecosistemi naturali.
La ricerca di Miró
comincia dalla terra. La casa di famiglia di Montroig è il soggetto
di tre varianti successive – La fattoria (1921-1922), acquistata da
Ernest Hemingway, Terra arata (1923-1924) e Paesaggio catalano ( Il
cacciatore) (1923-1924) – che avviano un processo di
geometrizzazione e spoliazione. Un iter analogo agli studi di
Mondrian sull’albero, con la differenza che qui l’analisi della
forma espressiva provoca un cambiamento sul piano del contenuto.
Dal 1940, tramite il
disegno, ha inizio un’attività di vaglio e riordino: alcune figure
vengono scartate, altre si impongono in modo stabile. Emergono una
grammatica del miró – norme di funzionamento – una sintassi –
regole di combinazione – e una scrittura, tipografia e calligrafia
che insonorizzano il lettering: volume, timbro, ritmo. I miroglifici
sono configurazioni primigenie tese fra la terra e il cielo. Tredici
in tutto, sette organiche – l’occhio, il cuore, il piede, la
mano, il seno, l’organo genitale maschile, l’organo genitale
femminile – e quattro cosmiche – il sole, la luna, l’uccello e
la stella. Termine “neutro”, né organico né cosmico, è la
scala dell’evasione, che collega i due poli; termine “complesso”,
organico e cosmico, è la spirale.
Un foglio preparatorio
dello spettacolo L’Oiseau ( 1968) fornisce lo schema: un carosello
dove ognuno di questi segni è accompagnato dal suo nome e che però,
in se, non spiega nulla. Occorre guardare le opere. La serie delle
Costellazioni, con astri-radici di patate, è un atlante di
combinatorie di elementi. Dal 1937 gli autoritratti sono “panorami”
di miroglifici.
Negli anni Settanta il
segno diventa gesto e la pittura simula la coltivazione della terra.
Duchamp era sicuro che Miró esprimesse una “cosmogonia estranea
alla pura astrazione”. Per il suo compleanno, nel 1947, gli regala
una cravatta con scena di paesaggio. Dono di scambio. La cravatta,
“forma-principio” della Macinatrice di cioccolato (1913) e del
Grande Vetro (1915-23), è un glifo duchampiano. Noi siamo pronti a
imparare il miró?
La Repubblica – 26
novembre 2014
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