17 gennaio 2015

NON AL DENARO NE' AL CIELO




Nel 1915 usciva Spoon River Anthology, opera poetica di un oscuro avvocato di Chicago. Il libro divenne da subito un best-seller. La collina immaginata da Edgar Lee Masters diventò negli anni un luogo letterario universale. Un grande scrittore inglese nel 1955 spiegò per radio perchè quel libro fosse ancora tanto attuale. Poi nel 1971 ce lo avrebbe ricordato De Andrè.

Dylan Thomas

Apologia di Spoon River


Anche se oggi i motivi di sospetto sono assai diversi da allora, quando Spoon River sfondò, con manifesto orrore della potente stampa parrocchiale, dei pulpiti di prateria, ma anche dei frastornati, smilzi, arcigni arbitri del gusto delle riviste letterarie, oltre che di innumerevoli associazioni di perbenismo militante.

Oggi, tra le migliaia di studenti universitari che assumono “poesia” in dosi massicce mi sembra assai difficile che qualcuno legga ancora l’ Antologia di Spoon River. Non credo che i workshop di poesia aggregati alle università e ai college privati la inseriscano nei loro programmi, se non come fenomeno di interesse storico minore: un libro scritto da un vecchio avvocato bohemien, che in tempi bui divagava declamando sul conflitto tra materialismo e idealismo: un conflitto ritenuto ormai obsoleto, tanto che probabilmente molti, in quei laboratori di poesia, lo considerano da tempo risolto in maniera soddisfacente.

È assai probabile che gli studenti, asettici energumeni esuberanti e ardenti, quarantadue denti e capelli a spazzola, ben decisi a inseguire l’arte della poesia con tanto di taccuino e reticella, flaconcino di veleno, etichette e spilloni, tendano ad accantonare Masters semplicemente perché in vita ha avuto tanto successo.

Come ho già notato, negli Usa moltissimi studenti si ingozzano religiosamente di poesia moderna, pur sostenendo con insistenza che le opere poetiche così devotamente lette e divorate da tanta gente siano per ciò stesso prive di valore. Ezra Pound, per esempio, può essere apprezzato solo da pochi, ossia da eserciti di cultori della cultura che ogni giorno si fanno strada attraverso i suoi Cantos, ostentando estatica comprensione.

Di Masters ho sentito dire che “ha avuto troppo successo per essere onesto”. Osservazione che ha del patetico, in bocca a un illuminato rappresentante di un Paese notoriamente non avverso al successo in qualsiasi campo della vita. Eppure, è grazie all’ironica onestà di Masters che il suo Spoon River è diventato così popolare tra i suoi detrattori. Sembra che gli americani amino molto essere presi a calci nei loro punti più sensibili. E quale luogo può essere più sensibile dell’arida, grande spina dorsale del Middle West?

Appena uscita, l’ Antologia di Spoon River fu acquistata e letta da molti per diverse ragioni, per lo più estranee al fatto indubitabile che quella era poesia. Molti lessero il libro per negargli questa qualità; altri, avendo scoperto che essenzialmente la possedeva, la contestarono a voce ancora più alta.

Davanti a quei versi arrabbiati, sardonici, toccanti, una delle principali reazioni era del tipo: «Ma sì, può darsi che effettivamente ci sia gente meschina e corrotta, fanaticamente cupa, rispettabile fino alla follia, malevola e scontenta in qualche piccola città dell’Illinois – ma non dove viviamo noi!», «L’Est è l’Est, l’Ovest è l’Ovest, ma il Middle West è terribile!».

Detto per inciso, non a caso negli Usa i luoghi più belli e più emozionanti sono invariabilmente designati come atipici, non veramente americani. Edgar Lee Masters, tipico uomo del Middle West, ne parlava con cognizione di causa; ma nel suo odio per l’arcigno, avvilente puritanesimo nel quale aveva dovuto dibattersi e ribollire c’era – né più né meno – qualcosa di ingannevole. «Ci conosce troppo bene, quel bugiardo!» era un atteggiamento molto comune.

Personalmente amo molto gli scrittori venuti dal Middle West negli anni dell’inizio della prima guerra mondiale. A prescindere dai luoghi comuni letterari sulla “vitalità da pionieri”, la “ruvida onestà”, l’”umorismo terragno”, le “imperiture tradizioni popolari” eccetera, è vero che personaggi come i radicali e gli iconoclasti delle piccole città di provincia, i giornalisti sportivi, i collaboratori del Reedy’s Mirror, i chiassosi e avvinazzati predicatori e atei di Chicago, i cantastorie e i professionisti scalcagnati hanno dato un apporto rude e benefico a una lingua che stava morendo in piedi – anzi, neppure sui propri, di piedi.

C’era soprattutto Edgar Lee Masters, missionario bilioso, caparbio oratore da comizio, contorto e magniloquente, acuto nei particolari dei suoi ironici ritratti, prodigo di astrazioni enfatiche, verboso ma anche conciso fino al grottesco: un uomo con un carattere che non avrebbe messo in vendita neppure per un patrimonio.

Nella sua raccolta di poesie, a parlare sono i morti della città di Spoon River , che dal cimitero sulla collina recitano i loro onesti epitaffi. O piuttosto, parlano con tutta la sincerità di cui sono capaci. Perché nella loro vita terrena sono stati sconfitti per essere stati onesti – e ciò li ha resi a volte acrimoniosi; o al contrario, disonesti – e di conseguenza ora sospettano delle motivazioni di chiunque altro.

In vita non erano riusciti a far pace con il mondo. Ora, da morti, cercano di far pace con Dio, magari senza neppure crederci. Qui giace il corpo di… Segue il nome, inciso con indifferenza dal marmista.

Masters interrompe l’iscrizione per subentrare, dopo il “qui giace”, con la sua versione aspra, dolente e compassionevole di una verità variegata. Non si era mai illuso che la verità fosse semplice e univoca, con valori chiaramente definiti. Sapeva che le vere motivazioni dell’affaccendarsi degli uomini sulla terra sono complesse e confuse, che l’uomo si muove misteriosamente quando si arrabatta per farsi valere, che il cuore non è solo un muscolo, una pompa da sangue, ma anche una vecchia palla umida e lanosa nel petto, dentro “l’orrendo fondaco di stracci e ossa”, per citare Yeats: ricettacolo di errori, tremenda costrizione che vive della sua ferita. E quel che più conta, sapeva che nelle persone la poesia esiste sempre – anche se non è sempre delle migliori.

Ha scritto della guerra tra i sessi. Dell’abisso tra gli uomini, creato dalle leggi degli uomini. Dell’incompatibilità tra quelli che trascorrono insieme le loro brevi vite per convenienza economica o solitudine, l’abissale e sempre crescente distanza dal primo, grave, casuale desiderio fisico materno. Non che i motivi di convenienza economica o di una voluttà occasionale, ma non per questo meno urgente, non possano di per sé condurre a uno stato di tranquillità tra due persone sperdute. Ma chi la vuole, la tranquillità? Meglio bruciare che sposarsi, se il matrimonio spegne le fiamme.

Ha scritto sullo spreco; su come l’uomo sperpera la sua vitalità nel perseguire ciniche futilità, sulle sue aspirazioni quando obbedisce alle cattive leggi, teologie, istituzioni sociali e discriminazioni; sulle ingiustizie, avidità e paure, costantemente e rancorosamente convalidate da tutti gli umani che in passato ne hanno sofferto, anche fino a morirne.

Ha scritto sulla dilapidazione dell’uomo, ma ad alta voce, maldestramente, grandezza di ciò che era avviato allo spreco. appassionatamente, ha reso omaggio alla possibile

Traduzione di Elisabetta Horvat
La Repubblica – 4 gennaio 2015

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