24 gennaio 2015

UOMINI E STELLE


L'adorazione del sole e della luna era considerata dai greci una usanza da barbari, con Pitagora inizia una certa reverenza nei confronti dei pianeti, a cui Platone attribuisce natura divina. poi arriva Roma sotto il segno del Toro. Una breve storia dell'astrologia da Babilonia a Goethe.

Raffaele Salinari

Stelle vagabonde e culto dei presagi



“­Perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia tra­sci­nato a pro­strarti davanti a quelle cose e a ser­virle…”. Così nella Bib­bia, (Deu­te­ro­no­mio IV, 19) si afferma la gerar­chia infles­si­bile tra il vero ed unico Dio e l’influsso degli astri sulla vita degli uomini, stig­ma­tiz­zando al contempo coloro i quali la met­tono in dubbio.

Eppure ogni ini­zio di anno l’astromantica, l’antico ten­ta­tivo della mente umana di uni­fi­care scienza e fede per leg­gere negli astri in perenne movi­mento gli auspici delle cose, ritorna con le rin­no­vate pre­vi­sioni dei suoi alma­nac­chi e dei relativi oro­scopi.

Ma tutto que­sto non doveva soc­com­bere defi­ni­ti­va­mente di fronte alla nascita della nuova teo­lo­gia cri­stiana, all’unico vero figlio del Dio che non poteva ammettere altro potere sul creato se non il suo? Com’è stato pos­si­bile che que­sta antica arte si sia pro­gres­si­va­mente inse­diata sino al cuore di quella reli­gione mono­tei­sta a dispetto dei det­tami biblici e dei desi­de­rata di San Paolo, il fon­da­tore della Chiesa isti­tu­zio­nale e della sua teo­lo­gia politica?

La nascita del Sal­va­tore stesso, infatti, venne annun­ciata ai maghi orien­tali proprio da un astro mobile, com­parso per l’occasione nel fir­ma­mento delle stelle fisse, e Cal­dei erano coloro i quali, leg­gendo il lin­guag­gio del cielo, ave­vano seguito il segno, giun­gendo a Betlemme con i loro doni.

L’origine: Babi­lo­nia

L’astrologia, cioè l’arte di trarre dai corpi cele­sti i segni della loro influenza sulle vicende umane, nasce nell’antica Meso­po­ta­mia, nel regno tra i due fiumi, dove un’atmosfera straor­di­na­ria­mente lim­pida, arro­ven­tata da un sole sfol­go­rante, fa appa­rire le masse cele­sti ancora più vicine e potenti. Già Dio­doro siculo, nella sua Biblio­theca Histo­rica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testi­mo­nianza: «I Caldei, che tra i Babi­lo­nesi sono i più anti­chi, ten­gono in quel Paese il posto che in Egitto
si arro­gano i sacer­doti… si appli­cano per tutta la vita agli studi filo­so­fici e traggono prin­ci­pal­mente assai glo­ria dall’astrologia. E come molto si occu­pano dell’arte divi­na­to­ria, pre­di­cono le cose future, e cer­cano, o con le espia­zioni, o con i sacrifici, o con certi incan­te­simi, di allon­ta­nare le cat­tive vicende o di farne seguire le buone.

E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed inter­pre­tano i sogni ed i pro­digi, e cer­ta­mente ven­gono repu­tati pro­feti esatti».

Pro­ba­bil­mente Dio­doro, come molti altri stu­diosi della tarda anti­chità, conoscevano bene le tra­di­zioni meso­po­ta­mi­che in fatto di astro­lo­gia, astro­no­mia ed astro­man­tica; un patri­mo­nio scon­fi­nato di osser­va­zioni oggi solo in minima parte con­ser­vate al Bri­tish Museum come parte della biblio­teca di re Assur­ba­ni­pal (668–626 a.C.). Ma quali erano gli oggetti delle inter­pre­ta­zioni astro­lo­gi­che? Il flusso dei venti, le piogge o le sic­cità, la pesco­sità dei fiumi, la pre­senza o meno degli animali, i giorni pro­pizi e quelli infau­sti per ogni sin­gola atti­vità umana, le cagioni di fortune e disgra­zie, di salute e malat­tia, di nascita o di morte, i segni per inco­min­ciare o ter­mi­nare pra­ti­ca­mente tutte le atti­vità da trarre secondo par­ti­co­lari fenomeni natu­rali o cele­sti. E dun­que non solo di sin­goli oro­scopi si trat­tava, bensì di previsioni su un futuro gover­nato dagli astri.

I pia­neti (in greco antico πλάνητες ἀστέρες , cioè plà­nē­tes asté­res, stelle vaga­bonde) inda­gati erano quelli visi­bili ad occhio nudo già nell’antichità: la Luna, il Sole, Venere, Marte, Giove, Saturno, Mer­cu­rio. Essi si muo­ve­vano sul piano dell’eclettica «entrando» di volta in volta nei dodici segni dello zodiaco, già nominati nell’epopea di Gil­ga­mesh, in rela­zione ai quali erano osser­vati. Quando esattamente que­ste rela­zioni furono fis­sate non è dato sapere, ma certo nel 2000 a. C. già si sapeva che Venere è sia la stella del mat­tino che quelle della sera «Che il sol vagheg­gia or da coppa or da ciglio», come ci ricorda Dante nel Para­diso (VIII, V 12).

L’arte di inter­pre­tare le stelle deve poter pre­ve­dere anche la dire­zione che dal cielo pren­de­ranno i peri­coli incom­benti o le pro­spet­tive salu­tari. Ed ecco che a Babi­lo­nia nasce la geo­gra­fia astro­lo­gica, in cui il mondo cono­sciuto viene diviso in quat­tro Paesi cor­ri­spon­denti alle regioni cele­sti: Akkad, cioè Babi­lo­nia stessa, a sud; Subartu, ad est di essa, si estende sino all’altopiano armeno ed al Mar Caspio; a nord tro­viamo Elam, cioè una parte della futura Per­sia ed infine, ad ovest, Amurru, cioè l’Occidente, com­presa la Siria e la Palestina.

Ad ognuno di essi veniva asse­gnato un pia­neta o una costel­la­zione: Giove, ad esem­pio, è anche chia­mato stella di Akkad, Marte stella di Amurru, men­tre le Pleiadi sono asse­gnate ad Elam. Si svi­luppa, da que­sta tetra­par­ti­zione, anche una divi­sione tem­po­rale, in cui alcuni giorni erano più fau­sti o vice­versa per ognuna delle aree geo­gra­fi­che corrispondenti.

Tutto que­sto è com­pren­si­bile solo alla luce della reli­gione astrale che domi­nava la vita degli anti­chi Babi­lo­nesi. Ad ogni pia­neta, infatti, non cor­ri­spon­deva una divinità, ma erano i pia­neti stessi ad esserlo, trac­ciando nel cielo le loro immu­ta­bili «strade» attra­verso le quali influen­za­vano la vita degli uomini e di tutto il mondo loro sot­to­stante.

L’esempio più noto, e stu­diato, di que­sta iden­tità, è cer­ta­mente quello tra Venere ed Ish­tar, dea dell’amore e della pro­crea­zione, bene­fica al Paese quando concede le pro­prie gra­zie, dispen­sa­trice di aiuto e di gua­ri­gione, patrona della vege­ta­zione. È lei l’ipostasi babi­lo­nese dell’archetipo che gene­rerà l’Afrodite greca e poi la Vergine Maria madre di Dio, ultima imma­gine del Prin­ci­pio di cura e manu­ten­zione del Mondo, epi­gona della Grande Madre che ai pri­mordi della spi­ri­tua­lità umana ne domi­nava le visioni.

Manca tut­ta­via una cono­scenza sicura di que­ste cor­ri­spon­denze tra divi­nità e pia­neti; pos­siamo forse dire che l’antichissima triade divina Anu, dio del cielo; Enlin, cioè il Signore per anto­no­ma­sia, dio della terra, ed Ea dio degli abissi marini, altro non fos­sero che rife­ri­menti alle diverse «case» che i grandi pia­neti occu­pa­vano nello zodiaco. Anche le divi­nità legate al Sole, in sume­rico Utu ed in semi­tico Shamash erano riflessi delle qua­lità dell’astro splen­dente, della sua capa­cità di dare morte con la sic­cità o vita con il suo calore.

Gene­ral­mente beni­gna, e par­ti­co­lar­mente osser­vata, era infine la Luna, figura della notte che, nella meta­mor­fosi con­ti­nua delle sue mani­fe­sta­zioni, ben si incardinava nella mute­vole vita del mondo sub­lu­nare. Anche Giove, pia­neta di Marduk, onni­sciente crea­tore del cosmo, vivi­fi­ca­tore dei morti, veniva influen­zato dalla sua vici­nanza o meno con l’alone lunare.

Divi­nità minori, nel pan­teon assiro babi­lo­nese, erano legate ad altre stelle, capaci di pro­durre figure demo­nia­che, metà uomo metà ani­male, o sem­pli­ce­mente esseri mostruosi. Que­ste entità, gene­ral­mente mal­vage, veni­vano esor­ciz­zate da preghiere ed amu­leti astrali, gene­rati per atti­rare le forze beni­gne e dun­que cam­biare di segno all’influsso.

La gene­ra­zione di oggetti ed iscri­zioni apo­tro­pai­che trova la sua massima espres­sione nelle pie­tre di con­fine data­bili XIV secolo a. C., in cui ven­gono raffigurati i sette grandi dei come amma­lati, cui ven­gono affian­cati testi esor­ci­stici che chia­mano alla loro gua­ri­gione attra­verso la cosid­detta «pre­ghiera della levata di mano», un rito di puri­fi­ca­zione che tro­viamo tra­scritto in un fram­mento a lettere cunei­formi in cui Assur­ba­ni­pal si rivolge ad Orione in que­sto modo: «Parla, e che i grandi dei siano con te! Levati e dammi il tuo ora­colo!… Accetta la mia levata di mano, ascolta la mia pre­ghiera! Scio­gli il mio incan­te­simo, annulla i miei peccati!».
Ritro­ve­remo que­sti stessi demoni all’interno delle cat­te­drali medioe­vali, quelle goti­che in par­ti­co­lare, come espres­sione diretta dell’influsso orien­tale astrologico che, tra­mite le Cro­ciate, si era mosso verso Occidente.

«La vene­ra­zione del cielo stel­lato» dice Julius Wel­lhau­sen, noto bibli­sta tede­sco del secolo scorso «era così radi­cata nei Semiti, che anche per i mono­tei­sti Ebrei rimase sem­pre una grande ten­ta­zione, dell’aver resi­stito alla quale Giobbe così si vanta: Vedendo la luna avan­zare solenne il mio cuore non ne è stato segre­ta­mente sedotto e non ho man­dato baci con la mano».

Gli astri nell’antica Grecia

Come arriva l’astrologia nella Gre­cia clas­sica, terra della razio­na­lità spe­cu­la­tiva, della filo­so­fia come amore del Vero? Certo agli inizi della civiltà minoica, quella illuminata dalle tau­ro­ca­tap­sie dedi­cate alle ipo­stasi terio­morfe della Grande Dea, sospesa sulla sua alta­lena nella forma umana, non vi è trac­cia di culti cele­sti. Il Sole e la Luna restano sullo sfondo di quell’arte visio­na­ria che ancora, anche se mercé il papavero, aveva accesso diretto alla visione della Dea come sca­tu­ri­gine del Tutto.

La stessa reli­gione greca, dopo che i Dori hanno colo­niz­zato l’Ellade, non trae impulso dagli astri. Le divi­nità gre­che sono figure che non nascono o muo­iono con o nella natura, come la Luna o il Sole quando scom­pa­iono dalla vista degli uomini, ma hanno una esi­stenza eterna indi­pen­dente da tutto.

Zeus nella sua forma defi­ni­tiva, antro­po­morfa, di capo degli dei, non è il cielo splen­dente, anche se il suo nome in ori­gine, all’alba del lin­guag­gio, quando esi­ste­vano le parole-aggettivo, i primi sin­tagmi come li aveva descritti Saussure, que­sto signi­fi­cava. Ari­sto­fane dice chia­ra­mente che l’adorazione del Sole e della Luna sono usanze dei barbari.

Ovvia­mente i mari­nai Greci si orien­ta­vano con le stelle, come pure i contadini trae­vano i segni delle sta­gioni dall’osservazione del cielo, ma in que­sto rapporto mera­mente pra­tico non vi è nulla di religioso.

Certo nel cosid­detto medioevo Greco, dall’anno mille sino agli albori della filosofia jonica, quella dell’elemento uni­fi­cante del Cosmo, del Prin­ci­pio Primo, il luccichio delle stelle poteva allu­dere e susci­tare un sen­ti­mento mistico, ma erano elementi che mai por­ta­rono ad una reli­gio­sità astrale: al mas­simo sen­ti­menti poe­tici, come ben ci dice Omero nei suoi versi dell’Iliade (VIII, vv. 762–770): «Quando in ciel tersa è la Luna e tre­mule e vez­zose a lei din­torno sfa­vil­lano le stelle… in cor ne gode l’attonito pastore». Il sag­gio vian­dante jonico, ci dicono Boll, Bezold e Gun­del nel loro Sto­ria dell’astrologia, non vene­rava nep­pure il ter­ri­bile Sirio che con la sua appa­ri­zione in luglio suscita i feb­brili giorni della cani­cola (dalla costel­la­zione del Cane).
Lo stu­pore atto­nito con cui nel 648, il poeta Archi­loco vede mani­fe­starsi l’eclissi di sole, «tra­di­sce tutto al di fuori del reve­ren­ziale timore del padre Zeus». È vero che gli jonici ave­vano anch’essi osser­vato le stelle, traen­done cal­coli per le eclissi come nel caso di Talete, ma mai que­ste nozioni furono usate per far cor­ri­spon­dere ai feno­meni cele­sti il destino degli uomini. Certo la man­tica era dif­fu­sis­sima in Gre­cia, e spesso por­tenti cele­sti erano inter­pre­tati come segni divini: ful­mini e tuoni appar­ten­gono a Zeus, la caduta di un meteo­rite suscita il timore del pro­lun­garsi di una guerra, e ancora nel 463 a.C. Pin­daro scrive per i tebani un inno inteso a pla­care l’ira degli dei dopo una eclissi.

Anas­sa­gora vede nel cielo la sua patria, ma in nes­sun caso que­sti afflati religiosi tra­di­scono un rap­porto spe­ci­fico fra i feno­meni e la volontà degli dei inscritta nel cielo: sono solo effetti col­la­te­rali delle loro volontà supe­riore. «Di una tecnica per inter­pre­tare in base ad essi il futuro», dicono ancora gli autori della Storia dell’astrologia, «e di una cre­denza nel destino fis­sato nel fir­ma­mento, non vi è trac­cia».

Natu­ral­mente la dot­trina dei giorni fau­sti e di quelli con­trari era nota ai greci dell’antichità, e dun­que certi influssi, in par­ti­co­lare di pro­ve­nienza Egi­ziana, si face­vano sen­tire. Ma è con le con­qui­ste orien­tali di Ales­san­dro Magno e, ancor più, con le dot­trine filo­so­fi­che di Pita­gora, che i pia­neti entrano nella vita dei greci. Vi è in que­sto filo­sofo un chiaro timore reve­ren­ziale per gli astri, per la sublime bellezza del Cosmo, l’intuizione e poi la sco­perta di certe leggi, a par­tire dalle corrispondenze musi­cali, che rego­lano tutto il creato. Que­sta cor­rente di pen­siero sarà ripresa in epoca romana da Cice­rone quando afferma che «nel cielo nulla ha luogo a caso e senza un dise­gno prestabilito».

Ma sarà la crisi spi­ri­tuale del mondo Greco del VI secolo a.C. con la nascita dell’orfismo, a dare alle dot­trine pita­go­ri­che della rein­car­na­zione e dello studio delle immu­ta­bili leggi cosmi­che, la forza del misti­ci­smo astro­lo­gico, il culto di quelle «divi­nità visi­bili» che erano i pia­neti e le stelle.

Que­sto nascente inte­resse per l’osservazione astrale, unito alla sem­pre presente razio­na­lità del pen­siero greco, por­terà nel II secolo a.C. Ari­starco di Samo ad espel­lere la Terra dal cen­tro del cosmo ed ad adot­tare una ipo­tesi elio­cen­trica molti secoli prima di Copernico.

Giun­giamo così a Pla­tone ed alla sua Acca­de­mia che aveva ripreso alcuni concetti pita­go­rici arri­vando a dichia­rare la natura ani­mata e divina dei pia­neti, principio ripreso anche dal suo disce­polo Ari­sto­tele che, pur cri­ti­cando il Mae­stro su molti punti, tiene anch’egli ferma «la stu­penda armo­nia, come in volon­ta­ria osservanza alla legge che tutto governa, che espri­mono ogni notte i pianeti».

Apo­teosi, è il caso di dirlo, di que­sta con­ce­zione pla­to­nica, è la com­piuta espressione della natura astrale dell’anima, ognuna legata ad una stella diversa, espressa nel Timeo (41 E), ove il Demiurgo asse­gna ad ogni anima una stella come vei­colo: «Dopo che ebbe costi­tuito tutto, lo divise in anime, tante quante erano gli astri, distribuì cia­scuna anima a cia­scun astro, e postele in tal modo come su un vei­colo, mostrò loro la natura del cosmo e disse loro le leggi del Fato».

È l’idea dell’astrum in homine: la ricerca della pro­pria stella inte­riore come riflesso di quella fitta entro il macro­co­smo cosmico; la ritro­ve­remo anche in Para­celso e, più in gene­rale, in tutto il neo­pla­to­ni­smo rina­sci­men­tale, da Mar­si­lio Ficino a Pico della Mirandola. Arri­viamo così a Teo­fra­sto, allievo di Ari­sto­tele, che nomina espli­ci­ta­mente i Cal­dei ed esprime ammi­ra­zione per la loro arte; ed alla fine del periodo ellenistico saranno le invin­ci­bili legioni di Roma a mostrare il segno del Toro sui loro stendardi come emblema di Cesare, raf­fi­gu­ra­zione della con­giun­zione con la reg­genza di Venere sotto la quale era nata la gens del grande con­dot­tiero. Ritro­ve­remo questa raf­fi­gu­ra­zione nel Palazzo Schi­fa­noia di Ferrara.

Augu­sto farà pub­bli­care il suo oro­scopo col segno del Capri­corno, sua costellazione natale: le tita­ni­che forze astrali dell’Oriente hanno alla fine vinto l’originaria razio­na­lità Greca e sono pas­sate vit­to­riose a con­qui­stare Roma. La cometa apparsa nel cielo dopo l’uccisione di Cesare viene inter­pre­tata da tutti come sidus Julium: prova sicura dell’assunzione del dit­ta­tore tra gli astri che domi­nano l’Universo. Il gio­vane Otta­viano, suo erede, si spinge oltre: vede nella cometa il pre­sa­gio della sua stessa ascesa. Nella vita di Tibe­rio sono gli oro­scopi a det­tare gli ultimi anni di regno. Non più Cosmo dun­que, ma ora­mai Uni­verso, que­sto cielo è una invenzione pret­ta­mente romana, un infi­nito rivolto da una parte sola, cioè rego­lato secondo leggi fer­ree il cui senso verrà deter­mi­nato dal nomos del più forte.

Nei secoli impe­riali il culto degli astri innerva ogni reli­gio­sità pagana. Il Pan­theon di Agrippa e di Adriano, con i suoi roson­cini a forma di stella e l’occhio solare da cui irrompe la luce, le sette nic­chie ori­gi­na­rie, altro non è che un tri­buto ai grandi astri che domi­nano il fato degli uomini; «alle­go­ria del cielo» lo chiama lo sto­rico Dione Cas­sio.

Ancora più avanti, ormai all’inizio della deca­denza impe­riale, il culto misterico-solare di Mitra, pro­ve­niente dall’Oriente, sus­sume len­ta­mente tutte le altre divi­nità; come ha detto Franz Cumont: «L’astrologia offre alla nuova reli­gione solare una teologia scien­ti­fica, ovvero la dimo­stra­zione scien­ti­fica di ciò in cui si crede». La luna, lo Zodiaco, il Sole, sono ele­menti fon­danti del culto di Mitra. La fede nel Sol Invictus, eretta a culto impe­riale dall’imperatore Aure­liano dopo la presa di Pal­mira nel 273 è l’ultimo atto della cre­denza pagana negli astri, tra­mon­terà col decreto di Teodosiano nel 391.

Tolo­meo ed il cristianesimo

La figura cen­trale dell’era cri­stiana in fatto di astro­lo­gia è cer­ta­mente Tolo­meo che, nel secondo secolo dopo Cri­sto, descrive l’Universo ordi­nato secondo la centralità della Terra: imma­gine che darà all’astrologia una base immu­ta­bile di osservazione sino alla rivo­lu­zione copernicana.

È di fronte a que­sta situa­zione che si trova a dover pro­fi­lare la sua alte­rità il cri­stia­ne­simo che deve affer­mare la nuova fede uni­ver­sale. Come altre religioni sote­rio­lo­gi­che esso offre la sal­vezza nel «regno dei cieli», dun­que oltre l’influsso degli astri e del fato. Paolo, con­sa­pe­vole che que­ste cre­denze nel potere degli astri, e la loro inter­pre­ta­zione, pote­vano minare alla base il destino della nuova istituzione eccle­siale, prende di mira diret­ta­mente l’astrologia nella let­tera ai Romani (I, 19–
21): «Poi­ché ciò che di Dio si può cono­scere è loro mani­fe­sto; Dio stesso lo ha mani­fe­stato a loro. Infatti le sue per­fe­zioni invi­si­bili, ossia la sua eterna potenza e divi­nità, ven­gono con­tem­plate e com­prese dalla crea­zione del mondo attraverso le opere da lui com­piute. Essi dun­que non hanno alcun motivo di scusa per­ché, pur avendo cono­sciuto Dio, non lo hanno glo­ri­fi­cato né rin­gra­ziato come Dio, ma si sono per­duti nei loro vani ragio­na­menti e la loro mente ottusa si è ottenebrata».

Qui si afferma per la prima volta l’amore di Dio con­tro le potenze degli astri e del destino: in seguito schiere di apo­lo­geti cri­stiani si ispi­re­ranno a que­sto passaggio per pro­cla­mare pec­ca­mi­nosa e ver­go­gnosa l’adorazione non di Dio ma del suo capo­la­voro, l’Universo, ele­vando così a falsi idoli il Sole e la Luna.

Eppure la forza del culto solare, dal mira­colo dell’eclissi alla morte del Cri­sto, Sole esso stesso immen­sa­mente lumi­noso ed eterno, pre­ce­duto dalla com­parsa della cometa che orienta i Magi verso la Nati­vità, spinge la Chiesa, secondo lo studioso Joseph F. Kelly nel 336, a rifarsi ad un passo del pro­feta Mala­chia che chiama Dio «Sole di giu­sti­zia», per fis­sarne la data di nascita il 25 Dicem­bre, cioè quello che per i pagani era il «gene­tliaco del sole», in quanto da quel giorno, il sol­sti­zio di Inverno, la luce aumen­tava: Lux crescit.

E così la Luce del Mondo, il Cri­sto, il Cri­stallo puris­simo degli alchi­mi­sti cri­stiani, non poteva che essere nato lo stesso giorno. Riflessi di que­sta sovrap­po­si­zione solare tra Gesù ed il Sole li ritro­viamo anche nel tede­sco Sonn­tag o nell’inglese Sun­day per dire dome­nica che ben più del «giorno del signore», ci dice dell’antica ori­gine del Natale, frutto dun­que dell’inesauribile luce delle stelle.

Certo alla fine ci furono degli acco­mo­da­menti teo­lo­gici per cui, a par­tire dall’epoca bizan­tina, ma ancor più dopo le Cro­ciate, si afferma il prin­ci­pio che Dio è in tutto e che dun­que anche negli astri è pos­si­bile leg­gere la sua volontà. Così già Origene sostiene che gli angeli pos­sono leg­gere nelle stelle il lin­guag­gio di Dio, come pen­sa­vano d’altra parte molti devoti; Giu­sti­niano però con­dannò que­sta visione.

Pas­sano i secoli e l’astrologia si insi­nua sal­da­mente nella reli­gio­sità cri­stiana: per il mistico poeta del Par­zi­fal Wol­fram von Eschen­bach (1170–1220 circa) «non è forse tutta la vita degli uomini rego­lata dal giro degli astri?». Anche i Car­mina Burana, gio­cano con l’azione degli astri nelle cose del mondo.
Nei secoli XV e XVI ora­mai il pre­sti­gio dell’astrologia è in costante aumento: Papa Giu­lio II fa cal­co­lare agli astro­logi il giorno pro­pi­zio alla sua inco­ro­na­zione, mentre Leone X (1475–1521) fon­derà addi­rit­tura una cat­te­dra di astro­lo­gia presso la Sapienza. Nelle uni­ver­sità di Bolo­gna, Padova e Parigi la scienza dell’interpretazione degli astri fio­ri­sce; in altre parti d’Europa pure: Ottone Enrico del Pala­tino (1502–1559) chiede ai suoi dotti di riu­nire i fram­menti sparsi di que­sta scienza in una grande libro miniato, Borso d’Este, a Fer­rara, siamo verso il 1470, fa dipin­gere nel famoso palazzo Schi­fa­noia i cele­bri affre­schi con gli Arcani Maggiori.

E così si arriva al Rina­sci­mento, al grande Pico della Miran­dola che, pur appa­ren­te­mente avver­sa­rio dell’astrologia — il suo Dispu­ta­tio­nes adversus astro­lo­giam divi­na­tri­cem verrà usato da Savo­na­rola per sca­gliarsi con­tro i maghi - immerge i suoi pen­sieri negli studi caba­li­stici e nella mistica pita­go­rica e platonica.

Iro­nia della sorte, la sua morte pre­coce (1494), che trova con­ferma punto per punto in un pro­gno­stico astro­lo­gico, smen­ti­sce alla radice la sua oppo­si­zione. Alcuni sosten­gono anche che sia stato avve­le­nato da Mar­si­lio Ficino pro­prio per la sua oppo­si­zione all’astrologia, ma que­sta è un’altra storia.

Lutero rico­no­sce un segno ammo­ni­tore di Dio nel temuto incon­tro di diversi pianeti nella costel­la­zione dei pesci, lascito della sapien­tis­sima astro­lo­gia araba, mentre Tycho Brahe, il grande astro­nomo scan­di­navo dichiara nella pro­lu­sione all’apertura dell’anno uni­ver­si­ta­rio del 1579, dopo la pub­bli­ca­zione del suo oro­scopo in onore del cri­stia­nis­simo Prin­cipe di Sve­zia e Dani­marca: «Dio ha così fatto gli uomini che, se vogliono, pos­sono vin­cere le fune­ste incli­na­zioni degli astri». Anche Copernico sarà un astro­logo, come Gali­leo, e per­fino Leib­niz in qua­lità di pre­si­dente della Acca­de­mia di Prus­sia, tol­lera ancora che i suoi calen­dari pre­sa­gi­scano il tempo dallo stato dei pianeti.

Venne poi ad abbat­tere ed oltre­pas­sare ogni soglia, illu­mi­nato dal fuoco della sua ese­cu­zione, il pen­siero di Gior­dano Bruno, il sin­cre­tico pro­feta astro­logo che però troppo lon­tano si era spinto a cer­care la fede nella «sag­gezza della Madre Materia». Pas­sano così i secoli e l’astrologia resta a pre­si­diare il cuore delle rela­zioni tra la terra ed il cielo col bene­pla­cito della Chiesa. Nep­pure l’Illuminismo poté darle il colpo defi­ni­tivo se, ancora ai primi del Nove­cento, Madame de Thè­bes riu­sciva a get­tare nel panico i fran­cesi con le sue pro­fe­zie da Pizia contemporanea.

Leo­pardi chia­ri­sce il suo pen­siero sugli oro­scopi nel cele­bre Dia­logo tra un viag­gia­tore ed un ven­di­tore di Alma­nac­chi: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si cono­sce, ma quella che non si cono­sce; non la vita pas­sata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso inco­min­cerà a trat­tar bene voi e me e tutti gli altri, e si prin­ci­pierà la vita felice. Non è vero?».

Ma è forse Goe­the, con il suo genio tol­le­rante e lo sguardo per­spi­cuo per tutto ciò che huma­nun est a dire la parola defi­ni­tiva: «La super­sti­zione astro­lo­gica si basa sull’oscuro senso di un uni­verso scon­fi­nato. L’esperienza inse­gna che le stelle più vicine hanno un influsso deci­sivo sul tempo, sulla vege­ta­zione etc… non c’è che da salire di grado in grado, sem­pre più in alto, e chi può dire dove que­sta azione cessi?».

Sì chi può dirlo? Il calen­da­rio di Frate Indo­vino, pub­bli­cato dal 1945 con rubriche quali «le stelle par­lano» o «vedo e pre­vedo», e che con­ti­nua a dif­fon­dere in sei milioni di copie ogni anno le ine­sau­ri­bili osser­va­zioni astro­lo­gi­che dei Frati Cap­puc­cini, non è forse rite­nuto da noi tutti, cre­denti e non, un testo di profonda sag­gezza che legge negli astri il Segno dei tempi?


Il manifesto – 10 gennaio 2015

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