Fin dal liceo ho considerato Leopardi più un grande filologo e saggista che un poeta. Ho sempre preferito il suo Zibaldone e le sue Operette morali a suoi Canti (di cui salvo solo L'infinito!).
Nietzsche definì
Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo». Forse, di
sicuro uno scrittore non addomesticabile. Per questo lo abbiamo amato.
Emanuele Trevi
Leopardi era uno di
noi?
Senza mezzi
termini, Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del
XIX secolo». Credo che non si trattasse di una provocazione.
Riconosceva in Leopardi qualcosa che gli assomigliava in maniera
profonda e vincolante. Una prodigiosa capacità di sovvertire i
luoghi comuni e le abitudini del pensiero in entrambi si era
sviluppata nella più severa e conservatrice delle palestre mentali:
la filologia classica.
Un’indefessa attenzione
al significato delle parole li aveva trasformati in eretici e in fin
dei conti in emarginati. Furono talmente soli che la loro solitudine
risalta più sul metro delle amicizie che delle inimicizie, perché
anche coloro che li compresero e li ammirarono rimasero molto al di
sotto delle vette che avevano raggiunto.
Si può immaginare che
Nietzsche, quando parla del «prosatore» Leopardi, non lo voglia
contrapporre all’amato Stendhal, incapace di scrivere versi, né
voglia dichiarare una preferenza per le Operette morali a scapito dei
Canti . Il «prosatore», in qualunque maniera si esprima, è colui
che antepone la verità dei fatti della vita a ogni forma di
consolazione.
Questo amore della verità gli impedisce ogni forma di compromesso con il mondo, nel quale non ha chiesto di nascere e che di sicuro non è stato creato per lui. Ma soprattutto, l’esistenza, se considerata con occhi spogli da illusioni e ottimistiche chimere, non prevede nessun tipo di progresso.
La vita naturale è cieca
ripetizione, così come tutte le ideologie politiche che aspirano a
una felicità collettiva poggiano su una premessa illogica. Come si
può immaginare una «massa» di uomini felici, scrive Leopardi in
una famosa lettera, se quella «massa» è composta da singoli
individui, che non possono che essere infelici?
Il 5 dicembre 1831,
quando scrive queste parole a Fanny Targioni Tozzetti, Leopardi ha
raggiunto il vertice della sua consapevolezza umana e filosofica. È
davvero il più grande «prosatore», e pensatore, del suo tempo: un
uomo che punta i piedi, che sa che il male è il male e che mai si
potrà mischiare al bene in un’improbabile sintesi, religiosa o
politica che sia. Che cosa resta da fare? Le soluzioni non possono
che variare a seconda dei singoli caratteri.
Quanto a lui, ha deciso di imitare «i Turchi» con la loro sana abitudine «di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Bisogna sempre stare attenti all’italiano di Leopardi, così vicino alle più pure sorgenti dei significati delle parole.
Così, quando in una
poesia definisce la vita «stupenda», significa che la vita suscita
stupore. E il contemplare «stupidamente» il ridicolo dell’esistenza
sarà tutt’altro che un atteggiamento stupido.
Ma come poteva essere
tollerato, questo impareggiabile «Turco», finito come un grano di
pepe nella marmellata ottimista del suo tempo? E non si tratta solo
dell’ingenuo e fervido Ottocento. La realtà è che ancora oggi
quell’uomo spietato non lo possiamo tollerare. Continuiamo a
interpretarlo tirandolo per la giacca.
La gran parte della
critica leopardiana è un immane tentativo di razionalizzazione e
addomesticamento. In tutte le salse: incredibilmente, non sono
mancate la socialista e addirittura la cattolica. Ma non è vero
niente: lui non era dei nostri, non era come noi. Non ci teneva
minimamente.
Il Corriere della sera –
25 gennaio 2015
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