12 gennaio 2015

LETTERA APERTA AGLI AMICI FRANCESI




Le idiozie di Houellebecq, la violenza, il dialogo, la fraternité: una lettera agli amici francesi

di Giacomo Sartori


Cari amici francesi, vi scrivo perché vi conosco, perché vi amo. I vostri principi mi hanno formato, io che venivo da un paese con flebili e spesso pusillanimi valori e un ineluttabile disprezzo per l’individuo, per il comune cittadino, per l’essere umano non legato a nessuna combriccola e parrocchia (ciò che io ero e sono), per le mie capacità, per la mia laicità, e mi hanno ridato la fiducia nell’esistenza. Io a voi devo tutto. Il vostro esempio e le vostre battaglie hanno aperto la strada a quello che è diventato il mondo nel quale viviamo, che ha certo molti difetti, ma che almeno in certi paesi (che sono in realtà sempre di più), ha permesso a tante persone di vivere una vita degna, creandosene da soli il senso, liberati da quella che è stata per secoli la schiavitù morale e sociale della religione. Ma lasciando la libertà, a chi vuole, di vivere in pienezza una propria esperienza religiosa o spirituale. Io non sono un intellettuale, queste cose non le ho imparate all’università, le ho respirate per la strada e ai banconi dei bar, nei letti nei quali ho dormito, nelle canzoni che ho ascoltato, nei fiati delle persone che ho conosciuto. Certo, ho anche letto molti romanzi e molte poesie, e da autodidatta qualche libro più teorico, ma la mia vera scuola sono stati i vostri esempi, che mi hanno appunto salvato la vita. Perché tutto questo voi lo avete nel sangue. Gli italiani questa libertà la respirano, quando sono fortunati, sui banchi liceali o universitari (la maggior parte di loro, a cominciare da tanti governanti e uomini potenti, non l’ha mai incrociata). Per questo vi ammiro, come si ammirano coloro che sono per certi versi più fortunati, ma anche pronti a condividere la loro ricchezza. Intendiamoci, non sto mitizzando la vostra situazione, conosco bene i limiti delle vostre istanze e i tanti problemi nei quali vi dibattete (molti dei quali appartengono del resto a dinamiche transnazionali), le vostre abissali contraddizioni.
Cari amici francesi, considerate, vi sembrerà incongruo che lo dica ora, che ogni forma di terrorismo ha una sua parabola, che è una infernale discesa verso la sconfitta. Quando il terrorismo colpisce duro, e mostra la sua sete di sangue, come è successo adesso, è che ha cominciato, sta cominciando, a perdere. Colpisce degli innocenti, si accanisce anzi su chi gli è più vicino (i dissacranti disegnatori sterminati – nessuno coglie questo aspetto – erano gli unici che, a loro modo, dialogavano da pari a pari con il radicalismo islamico: anche l’essere nemici è un legame, e non parliamo dell’accanimento), perché proprio questi potrebbe instaurare un dialogo (una vignetta sbracatamente o scatologicamente satirica è pur sempre dialogo). Ha bisogno di farlo, per alimentare la propria folle illusione, la propria irrealistica strategia. È successo in Italia, è successo in Spagna, è successo in tanti paesi dell’America Latina, in Algeria, in molti altri paesi. Più si dibatte più ha sete di sangue e più commette azioni repellenti. E più è cruento più riduce, più si taglia il ramo sotto i piedi, più si avvia verso la propria drammatica estinzione. Il destino di ogni terrorismo è quella di respingere e ridurre viepiù la propria base, di allontanarsi sempre più non solo con dalla società, ma da chi all’inizio lo vedeva di buon occhio, o comunque come un membro della famiglia. Quell’idiota e sopravvalutassimo scrittore che è Houellebecq – al secolo Michel Thomas, nato in un “dipartimento d’oltremare”, transitato nell’infanzia, per un altro, guarda caso, l’Algeria – agita lo spettro del dominio islamista, e certo ora nei suoi deliri alcolici crederà di aver visto giusto, e invece quello che è successo dimostra l’impotenza di chi questo miraggio lo sogna e lo vorrebbe.
Cari amici francesi, il giorno dopo dell’eccidio di Charlie Hebdo mia moglie, anche lei francese, e che lavora in un istituto tecnico “difficile”, ne ha parlato con tutti i suoi studenti. In ogni classe c’erano almeno alcuni alunni che simpatizzavano con gli assassini, in qualche classe uno o due allievi prendevano apertamente posizione per loro. Non fingete che non sia così (c’è appunto chi queste situazioni le conosce a menadito), prendete atto che è questo il vero problema, e non abbiatene paura. Uscite dalle vostri privilegiate torri di avorio, andate a parlare con questi ragazzi, che sono francesi esattamente come voi lo siete. Cercate di capirli, provate in tutti i modi a farli cambiare idea. Mia moglie in una giornata di battaglie verbali c’è riuscita. Ha trasformato un clima di violenza in uno di dialogo rispettoso, e perfino di affetto reciproco (quella che la vostra fondamentale rivoluzione ha battezzato fraternité, e che negli ultimi decenni avete perso per strada, tutti presi dalla liberté). Si è dovuta arrendere solo con un ragazzo, che inneggiava apertamente e con modi inaccettabili all’assassinio, e che ha dovuto essere allontanato (se ne è poi occupato il preside, grande e ammirabile dialettico). Ma con molti altri ha vinto lei. Fatelo anche voi. Non vi sarà facile, perché avete tanti pregi ma anche pregiudizi e tanta boria. Nelle vostre politiche quotidiane pensate anche a loro, soprattutto a loro.
Cari amici francesi, io non vi parlo del vostro modo con il quale siete usciti dal vostro passato coloniale, e dal suo fulcro simbolico, la guerra d’Algeria (quale è l’origine delle famiglie dei ragazzi che hanno fatto questo massacro, ci avete pensato?), senza mai fare i conti (proprio come noi dal fascismo; e non a caso nei due casi è dai nodi non risolti che nasce la violenza), non parlo dei ghetti che avete creato nelle periferie delle vostre ricche città, dove quasi nessuno ha la pelle chiara, della spirale materialista nella quale vi siete lasciati prendere, della vostra deriva verso una nuova oligarchia che i poveracci e gli esclusi li ha a stento sentiti nominare, della vostra incapacità di far accedere grosse fette di vostri cittadini a questa vostra nuova follia, di farli vivere come vivete voi. Non vi parlo della vostra difficoltà a confrontarvi con pratiche sempre più diffuse – al vostro stesso interno, nelle vostre cerchie – che non sono un rigurgito religioso, come avete tendenza a chiamarle, sono percorsi spirituali, quasi sempre areligiosi, legittimi e per certi versi ammirabili (perché l’uomo, e ce ne accorgiamo adesso che ci siamo liberati dai poteri religiosi, senza spiritualità è destinato al suicidio). Non vi parlo delle religioni, che da sempre si sono piegate, come è successo in passato alla nostra, e come sta succedendo all’islam, a ogni tipo di strumentalizzazione del potere e legate alle dinamiche sociali. Illustri storici, filosofi, sociologi, etnologi, psicanalisti, potrebbero farlo mille volte meglio di me. E soprattutto questo non è il momento. Vi dico solo, in maniera intuitiva, che quello che è successo prova che in qualche modo siete corresponsabili.
Non sto giustificando la violenza non fraintendetemi. Sto dicendo che la violenza nasce quando non c’è più dialogo. E se non c’è più dialogo la colpa non sta mai da una parte sola, sta da entrambe le parti. È successo in Italia quarant’anni fa, e voi avete saputo evitarlo proprio perché avevate una classe politica più elevata e perché nel vostro genoma culturale c’erano degli anticorpi, su quel terreno lì, che hanno disinnescato sul nascere la scintilla della violenza. Da noi nessuno ha provato davvero a parlare a chi simpatizzava con la lotta armata (l’unico che aveva la statura e la libertà di spirito per cimentarsi, Pasolini, era morto, non a caso di morte violenta), e anzi ogni parte si chiudeva in rigidità che nei fatti hanno alimentato la violenza. A destra come a sinistra. Sento già il coro nostrano che mi accusa di giustificare la violenza, e allora invito ad andare in biblioteca e riaprire i giornali (io l’ho fatto) del tempo: l’incredibile violenza non stava da una parte sola, stava egualmente nella becera classe politica, nel linguaggio usato negli articoli dei quotidiani, veri e propri bollettini di guerra, nell’aria che si respirava. Ma appunto la violenza chiama violenza, aizza quella tragica discesa agli inferi, quel crescendo di bestialità, che è l’ineluttabile destino di ogni dinamica terrorista. Quella stessa crescente bestialità che conduce al graduale assottigliamento della base di simpatizzanti senza la quale essa non può sopravvivere, né materialmente-logisticamente, né “politicamente”. Adesso la bomba è innescata, nessun artificiere, nessuna polizia o forza speciale, non illudetevi, possono togliervi dalle peste. Sta a voi, a tutti voi (non sarà certo la vostra oligarchia politica, preoccupata prima di tutto di salvaguardare i propri interessi, e si compiace della propria “fermezza”), a ognuno di voi, provare a limitare i danni, cercare di tenere aperto il dialogo. In nome appunto di questa parola d’ordine che avete messo in soffitta, la fraternité, e di quell’altra, l’egalité. È molto difficile, lo so.
Cari amici francesi, questo è un momento molto delicato per voi, un momento in cui la forza delle vostre sacrosante ragioni può essere controproducente. Questo è il momento di pensare ai vostri torti e alle ragioni degli altri, sforzo che non è affatto in contraddizione con la fierezza per quello che siete e per la vostra tradizione laica. Si può essere fieri e nello stesso tempo umili, aperti alle istanze dell’altro. Voi avete ragione, ma avete anche grossi torti. Questo è il momento di non chiudervi, di non arroccarvi. Se vi arroccate, come già sembrano fare i vostri governanti, ma anche molti di voi (non parlo ora di tutti quelli attratti dalla destra xenofoba), l’incendio sarà molto cruento. In altre occasioni della vostra storia, anche recente, avete saputo farlo.

Questo pezzo, scritto prima delle enormi e determinatissime marce di ieri, senza precedenti, e dell’incredibile serata su France2-France Inter-France Culture, un vero soprassalto di cultura laica e senza veli di sorta, ma anche tollerante, anch’essa senza precedenti, sulle quali ci sarebbe molto da dire, è stato pubblicato, sempre ieri, sul quotidiano “Il Trentino”. Noi l'abbiamo ripreso dal sito 
http://www.nazioneindiana.com/

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