Nel 1915 usciva Spoon
River Anthology, opera poetica di un oscuro avvocato di Chicago. Il
libro divenne da subito un best-seller. La collina immaginata da
Edgar Lee Masters diventò negli anni un luogo letterario universale.
Un grande scrittore inglese nel 1955 spiegò per radio perchè quel
libro fosse ancora tanto attuale. Poi nel 1971 ce lo avrebbe
ricordato De Andrè.
Dylan Thomas
Apologia di Spoon
River
Anche se oggi i motivi di
sospetto sono assai diversi da allora, quando Spoon River sfondò,
con manifesto orrore della potente stampa parrocchiale, dei pulpiti
di prateria, ma anche dei frastornati, smilzi, arcigni arbitri del
gusto delle riviste letterarie, oltre che di innumerevoli
associazioni di perbenismo militante.
Oggi, tra le migliaia di
studenti universitari che assumono “poesia” in dosi massicce mi
sembra assai difficile che qualcuno legga ancora l’ Antologia di
Spoon River. Non credo che i workshop di poesia aggregati alle
università e ai college privati la inseriscano nei loro programmi,
se non come fenomeno di interesse storico minore: un libro scritto da
un vecchio avvocato bohemien, che in tempi bui divagava declamando
sul conflitto tra materialismo e idealismo: un conflitto ritenuto
ormai obsoleto, tanto che probabilmente molti, in quei laboratori di
poesia, lo considerano da tempo risolto in maniera soddisfacente.
È assai probabile che
gli studenti, asettici energumeni esuberanti e ardenti, quarantadue
denti e capelli a spazzola, ben decisi a inseguire l’arte della
poesia con tanto di taccuino e reticella, flaconcino di veleno,
etichette e spilloni, tendano ad accantonare Masters semplicemente
perché in vita ha avuto tanto successo.
Come ho già notato,
negli Usa moltissimi studenti si ingozzano religiosamente di poesia
moderna, pur sostenendo con insistenza che le opere poetiche così
devotamente lette e divorate da tanta gente siano per ciò stesso
prive di valore. Ezra Pound, per esempio, può essere apprezzato solo
da pochi, ossia da eserciti di cultori della cultura che ogni giorno
si fanno strada attraverso i suoi Cantos, ostentando estatica
comprensione.
Di Masters ho sentito
dire che “ha avuto troppo successo per essere onesto”.
Osservazione che ha del patetico, in bocca a un illuminato
rappresentante di un Paese notoriamente non avverso al successo in
qualsiasi campo della vita. Eppure, è grazie all’ironica onestà
di Masters che il suo Spoon River è diventato così popolare tra i
suoi detrattori. Sembra che gli americani amino molto essere presi a
calci nei loro punti più sensibili. E quale luogo può essere più
sensibile dell’arida, grande spina dorsale del Middle West?
Appena uscita, l’
Antologia di Spoon River fu acquistata e letta da molti per diverse
ragioni, per lo più estranee al fatto indubitabile che quella era
poesia. Molti lessero il libro per negargli questa qualità; altri,
avendo scoperto che essenzialmente la possedeva, la contestarono a
voce ancora più alta.
Davanti a quei versi
arrabbiati, sardonici, toccanti, una delle principali reazioni era
del tipo: «Ma sì, può darsi che effettivamente ci sia gente
meschina e corrotta, fanaticamente cupa, rispettabile fino alla
follia, malevola e scontenta in qualche piccola città dell’Illinois
– ma non dove viviamo noi!», «L’Est è l’Est, l’Ovest è
l’Ovest, ma il Middle West è terribile!».
Detto per inciso, non a
caso negli Usa i luoghi più belli e più emozionanti sono
invariabilmente designati come atipici, non veramente americani.
Edgar Lee Masters, tipico uomo del Middle West, ne parlava con
cognizione di causa; ma nel suo odio per l’arcigno, avvilente
puritanesimo nel quale aveva dovuto dibattersi e ribollire c’era
– né più né meno – qualcosa di ingannevole. «Ci conosce
troppo bene, quel bugiardo!» era un atteggiamento molto comune.
Personalmente amo molto
gli scrittori venuti dal Middle West negli anni dell’inizio della
prima guerra mondiale. A prescindere dai luoghi comuni letterari
sulla “vitalità da pionieri”, la “ruvida onestà”,
l’”umorismo terragno”, le “imperiture tradizioni popolari”
eccetera, è vero che personaggi come i radicali e gli iconoclasti
delle piccole città di provincia, i giornalisti sportivi, i
collaboratori del Reedy’s Mirror, i chiassosi e avvinazzati
predicatori e atei di Chicago, i cantastorie e i professionisti
scalcagnati hanno dato un apporto rude e benefico a una lingua che
stava morendo in piedi – anzi, neppure sui propri, di piedi.
C’era soprattutto Edgar
Lee Masters, missionario bilioso, caparbio oratore da comizio,
contorto e magniloquente, acuto nei particolari dei suoi ironici
ritratti, prodigo di astrazioni enfatiche, verboso ma anche conciso
fino al grottesco: un uomo con un carattere che non avrebbe messo in
vendita neppure per un patrimonio.
Nella sua raccolta di
poesie, a parlare sono i morti della città di Spoon River , che dal
cimitero sulla collina recitano i loro onesti epitaffi. O piuttosto,
parlano con tutta la sincerità di cui sono capaci. Perché nella
loro vita terrena sono stati sconfitti per essere stati onesti – e
ciò li ha resi a volte acrimoniosi; o al contrario, disonesti – e
di conseguenza ora sospettano delle motivazioni di chiunque altro.
In vita non erano
riusciti a far pace con il mondo. Ora, da morti, cercano di far pace
con Dio, magari senza neppure crederci. Qui giace il corpo di…
Segue il nome, inciso con indifferenza dal marmista.
Masters interrompe
l’iscrizione per subentrare, dopo il “qui giace”, con la sua
versione aspra, dolente e compassionevole di una verità variegata.
Non si era mai illuso che la verità fosse semplice e univoca, con
valori chiaramente definiti. Sapeva che le vere motivazioni
dell’affaccendarsi degli uomini sulla terra sono complesse e
confuse, che l’uomo si muove misteriosamente quando si arrabatta
per farsi valere, che il cuore non è solo un muscolo, una pompa da
sangue, ma anche una vecchia palla umida e lanosa nel petto, dentro
“l’orrendo fondaco di stracci e ossa”, per citare Yeats:
ricettacolo di errori, tremenda costrizione che vive della sua
ferita. E quel che più conta, sapeva che nelle persone la poesia
esiste sempre – anche se non è sempre delle migliori.
Ha scritto della guerra
tra i sessi. Dell’abisso tra gli uomini, creato dalle leggi degli
uomini. Dell’incompatibilità tra quelli che trascorrono insieme le
loro brevi vite per convenienza economica o solitudine, l’abissale
e sempre crescente distanza dal primo, grave, casuale desiderio
fisico materno. Non che i motivi di convenienza economica o di una
voluttà occasionale, ma non per questo meno urgente, non possano di
per sé condurre a uno stato di tranquillità tra due persone
sperdute. Ma chi la vuole, la tranquillità? Meglio bruciare che
sposarsi, se il matrimonio spegne le fiamme.
Ha scritto sullo spreco;
su come l’uomo sperpera la sua vitalità nel perseguire ciniche
futilità, sulle sue aspirazioni quando obbedisce alle cattive leggi,
teologie, istituzioni sociali e discriminazioni; sulle ingiustizie,
avidità e paure, costantemente e rancorosamente convalidate da tutti
gli umani che in passato ne hanno sofferto, anche fino a morirne.
Ha scritto sulla
dilapidazione dell’uomo, ma ad alta voce, maldestramente, grandezza
di ciò che era avviato allo spreco. appassionatamente, ha reso
omaggio alla possibile
Traduzione di Elisabetta
Horvat
La Repubblica – 4
gennaio 2015
Nessun commento:
Posta un commento