14 gennaio 2015

REALTA' E FANTASIA IN IMITATION GAME





Gabriele Beccaria

Chi era il vero Turing oltre la fiction del cinema?

Finzione e verità si confondono e l’effetto della mostra «The Imitation Game» è un seducente gioco di specchi: a Bletchley Park la realtà è sempre stata un confine sfuocato, manipolato da migliaia di personaggi bizzarri, come militari, matematici, linguisti, criptoanalisti. E adesso uno dei luoghi più segreti della Seconda Guerra Mondiale è diventato un museo e, soprattutto, una meta di massa. Di tanti turisti, improvvisamente colti da attacchi di frenesia.

Sedotti dal film omonimo, affollano «The Imitation Game», l’esposizione che fino al prossimo novembre racconta la storia - tragica e grandiosa - di Alan Turing attraverso il kolossal che l’ha consacrato come una delle icone del XX secolo. Aggirandosi tra i costumi di scena del suo interprete, Benedict Cumberbatch, e le riproduzioni delle macchine «Enigma» e «The Bombe», si scivola rapidamente in una dimensione parallela, in cui è facile vivere i meccanismi dell’identificazione morbosa e dello spettacolo globale.



Accanto, però, ci sono altri luoghi, come la «Hut 6» e la «Hut 8», da poco restaurati, decisamente più sinistri: sono i laboratori dove il passato (quello autentico) non è stato graffiato dallo show e dove aleggia la vera eredità di Turing. Che è più complessa e contraddittoria di quanto il film diretto da Morten Tyldum riesca a suggerire.

Turing, in effetti, rimane un personaggio misterioso. Lo sostiene chi lo conosce meglio di tutti, il suo biografo, il matematico di Oxford Andrew Hodges, che è l’autore di «Alan Turing. Storia di un enigma», edito da Bollati Boringhieri. Proiettato periodicamente sul fronte della notorietà, nel 1952 per l’accusa di omosessualità (che in Gran Bretagna restò illegale fino al 1967) e la condanna alla castrazione chimica, nel 1954 per il suicidio con una mela avvelenata, nel 2009 per le scuse ufficiali a nome della nazione da parte dell’allora premier britannico Gordon Brown e nel 2012 per il centenario della nascita, solo di recente la percezione collettiva su di lui ha iniziato a trasformarsi. «Da zero fino a quella dell’eroe», sostiene lo stesso Hodges, ricostruendo i vagabondaggi di una mente imprevedibile.

Matematico straordinario, il sapere ortodosso considera Turing il padre dei fondamenti teorici che hanno scatenato la rivoluzione dei computer e allo stesso tempo il genio capace di infrangere il codice nazista generato dallo strumento «Enigma», dando un contributo fondamentale alla vittoria degli Alleati nel 1945. Fu lo stesso Winston Churchill a esaltarne i successi, definendoli «il singolo maggiore contributo alla causa della Gran Bretagna».

E tuttavia Turing pubblicò pochissimo rispetto all’oceano delle proprie intuizioni e delle proprie scoperte. Nonostante i citatissimi «papers» sulla computabilità del 1936 e sull’intelligenza artificiale del 1950, rinunciò a scrivere l’opera definitiva sulla scienza del computing per lanciarsi, dopo la guerra, in un’altra avventura, altrettanto incompiuta. Quella della biologia matematica che sarebbe sfociata nell’abbozzo di una teoria della morfogenesi.


Visionario, fin troppo, Turing lasciò un’eredità talmente profetica da non essere stata capita. Sarà riscoperta più tardi. Non a caso, quando negli Anni 50 il matematico Max Newman lo commemora a nome della Royal Society, lo descrive come un etereo logico matematico. E lascia a margine il contributo decisivo, quello noto con la formula di «Macchina di Turing», l’apparecchiatura ideale capace di manipolare i dati contenuti su un nastro potenzialmente infinito, secondo un insieme prefissato di regole. Così sconvolgente nelle applicazioni da essere stata a lungo alterata con l’aggiunta di una dieresi sulla «u» di Turing: un’allure teutonica per una teoria destinata a scatenare l’avventura di un’élite di cervelloni.

Saranno loro a edificare la «Cattedrale di Turing», come l’ha definita lo storico George Dyson: l’era digitale nasce ufficialmente negli Usa, a Princeton, nel 1951, quando diventa operativo il calcolatore «Maniac». John Von Neumann è uno degli architetti, tra i pochi capaci di mettere mano alla cattedrale che Turing svuotò di dèi e riempì di numeri, ma che non riuscì mai a godersi.

La Stampa TuttoScienze – 14 gennaio 2015

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