Il secondo comandamento
di Raffaele Alberto Ventura
[Di ritorno dalla gigantesca
processione parigina per le vittime degli attentati di questa settimana,
provo a dire alcune cose che mi sembrano importanti: per il futuro,
poiché il passato non si può cambiare]
«Avete voluto uccidere Charlie ma
lo avete reso immortale»: eccolo qua, riassunto in uno slogan di
piazza, il capolavoro dei fratelli Kouachi. Hanno preso di mira un
giornale che si stava spegnendo nell’indifferenza generale e lo hanno
resuscitato a colpi di kalashnikov. Adesso le folle si precipitano in
edicola per acquistare Charlie Hebdo, il governo annuncia
finanziamenti milionari e le caricature del Profeta vengono pubblicate
ovunque. Ma chi crede che questo rinculo costituisca una sconfitta per
il terrorismo evidentemente conosce male il terrorismo, la sua storia, i
suoi meccanismi. Il terrorismo è una strategia di mobilitazione delle
masse: provocare la ritorsione fa parte della sua ragione d’essere. Spingendoci ad abbracciare l’ambigua battaglia di Charlie Hebdo ovvero
a fare della blasfemia una bandiera della libertà d’espressione, i
fratelli Kouachi hanno scaraventato l’Occidente in una trappola
insidiosa. La storia delle guerre civili europee del Sedicesimo secolo
avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sui modi più ragionevoli di
armeggiare con le divinità degli altri. Per questo non possiamo salire
sul carro dei vignettisti-martiri. Per questo non possiamo dare il
nostro sostegno a chi vuole rendere «immortale» Charlie e le sue
provocazioni. E per questo cercheremo di spiegare a chi lo ha pervertito
il senso di un concetto fondamentale per la sopravvivenza di questa
nostra malandata società multiculturale: si chiama laicità.
Sotto nessun aspetto quello che è
successo a Parigi può essere considerato come un «atto di guerra» come
sostengono alcuni apprendisti stregoni, perché sfugge a qualsiasi logica
militare. La sua logica è un’altra ed è appunto quella tipica del
terrorismo: si tratta di un atto di violenza il cui obiettivo non è
tanto di fare un danno all’avversario quanto di provocare una rappresaglia. In
Francia ci sono oggi, secondo gli analisti, diverse centinaia di
potenziali jihadisti, forse 2000: se costoro vogliono sperare di fare
una guerra devono necessariamente sperare nella radicalizzazione di un
numero ben più importante di musulmani. I terroristi devono dunque
catalizzare su costoro la violenza dell’avversario. Devono alimentare
l’odio inducendo la Francia a entrare in conflitto con la popolazione
musulmana; e di rappresaglia in ritorsione, riusciranno forse a
convertire una parte pacifica della popolazione in soldati per la loro
guerra. Le provocazioni simboliche e gli «atti linguistici» non sono
inoffensivi in questo meccanismo di escalation.
Le cosiddette avanguardie partigiane
sono, scriveva Mao, «dei pesci nell’acqua»: ovvero sono circondati da
una popolazione più o meno connivente. È ovvio ed evidente che la
maggior parte dei musulmani francesi non prova nessuna simpatia per
l’operazione dei fratelli Kouachi, ma è ragionevole credere che i
terroristi godano di qualche supporto negli ambienti salafisti radicali.
Lo Stato francese ha oggi il compito difficile di smantellare una rete
terroristica presente sul suo territorio senza tuttavia fare il gioco
dei terroristi. Come scriveva David Galula nel suo testo classico del
1964, Contre-Insurrection: Théorie et pratique, basta una
mobilitazione iniziale di poche centinaia di persone (300-400 ai tempi
dell’Algeria) per inaugurare una spirale di violenza che può sfociare
nella guerra totale: è quindi fondamentale neutralizzare queste avanguardie senza farsi strumento della loro volontà di contagiare il resto della popolazione.
Le strategie insurrezionali di
mobilitazione hanno già dimostrato, in passato, la loro efficacia.
Recuperando la lezione di Mao, Osama Bin Laden ha insistito sul ruolo
del terrorismo nel manifestare la violenza dell’avversario: non nel causare, non nel produrre, bensì nel mostrare una violenza latente che
l’avversario teneva nascosta ma che gli appartiene intrinsecamente. È
proprio dovendo svelare il suo lato più mostruoso che l’avversario
mostra la sua debolezza e subisce un danno politico, finendo per
ingrossare le file dei terroristi. Se la guerra, secondo la definizione
di Clausewitz, è «un atto di forza per costringere l’avversario a
compiere la nostra volontà», il terrorismo è molto più insidioso, perché
costringe l’avversario a compiere la sua stessa volontà. Nelle sue Raccomandazioni Tattiche del 2002 Bin Laden scriveva:
La più grande
conseguenza positiva degli attacchi di New York e Washington è stata di
avere dimostrato la realtà del combattimento tra i crociati e i
musulmani, di avere rivelato l’ampiezza del rancore che i crociati
serbano verso di noi. Gli attacchi hanno tolto la pelle di pecora di cui
si ammantava il lupo ed è apparso il suo vero volto. Tutto il mondo s’è
svegliato, i musulmani hanno preso coscienza dell’importanza della
dottrina dell’alleanza con Dio
.
Costretto ad esercitare un potere sempre
più insostenibile, l’avversario perde progressivamente la propria
legittimità. Perché la legittimità è fondata sulla giustizia che il
soggetto politico è in grado di esercitare e di garantire, e il
terrorismo rende impossibile l’esercizio della giustizia. Il terrorismo — lo abbiamo visto dopo il 2001, con la reazione degli Stati Uniti e la contro-reazione dell’opinione pubblica mondiale — serve a rendere ingiusta la vittima. D’altra
parte l’avversario non può non reagire all’attacco terroristico, perché
da un punto di vista strettamente materiale ha subito un danno
(economico, umano, morale) che deve restituire se non vuole essere, a
lungo termine, annientato. Per fare un esempio molto concreto, citeremo
la situazione degli ebrei in Francia, che i fondamentalisti musulmani
considerano un bersaglio legittimo e che lo Stato francese non può certo
abbandonare al loro destino, come invece profetizza Houellebecq nel suo
romanzo Soumission. Ma come proteggerli, come proteggerci? La
strategia terroristica limita le possibilità dell’avversario entro un
doppio vincolo, che lo costringe a fare ciò che il terrorista vuole da
lui: reagire. Oppure ciò che il terrorista vuole da lui: subire. Si
sente spesso usare come argomento che facendo oppure non facendo una
certa cosa «vincono loro»: e invece, a quanto pare, loro vincono in ogni
caso. Il terrorismo, dicevamo sopra, è una trappola.
L’ovvia conseguenza della rappresaglia è
l’ingrossamento delle file dei terroristi, il passaggio dalla parentela
alla connivenza all’appoggio alla mobilitazione totale. Per ogni
vittima c’è una famiglia che piange e maledice. La conseguenza positiva
degli attacchi del 2001, scriveva Bin Laden, è di avere rinforzato la
fraternità tra i musulmani, di avere svegliato il mondo. Così, proprio
come la mitica Idra, per ogni testa mozzata se ne guadagnano di nuove.
Perché allora si dovrebbe temere la spada dell’avversario? La strategia
terrorista non è altro che un sacrificio umano su vasta scala, un
olocausto propiziatorio. Il martire non testimonia soltanto della fede
nella propria causa, ma soprattutto testimonia della violenza che
subisce. Catalizzandola su di sé, nella forma della rappresaglia, la
rende riconoscibile. Il martirio è la traccia scavata dell’avversario,
la testimonianza della sua atrocità impressa nella carne e nel sangue di
chi l’ha scatenata. Nello stesso tempo, è l’avversario a specchiarsi
nella vittima, e così nutrire il proprio senso di colpa, minare il
proprio morale e demobilitare il proprio esercito.
Confrontati alla minaccia del
terrorismo — e più ancora alla minaccia della paranoia globale, che
sfocia nella rappresaglia preventiva come sistema di governance mondiale
— il vero sforzo cui siamo chiamati è il contenimento del male oscuro
che il terrorismo è qui per scatenare: la nostra volontà, il nostro vero
volto.
La società francese ha già iniziato le
sue rappresaglie con atti d’intimidazione rivolti ai luoghi di culto
musulmani. Ma c’è un altro genere di rappresaglia, che a molti sembrerà
veniale, eppure può avere conseguenze piuttosto serie: si tratta della
banalizzazione della blasfemia — o persino la sua istituzionalizzazione visto che lo Stato francese ha deciso di finanziare Charlie Hebdo perché continui a vivere — anzi addirittura la sua sacralizzazione,
visto che a quanto pare senza questa libertà la République perderebbe
un suo principio fondamentale e non negoziabile. Una risolutezza davvero
sorprendente, visto che la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo e del Cittadino del 1789 si esprimeva chiaramente sulla
questione in tutt’altro senso. Chiaramente, s’intende, per chi dispone di una soglia di attenzione superiore alle dieci parole:
Art. 10. — Nessuno
deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la
manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla
Legge.
Che l’ordine pubblico sia stato turbato è
fuori di dubbio: e questo più volte fin dal 2006, data della
pubblicazione delle prime caricature di Maometto, fino al tragico
episodio del 7 gennaio 2015. Da molti anni la libertà d’espressione di Charlie Hebdo non era più una questione di diritti astratti, ma di puro e semplice enforcement. Se
ci sono persone disposte a morire per uccidere qualcuno perché ha
insultato il Profeta, allora di tutta evidenza sono oggettivamente
venute a mancare le condizioni di questa libertà. Se lo Stato francese
non ha il controllo del proprio territorio, è inutile che pretenda che esista un
certo diritto. Se la soluzione proposta è militarizzare la società,
riempire le strade di poliziotti e proteggere ogni persona con una
guardia del corpo, forse stiamo sbagliando qualcosa.
Molte delle vignette di sostegno
realizzate in seguito all’attentato giocano, in maniera non sempre
originalissima, sull’analogia tra armi e matite, tra violenza e satira.
Esprimono un messaggio in qualche modo contraddittorio: da una parte
segnalano la sproporzione tra l’atto di disegnare e l’atto di uccidere, e
dall’altra suggeriscono l’idea che l’arte sia più forte del terrorismo
(perché influisce sulle coscienze e trasforma la realtà). Insomma il
disegno sarebbe contemporaneamente inoffensivo e offensivo. E quindi,
dal punto di vista del terrorista, bersaglio illegittimo e bersaglio
legittimo. Di sicuro non si può negare che i disegni di Charlie — e
le bestemmie in generale — siano «atti linguistici» ovvero segni che
producono effetti reali e concreti sulla realtà, vere e proprie azioni
sotto forma di disegno. Charlie Hebdo viveva fortemente
quest’ambiguità, questo essere a metà strada tra «stiamo soltanto
facendo dei disegnini scemi» (come ha dichiarato il disegnatore Luz dopo
l’attentato) e «stiamo combattendo una guerra santa in nome dei valori
dell’illuminismo» (come sembrava credere il direttore Charb).
Al lettore italiano bisogna fornire un poco di contesto: che cos’è Charlie Hebdo o
meglio cos’era? Proviamo a raccontarlo brevemente, senza peli sulla
lingua, come avremmo potuto farlo prima del terrificante massacro
costato la vita a otto membri della sua redazione e altre quattro
persone, tra le quali una guardia del corpo e un agente di polizia. Un
massacro che, come spesso accade, ha finito per alterare la percezione
della realtà e diffuso una ricostruzione mitologica dei fatti.
Charlie Hebdo è il giornale simbolo della stagione libertaria degli anni Settanta: in un certo senso una reliquia. Fallito
una prima volta nel 1981 e rifondato nel 1992, il settimanale
continuava a essere pubblicato malgrado la fuga di lettori e le
conseguenti difficoltà finanziarie. Nel corso degli anni Duemila la
nuova leva dei Philippe Val e dei Charb aveva individuato nell’Islam un
bersaglio privilegiato, recensendo positivamente La rabbia e l’orgoglio di
Oriana Fallaci e avvicinandosi al pensiero degli intellettuali
neo-conservative americani. Processato e assolto per incitazione
all’odio religioso per via della pubblicazione delle prime caricature di
Maometto nel 2006, il direttore Val ha promosso un manifesto «contro
l’oscurantismo islamista», firmato tra gli altri da Bernard-Henry Lévy e
Ayaan Hirsi Ali, che equiparava a dei terroristi i musulmani che
protestavano contro le vignette. Sebbene ancora considerato di sinistra,
nel 2009 Val è stato nominato dal presidente Sarkozy alla testa della
radio pubblica France Inter e lì si è distinto per una gestione
considerata dai più come pesantemente filogovernativa. Insomma chi
rimprovera alla destra italiana di «recuperare» Charlie dovrebbe
chiedersi se egli stesso non stia «recuperando» qualcosa di cui, di
tutta evidenza, non conosce granché…
In nome della libertà d’espressione, Charlie Hebdo ha
pubblicato decine di caricature blasfeme e una versione a fumetti della
vita di Maometto, calcando tanto più la mano quanto aumentavano le
proteste, le minacce, le aggressioni, gli attentati e i morti nelle
manifestazioni in tutto il mondo islamico. Per un giornale in difficoltà
economiche, era anche un modo di cercare un’esposizione mediatica
necessaria alla sopravvivenza. Nel 2012 il deputato Daniel Cohn-Bendit,
storica figura del maggio francese, ebbe a definire i redattori di Charlie «coglioni
e masochisti» per via della loro ostinazione. Questa ostinazione si è
trasformata negli anni in una vera e propria vocazione al martirio, come
testimoniavano le dichiarazioni del nuovo direttore Charb, un
«monaco-soldato» come lo ha definito la compagna Jeannette Bougrab,
ex-segretario di stato sotto Sarkozy.
Sicuramente sbaglia sotto vari aspetti
chi afferma che i giornalisti «se la sono cercata», dando un giudizio
morale che rischia di giustificare ex post l’azione dei
terroristi. Anche Gesù Cristo «se l’è cercata»; qualunque persona che
muoia in battaglia, invece di starsene tranquillamente a casa, «se l’è
cercata». È un modo scorretto di porre la questione. C’è molto eroismo
nel comportamento di Charb, ma questo non significa che dobbiamo
condividere la sua battaglia. Un martirio non dovrebbe rendere giusta la propria causa per virtù retroattiva: se crediamo che le idee di Charlie fossero
sbagliate e i loro «atti linguistici» pericolosi, se lo abbiamo detto e
ripetuto più volte negli anni scorsi, dobbiamo continuare a dirlo. Se
crediamo che una censura preventiva avrebbe potuto salvare delle vite,
come spesso ha fatto la censura ai tempi delle guerre di religione
europee, dobbiamo continuare a dirlo. E così facendo non diremmo
qualcosa di «oscurantista» ma, al contrario, qualcosa di totalmente
coerente con i principi della civiltà giuridica occidentale. Primo,
perché la Legge non serve a punire i colpevoli sulla basi di un giudizio morale, tutt’altro: serve a proteggerli. Come
il marchio di Caino, deve impedire le ritorsioni e arrestare il ciclo
della violenza. Secondo, perché la laicità non è quella cosa che
pretendono alcuni.
Laicità non è il diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione. Per
come è stata sviluppata all’epoca delle guerre di religione, la laicità
è un dispositivo utile a disinnescare i conflitti sociali. Si tratta di
estromettere la religione dallo spazio pubblico, e questo include anche un tipo di presenza della religione particolarmente insidioso: la bestemmia. Se
in molti ordinamenti la bestemmia è punita severamente è perché le sue
conseguenze sono serie e incalcolabili. In simili situazioni, ostinarsi a
difenderla «per principio» — senza valutare le conseguenze — è puro
e semplice fondamentalismo.
Quando poi si tratta di un
fondamentalismo «a targhe alterne», che si concede la libertà soltanto
su certe cose, allora finisce per non essere altro che il segno della
dominazione di una maggioranza atea o secolarizzata su una minoranza di
credenti. In quell’atto linguistico, per una sorta di convenzione linguistica,
questi credenti non leggono soltanto un’offesa a Dio ma un’offesa alla
loro identità. Qualcuno si stupisce e s’indigna di tanta ingenuità.
Eppure le bestemmie sono convenzioni e atti linguistici proprio come
come quei propositi che i tribunali sanzionano e quelle sentenze che i
tribunali emettono. In un mondo sociale tenuto in piedi dalla
«documentalità» come direbbe Maurizio Ferraris, sono fatti non meno reali degli altri.
Oggi si pretende dai musulmani non
soltanto di «dissociarsi» da un atto terroristico del quale non hanno
nessuna responsabilità, ma inoltre di proclamare «Io sono Charlie» e di
rinunciare a ogni rivendicazione in materia di regolamentazione degli
atti linguistici. Addirittura si colpevolizzano tutti coloro che sono
scesi in piazza contro le caricature nel 2006, come se fossero stati
loro ad armare la mano dei fratelli Kouachi. Eppure queste
rivendicazioni e queste manifestazioni restano legittime. La posta in
gioco non è spirituale ma del tutto terrena e politica: i musulmani
vedono nella disomogeneità della libertà d’espressione una misura della
loro marginalizzazione. Se la Francia sceglierà di ostinarsi nel
considerare accettabile la bestemmia, contribuirà a indebolire le
posizioni dei musulmani moderati. Esibendo l’incompatibilità tra Islam e
République, mostrando il suo «vero volto di lupo», farà il gioco della
strategia di mobilitazione terroristica. È accettabile che si pretenda
dalla comunità musulmana di proclamare «Io sono Charlie» per manifestare
l’orrore di fronte al massacro della redazione di Charlie Hebdo,
ma non è pensabile costringerli a promuovere e finanziare (con le loro
tasse) un giornale che li ha eletti a bersaglio ideologico. Una umma
sottomessa e umiliata è nuova acqua per fare nuotare i pesci
dell’estremismo.
Quello che viene chiamato «ateismo» è
oggi un’ideologia tra le tante che si affrontano nello spazio pubblico, e
in quanto tale non può servire da koiné condivisa. La sola koiné adatta
per una società multiculturale è quel sistema di meta-regole che
abbiamo chiamato laicità, la cui sostanza stava già tutta nel secondo
comandamento dato a Mosé: Non nominare il nome di Dio invano. Non nominare il tuo Dio, se ce l’hai, e soprattutto non nominare quello degli altri. A senso unico non funzionerà mai.
Nel fuoco delle guerre di religione, la modernità politica era sorta ponendosi proprio questi problemi*. Quello
che succede oggi con la satira succedeva allora con gli spettacoli. Il
caso inglese è piuttosto interessante, perché in pochi decenni la
necessità di regolare gli atti linguistici dà forma al teatro moderno,
come luogo e come insieme di dispositivi che servono al controllo della
parola pubblica. Prima della Riforma, in Inghilterra tutte le attività
drammatiche erano eventi occasionali, che cadevano sotto la
responsabilità di chi li aveva commissionati: re, nobili, città, chiesa…
È solo con Enrico VIII che gli spettacoli diventano una preoccupazione
del monarca, eppure dai numerosi documenti amministrativi prodotti sulla
questione si capisce che il problema non è politico ma sociale, di
ordine pubblico (spesso assimilato al vagabondaggio o alla
prostituzione).
La legge fa cambiare gli spazi, i tempi,
i temi, il rapporto con il testo scritto… All’intervento regolatore di
Enrico VIII dobbiamo la morte del più popolare dei generi teatrali
dell’epoca, il mistero, e la nascita del dramma moderno di cui
presto Shakespeare sarà il più illustre rappresentante. Ma tutto nasceva
dall’urgenza d’impedire quello che oggi chiameremmo turbamento
dell’ordine pubblico: nel 1541, tre attori erano stati bruciati dalla
folla a Salisbury per avere messo in scena una farsetta giudicata
eretica in cui dei preti venivano sbeffeggiati. Forse ci ricorda
qualcosa? Nel 1543 la rappresentazione di un mistero causa una
sedizione, ed è lì che il Re decide di proibire ogni spettacolo che
abbia a che fare con l’interpretazione delle Scritture. Negli anni
seguenti si continuerà a legiferare e perseguire le infrazioni, finché
non viene istituito un sistema centralizzato di emissione di licenze,
presieduto dal cosiddetto Master of Revels, il grande censore
di corte. Poiché ci restano i documenti e ne abbiamo pure letto
qualcuno, sappiamo anche quale fosse il principale oggetto della
censura: le bestemmie.
Era, questa, una concezione della
libertà d’espressione figlia di una società lacerata. Abbiamo potuto
abbandonarla via via che ne scomparivano le cause. La secolarizzazione
del cristianesimo aveva poco a poco cancellato ogni rischio di
«turbamento dell’ordine pubblico» legato alla blasfemia, e così la
giurisprudenza ha totalmente eroso la legislazione in materia. Ma se i
paesi ricchi credevano di poter far affluire sul loro territorio milioni
di stranieri a cui affibbiare le peggiori mansioni e contemporaneamente
conservare intatto un ordinamento giuridico pensato per un diverso tipo
di società, evidentemente hanno fatto male i loro conti di bottega.
Forse hanno fatto eccessivo affidamento sulle capacità dei loro sistemi
educativi di assimilare in maniera indolore i loro nuovi cittadini.
Oggi le società occidentali sono
costrette a rispolverare i libri di Storia per trovare soluzioni nuove
ad antichi problemi che tornano all’ordine del giorno. Di fronte a
un’aggressione terroristica che la spinge a ostinarsi nella difesa di
quelli che crede essere i suoi principi, la Francia non deve fare
l’errore di cedere alla propria volontà. Perché è la stessa dei suoi
nemici.
11 gennaio 2015
*Per ulteriori esempi rimando al mio ebook Forza d’Arte: dal secolo delle guerre di religione al tempo dei conflitti irregolari
Articolo tratto da: http://www.leparoleelecose.it/
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